sabato 11 giugno 2016

E’ reato minacciare di licenziamento un lavoratore se non accetta condizioni di lavoro vietate dalla legge?

Per Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 14-04-2016) 05-05-2016, n. 18727 un simile comportamento può determinare il reato di estorsione:

“In punto di diritto, va premesso che l'oggetto della tutela giuridica nel reato di estorsione è duplice, nel senso che la norma persegue l'interesse pubblico all'inviolabilità del patrimonio e, nel contempo, alla libertà di autodeterminazione.
L'evento finale della disposizione patrimoniale lesiva del patrimonio proviene, infatti, dalla stessa vittima ed è il risultato di una situazione di costrizione determinata dalla violenza o dalla minaccia del soggetto agente.
In particolare, il potere di autodeterminazione della vittima non è completamente annullato, ma è, tuttavia, limitato in maniera considerevole: in altri termini, il soggetto passivo dell'estorsione è posto nell'alternativa di far conseguire all'agente il vantaggio economico voluto ovvero di subire un pregiudizio diretto e immediato (tamen coactus, voluit).
3.1.2. In questa prospettiva, anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l'altrui volontà; in tal caso, l'ingiustizia del proposito rende necessariamente ingiusta la minaccia di danno rivolta alla vittima e il male minacciato, giusto obiettivamente, diventa ingiusto per il fine cui è diretto (cfr., Sez. 2, sent. n. 877 del 17/10/1973).
Allo stesso modo, la prospettazione di un male ingiusto può integrare il delitto di estorsione, pur quando si persegua un giusto profitto e il negozio concluso a seguito di essa si riveli addirittura vantaggioso per il soggetto destinatario della minaccia (cfr., Sez. 2, sent. n. 1071 del 05/03/1992): ciò, in quanto, la nota pregnante del delitto di estorsione consiste nel mettere la persona violentata o minacciata in condizioni di tale soggezione e dipendenza da non consentirle, senza un apprezzabile sacrificio della sua autonomia decisionale, alternative meno drastiche di quelle alle quali la stessa si considera costretta (cfr., Sez. 2, sent. n. 13043 del 07/11/2000, dep. 14/12/2000, Sala, Rv. 217508).
3.1.3. Si spiega così perchè la "minaccia", da cui consegue la coazione della persona offesa, possa presentarsi in molteplici forme ed essere esplicita o larvata, scritta o orale, determinata o indeterminata, e finanche assumere la forma di semplice esortazione e di consiglio.
Ciò che rileva, al di là delle forme esteriori della condotta, è, infatti, il proposito voluto dal soggetto agente, inteso a perseguire un ingiusto profitto con altrui danno, nonchè l'idoneità del mezzo adoperato alla coartazione della capacità di autodeterminazione del soggetto agente. Orbene, ritiene il Collegio che le osservazioni del ricorrente non scalfiscano in alcun modo la valenza motivazionale della decisione impugnata, la quale si fonda sul principale rilievo dell'irrilevanza del formale ricorso al contratto, allorchè questo risulta strumentalizzato al perseguimento di un ingiusto profitto.
Invero, nella sentenza impugnata (la cui lettura va integrata con quella della sentenza di primo grado in presenza di una c.d. "doppia conforme" in punto affermazione della penale responsabilità con riferimento ai reati di estorsione) viene tracciato, in maniera logica ed esaustiva, un quadro globale di timore dei dipendenti, in ragione della particolare situazione del mercato del lavoro (in cui l'offerta superava di gran lunga la domanda) e in presenza di comportamenti certamente prevaricatori del datore di lavoro, sì da rendere evidente che, anche nel caso in cui sin dal momento di instaurazione del rapporto il lavoratore avesse "accettato" di non rivendicare i propri diritti, siffatta accettazione non era libera, ma condizionata dall'assenza di possibilità alternative di lavoro.
Valga considerare che questa Suprema Corte è costante nel ritenere che un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell'accettazione da parte di quest'ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, non esclude, di per sè, la sussistenza dei presupposti dell'estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo, può essere usato per scopi diversi da quelli per cui è apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia, ingiusta, perchè è ingiusto il fine a cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa per le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche di un particolare settore di impiego della manodopera (cfr., ex plurimis, Sez. 2, sent. n. 3779 del 24/01/2003;
Sez. 1, sent. n. 5426 del 11/02/2002).
3.1.4. E' questione, poi, riservata al giudice del merito valutare se la condotta dell'imputato sia stata posta in essere nella sola prospettiva di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno, attraverso un comportamento che, al di là dell'aspetto formale dell'accordo contrattuale, ponga concretamente la vittima in uno stato di soggezione, ravvisabile nella alternativa di accedere all'ingiusta richiesta dell'agente o di subire un più grave pregiudizio, anche se non esplicitamente prospettato, quale l'assenza di altre possibilità occupazionali (cfr., Sez. 2, sent. n. 50074 del 27/11/2013, dep. 12/12/2013, Bleve e altro, Rv. 257984).
3.2. Orbene, nelle vicende in esame, i giudici di merito hanno ampiamente elencato e descritto i comportamenti prevaricatori del datore di lavoro in spregio dei diritti dei lavoratori, da rendere evidente, con la stessa eloquenza dei fatti, da un lato, che l'imputato si è costantemente avvalso della situazione del mercato del lavoro ad esso particolarmente favorevole e, dall'altro che il potere di autodeterminazione dei lavoratori è stato compromesso dalla minaccia larvata, ma non per questo meno grave e immanente, di avvalersi di siffatta situazione.
Invero, si legge in sentenza: "(ndr., il C.) non ha contestato la veridicità di quanto riferito dalle persone offese circa la qualità delle prestazioni pretese dal C., ben più onerose di quelle previste nel contratto, ma ha sostenuto che l'accordo intervenuto prima dell'assunzione tra i tre dipendenti e il datore di lavoro esclude la sussistenza del necessario requisito della minaccia di un male ingiusto, che solo può integrare la fattispecie estorsiva...".
Al rilievo difensivo secondo cui i tre dipendenti erano liberi di scegliere se prestare attività lavorativa alle condizioni onerose offerte dall'imputato o cercare altre e migliori opportunità lavorative, la Corte territoriale "replica" osservando che "... dagli atti emerge con tutta evidenza che il termine "accordo" è un mero eufemismo per indicare le condizioni unilateralmente decise dal datore di lavoro e nel caso di specie palesemente inique ed estorsive. Le tre persone offese hanno infatti ribadito non solo di essere state assunte a condizione di firmare una lettera in bianco di dimissioni, ma soprattutto di essere state, nel corso del rapporto di lavoro, minacciate di licenziamento dall'imputato, qualora non avessero firmato le buste paga quali quietanze dell'importo ricevuto o non avessero svolto il prolungato orario di lavoro preteso. Sia Ca. che P. che Cu. hanno precisato di aver subito tali onerose condizioni per la paura di perdere il posto, stante l'evidente atteggiamento assunto al riguardo dall'imputato. La circostanza che dopo essere stati licenziati, i dipendenti non abbiano avuto difficoltà a trovare un nuovo lavoro, non esclude la condizione di soggezione che gli stessi vivevano nel momento in cui prestavano attività lavorativa per l'imputato, che agitava lo spettro del licenziamento per costringerli ad accettare condizioni lavorative inique".
Sul punto, appare opportuno rimarcare che la situazione di debolezza in cui si trovavano le persone offese non era quella tipica dei lavoratori nei confronti del datore di lavoro, ma derivava dalla grave situazione occupazionale esistente in Sicilia, e nella città di Trapani in particolare, unitamente alle condizioni particolari di ciascuna di loro, sulle quali i giudici di merito si sono soffermati.
3.3. La motivazione della Corte territoriale appare del tutto congrua ed esente da vizi logico-giuridici.
Invero, del tutto infondate si rivelano le deduzioni del ricorrente - ai limiti del merito - in ordine all'esistenza di un accordo contrattuale: infatti, ciò che rileva agli effetti dell’art. 629 cp è che l'"accordo" non fu raggiunto liberamente, ma (nella descritta situazione) estorto.
Nel complesso, pertanto, la decisione impugnata trova sostegno in un solido apparato argomentativo, giuridicamente corretto e immune da palesi vizi logici e giuridici. Si è, infatti, in presenza di elementi di fatto di sicuro valore sintomatico, non elisi o efficacemente contrastati da elementi di segno opposto, coerentemente e congruamente valorizzati dai giudici del merito in ossequio alla norma generale espressa dall’art. 192 cpp, comma 1, che è quella del libero convincimento, inteso come libertà di valutare gli elementi probatori, con il limite, qui rispettato, di dare conto dei criteri adottati.
3.3.1. E' possibile quindi, ancora una volta, riconoscere ed affermare che integra il reato di estorsione anche la condotta del datore di lavoro che, anteriormente alla conclusione del contratto, impone al lavoratore ovvero induce il lavoratore ad accettare condizioni contrarie a legge ponendolo nell'alternativa di accettare quanto richiesto ovvero di subire il male minacciato (cfr., Sez. 2, sent. n. 53649 del 05/12/2014, dep. 23/12/2014, Schittone ed altri, non mass.; v., altresì, Sez. 2, sent. n. 677 del 10/10/2014, dep. 12/01/2015, Di Vincenzo, Rv. 261553).
3.3.2. Di contro, le censure del ricorrente si rivelano in parte generiche e, comunque, sostanzialmente afferenti a valutazioni riservate al giudice del merito per quanto attiene alla ricostruzione dei fatti storici e all'interpretazione del materiale probatorio. Al contrario di quanto si è cercato di sostenere nel ricorso, il riscontro dell'assunta libertà della pattuizione tra l'imputato e le parti offese non può - quasi per definizione - ricavarsi dagli aspetti meramente formali del rapporto di lavoro, per di più se necessariamente comportanti l'adozione di artifici contabili alquanto sintomatici, in sè, di una ben precisa intenzione di tenere nascosta la realtà del rapporto di lavoro.
3.3.3. Anche a volere convenire che l'accettazione, da parte dei lavoratori, di una retribuzione inferiore a quella risultante in busta paga non basti, di per sè sola, a dare prova di una subita coercizione, non è infatti stata la forma della "libera" pattuizione ad avere trasformato, nel caso di specie, un semplice illecito civile nel reato di estorsione, bensì la modalità, resa chiara fin dall'assunzione e ribadita in costanza di rapporto, di concreta attuazione, mese dopo mese, della pretesa "libera" pattuizione.
In ogni caso, appare difficilmente contestabile l'assoluta assertività degli argomenti difensivi, siccome tutti costantemente incentrati sulla mera e semplice negazione della minaccia esplicita o larvata del licenziamento e, comunque, sulla non ingiustizia del profitto con altrui danno. Al contrario, appuntando l'attenzione soltanto sulla concretezza del caso oggetto di vaglio processuale, occorre decisamente convenire con quanto ritenuto dai primi giudici, i quali, lungi dall'avere travisato o trascurato nulla, hanno analiticamente preso in considerazione tutti gli elementi dichiarativi e documentali emersi in sede istruttoria, reputandoli nel complesso conducenti, con lineare e logico argomentare, a dare prova della coazione integrante la contestata fattispecie estorsiva.
3.3.4. Con tali argomentazioni, il ricorrente, in concreto, non si confronta adeguatamente, limitandosi a riproporre una diversa "lettura" delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti che abbiano potuto decisivamente condizionare la conclusiva affermazione di responsabilità”.


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