Fino a quanto si può spingere il diritto di critica del lavoratore?
Per la Cassazione:
Questa Corte ha già affermato che l'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali, sebbene sia garantito dagli artt. 21 e 39 Cost., incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana, sicchè, ove tali limiti siano superati, con l'attribuzione all'impresa datoriale od ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione (Cass. n. 7091 del 24/05/2001). Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-03-2016, n. 5523
In tema di licenziamento per giusta causa, quale fatto che non consenta la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l'esecuzione nel quadro dell'organizzazione aziendale. In tale ottica, la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana di cui all'art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale, dal momento che l'efficienza di quest'ultima riposa in ultima analisi sull'autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti, ed essa non può non ricevere pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca ai superiori qualità manifestamente disonorevoli. Cass. civ. Sez. lavoro, 11/05/2016, n. 9635
Costituisce comportamento gravemente lesivo del decoro e della reputazione di un istituto scolastico quello posto in essere dall'insegnante che si sia concretizzato nel sostenere, interloquendo con i genitori degli alunni, la notevole inadeguatezza dell'istituto e la carente preparazione didattica dei colleghi, con conseguente suggerimento, agli interlocutori, di iscrivere altrove i propri figli. Tale condotta, invero, integra certamente una violazione dei doveri fondamentali ed elementari di fedeltà e di correttezza che gravano su qualsiasi lavoratore, non potendo in alcun modo essere ricondotta, per la sua offensività, ad una legittima critica dell'operato della parte datoriale e legittima, in quanto tale, il licenziamento disciplinare dell'insegnante. Né, in senso contrario, può attribuirsi rilievo alla mancata esposizione del codice disciplinare, in quanto trattasi di inadempienze talmente gravi e plateali da non necessitare di alcuna pubblicità disciplinare, essendo intuitivo il dovere di eliminarle e, dunque, legittimo il recesso datoriale. Cass. civ. Sez. lavoro, 06/11/2013, n. 24989
L'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti della continenza sostanziale (nel senso di corrispondenza dei fatti alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva) e formale (nel senso di misura nell'esposizione dei fatti), si traducano in una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale - suscettibile di provocare, con la caduta della sua immagine, anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro - è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall'art. 2105 cod. civ., e può costituire giusta causa di licenziamento. Cass. civ. Sez. lavoro, 18/09/2013, n. 21362
L'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro incontra i limiti della continenza formale, che indica il carattere civile e misurato dell'esposizione, e della continenza sostanziale, che impone la necessaria veridicità dei fatti narrati. Ne consegue che costituisce comportamento in grado di vulnerare in modo definitivo la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione dell'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., e tale da legittimare la giusta causa di licenziamento, il superamento di detti limiti che si traduca non solo in una condotta idonea a screditare il datore di lavoro e a lederne l'immagine ma sia suscettibile di provocare anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro. Cass. civ. Sez. lavoro, 26/03/2013, n. 7499
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