venerdì 27 settembre 2019

Quali sono i requisiti per l'iscrizione alla gestione commercianti?





Cass. 24/09/2019, n. 23790


Gli utili derivanti dall'essere socio di capitale di società di capitali non rientrano nella nozione di reddito di impresa di cui all'art. 3 bis, D.L. n. 384 del 1992, atteso che gli stessi non afferiscono al reddito derivante da attività di impresa che dia titolo alla iscrizione alla Gestione commercianti. L'obbligo assicurativo sorge, invero, nei confronti dei soci di società a responsabilità limitata esclusivamente qualora gli stessi partecipino al lavoro dell'azienda con carattere di abitualità e prevalenza; diversamente, la sola partecipazione a società di capitali, non accompagnata dalla relativa iscrizione contributiva da parte del socio e senza che emerga lo svolgimento di attività prevalente ed abituale all'interno dell'azienda, non può giustificare l'imposizione contributiva (come nella specie prefigurata dall'INPS).

giovedì 26 settembre 2019

Quali sono gli indici della subordinazione?



Cass. 20/09/2019, n. 23520




La natura subordinata del rapporto di lavoro svolto da un medico presso una clinica privata, ove non è agevole fare riferimento agli ordinari parametri della sottoposizione al potere direttivo e disciplinare del datore, può legittimamente desumersi dalla natura delle mansioni assegnate al professionista, qualora prive di autonomo contenuto professionale, giacché interamente predeterminate dai sanitari sopraordinati e meramente esecutive delle loro prescrizioni. Rileva in tal senso l'organizzazione, da parte di detti sanitari sovraordinati, del servizio, dei turni e delle sostituzioni del prestatore (nonché nella specie l'ordine reso alla professionista di prestare servizio anche in reparti diversi da quello della propria specializzazione.)

mercoledì 25 settembre 2019

Quali elementi valutare per verificare il licenziamento ritorsivo?





cass. 23/09/2019, n. 23583

Il giudice di merito, ai fini della valutazione del carattere ritorsivo del licenziamento, ben può valutare tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, ivi inclusi quelli già valutati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso.


martedì 24 settembre 2019

Le clausole sociali vincolano solo le imprese aderenti alle associazioni firmatarie il ccnl?



Cons. Stato Sez. V, 12/09/2019, n. 6148


Le clausole del contratti collettivi che disciplinano il "cambio appalto" con l'obbligo del mantenimento dell'assetto occupazionale e delle medesime condizioni contrattuali ed economiche vincolano l'operatore economico, non già in qualità di precedente aggiudicatario ma solo se imprenditore appartenente ad associazione datoriale firmataria del contratto collettivo; a queste condizioni, infatti, la clausola, frutto dell'autonomia collettiva, ove più stringente, prevale anche, sulla clausola contenuta nel bando di gara. (Conferma T.A.R. Veneto, Sez. I, n. 1115/2018.)

lunedì 23 settembre 2019

Entro quanto si prescrive l'azione di responsabilità del prestatore d'opera autonomo?

Corte d'Appello Milano Sez. III Sent., 05/07/2019

A norma dell'art. 2226, comma 2 è statuito che l'azione di responsabilità del prestatore d'opera, per vizi e difformità, si prescrive entro un anno dalla consegna.

sabato 21 settembre 2019

I giorni non lavorati che cadono durante la malattia vanno computati a i fini del comporto?



Cass. 13/09/2019, n. 22928




Sotto diverso profilo, deve confermarsi l'orientamento, secondo il quale, in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, devono essere inclusi nel calcolo del periodo, oltre ai giorni festivi, anche quelli di fatto non lavorati, che cadano durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico, operando, in difetto di prova contraria (che è onere del lavoratore fornire), una presunzione di continuità, in quei giorni, dell'episodio morboso addotto dal lavoratore quale causa dell'assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione dovuta, con la precisazione che la prova idonea a smentire tale presunzione di continuità può essere costituita solo dalla dimostrazione dell'avvenuta ripresa dell'attività lavorativa (Cass. n. 13816/2000; conforme Cass. n. 21385/2004).

giovedì 19 settembre 2019

Quali condizioni devono essere riconosciute ai lavoratori distaccati in Italia?


In forza dell'art. 4 dlgs 136 del 2016



Art. 4. Condizioni di lavoro e di occupazione

1. Al rapporto di lavoro tra le imprese di cui all'articolo 1, commi 1 e 4 (Nota 1), e i lavoratori distaccati si applicano, durante il periodo del distacco, le medesime condizioni di lavoro e di occupazione previste per i lavoratori che effettuano prestazioni lavorative subordinate analoghe nel luogo in cui si svolge il distacco.


2. Le disposizioni normative e di contratto collettivo in materia di durata minima delle ferie annuali retribuite e di trattamento retributivo minimo, compreso quello maggiorato per lavoro straordinario, non si applicano nel caso di lavori di assemblaggio iniziale o di prima installazione di un bene, previsti in un contratto di fornitura di beni, indispensabili per mettere in funzione il bene fornito ed eseguiti dai lavoratori qualificati o specializzati dell'impresa di fornitura, quando la durata dei lavori, in relazione ai quali è stato disposto il distacco, non è superiore a otto giorni, escluse le attività del settore edilizio individuate nell'allegato A del presente decreto legislativo.


3. Alla somministrazione di lavoro si applicano le disposizioni di cui all'articolo 35, comma 1, del decreto legislativo n. 81 del 2015.


4. Nell'ipotesi di distacco di cui all'articolo 1, comma 1, trova applicazione il regime di responsabilità solidale di cui agli articoli 1676 del codice civile e 29, comma 2, del decreto legislativo n. 276 del 2003 e, per il caso di somministrazione, l'articolo 35, comma 2, del decreto legislativo n. 81 del 2015.


5. In caso di distacco nell'ambito di un contratto di trasporto trova applicazione l'articolo 83-bis, commi da 4-bis a 4-sexies, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.


Nota 1



Art. 1. Campo d'applicazione

1. Il presente decreto si applica alle imprese stabilite in un altro Stato membro che, nell'ambito di una prestazione di servizi, distaccano in Italia uno o più lavoratori di cui all'articolo 2, comma 1, lettera d), in favore di un'altra impresa, anche appartenente allo stesso gruppo, o di un'altra unità produttiva o di un altro destinatario, a condizione che durante il periodo del distacco, continui a esistere un rapporto di lavoro con il lavoratore distaccato.


2. Il presente decreto si applica alle agenzie di somministrazione di lavoro stabilite in un altro Stato membro che distaccano lavoratori presso un'impresa utilizzatrice avente la propria sede o un'unità produttiva in Italia.


3. L'autorizzazione prevista dall'articolo 4 del decreto legislativo n. 276 del 2003, non è richiesta alle agenzie di somministrazione di cui al comma 2 che dimostrino di operare in forza di un provvedimento amministrativo equivalente, ove previsto, rilasciato dall'autorità competente di un altro Stato membro.


4. Nel settore del trasporto su strada, il presente decreto si applica anche alle ipotesi di cabotaggio di cui al capo III del regolamento (CE) n. 1072/2009 del 21 ottobre 2009 e al capo V del regolamento (CE) n. 1073/2009 del 21 ottobre 2009.


5. Le disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5, 10 e 11 del presente decreto si applicano anche alle imprese stabilite in uno Stato terzo che distaccano lavoratori in Italia ai sensi del comma 1.


6. Il presente decreto non si applica al personale navigante delle imprese della marina mercantile.



mercoledì 18 settembre 2019


Quali sono gli indici della subordinazione?




Cass. 05/09/2019, n. 22293

In sede di accertamento del vincolo di subordinazione, quando l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell'assenza, in capo al lavoratore, di una sia pur minima struttura imprenditoriale, elementi che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione (Nel caso di specie, relativo ad una controversia relativa all'accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato intercorso tra un agenzia immobiliare ed un lavoratore, la Suprema Corte ha ritenuto incensurabile la decisione impugnata con la quale la corte di merito, pur escludendo la dimostrazione dell'esercizio di un potere gerarchico e disciplinare da parte del titolare, aveva comunque ritenuto sufficientemente provati il ruolo di direzione del medesimo titolare, sia con riferimento alla sede di lavoro, che alle mansioni da svolgere, in un ambito esteso anche all'indicazione degli immobili da far visionare, e l'utilizzo, da parte del lavoratore – la cui presenza nella sede di lavoro era continuativa – di sede, arredi e strumenti non propri, ma facenti parte dell'organizzazione aziendale).

martedì 17 settembre 2019

L'inadempimento degli obblighi del CFL cosa determina?

Corte d'Appello Genova Sent., 02/08/2019

In tema di contratto di formazione e lavoro, l'inadempimento di non scarsa importanza degli obblighi formativi comporta la trasformazione, sin dall'inizio, del contratto di formazione e lavoro in contratto di lavoro a tempo indeterminato, sicché ai lavoratori va riconosciuto "ex tunc" il trattamento giuridico ed economico previsto dagli accordi collettivi, con riferimento a quest'ultimo tipo contrattuale.

lunedì 16 settembre 2019

A quanto ammonta il tetto aziendale per il fondo d'integrazione salariale dal 2018?




L'rt. 1, comma 159, lett. a), L. 27 dicembre 2017, n. 205, ha così modificato a decorrere dal 1° gennaio 2018 l'art. 29 comma 4 del dlgs 148 del 2015:




4. Alle prestazioni erogate dal fondo di integrazione salariale si provvede nei limiti delle risorse finanziarie acquisite al fondo medesimo, al fine di garantirne l'equilibrio di bilancio. In ogni caso, tali prestazioni sono determinate in misura non superiore a dieci volte l'ammontare dei contributi ordinari dovuti dal medesimo datore di lavoro, tenuto conto delle prestazioni già deliberate a qualunque titolo a favore dello stesso. 

venerdì 13 settembre 2019

Quando si ha impresa artigiana?


Cass. civ. Sez. I, 06/09/2019, n. 22379

La funzione preminente del lavoro sul capitale, che ai sensi dell'art. 3, comma 2, della legge n. 443 del 1985 rileva per la individuazione dell'impresa artigiana, comporta che il rapporto tra il fattore lavoro ed il capitale investito nell'impresa possa essere inteso non solo in senso quantitativo, con riferimento alla preponderanza del ruolo di un fattore produttivo sull'altro, ma anche in senso funzionale e qualitativo, in rapporto con le caratteristiche strutturali fondamentali dell'impresa artigiana ed alla natura del bene prodotto o del servizio reso. Di talché vanno incluse tra le imprese artigiane quelle caratterizzate dall'opera qualificante dell'imprenditore o dei suoi collaboratori e che tuttavia, pur a fronte di una limitata organizzazione, hanno bisogno strutturalmente di un notevole impiego di capitali. Per converso, l'elemento funzionale o qualitativo perde rilievo, ed il giudizio di preminenza resta affidato essenzialmente al ruolo del rapporto quantitativo tra capitale e lavoro, quando l'oggetto dell'attività svolta dall'imprenditore, pur caratterizzata da una qualificazione professionale dello stesso, non sia espressione di un'arte o di una perizia strettamente ricollegabile alla persona che qualitativamente la caratterizza, né richieda, strutturalmente nel tipo e necessariamente, rilevanti investimenti di capitale, potendosi svolgere da caso a caso, sia con elevati sia con modesti capitali. (Nel caso concreto la motivazione del provvedimento giudiziale è palesemente apparente, in quanto manca di misurarsi con la specificità dell'attività che interessa, omettendo di prendere in considerazione gli elementi che possano essere rilevatori dell'apporto qualificante del lavoro dell'imprenditore, in tal modo escludendo e dal novero delle imprese artigiane tutte quelle imprese che procedano alla messa in opera di materiali precedentemente acquistati, per il solo fatto di reimpiegare gli stessi nell'ambito di un processo produttivo.)

giovedì 12 settembre 2019


Il deposito in cancelleria del ricorso è idoneo ad interrompere la prescrizione del diritto fatto valere?

Cass. 12/10/2017, n. 24031

L'effetto interruttivo della prescrizione esige, per la propria produzione, che il debitore abbia conoscenza (legale, non necessariamente effettiva) dell'atto giudiziale o stragiudiziale del creditore; esso, pertanto, in ipotesi di domanda proposta nelle forme del processo del lavoro, non si produce con il deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice adito, ma con la notificazione dell'atto al convenuto. 

mercoledì 11 settembre 2019



Su chi grava l'onere di provare la legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto?




Cass. 06/09/2019, n. 22367


A fronte dell'impugnazione del licenziamento, grava sul datore di lavoro, ai sensi dell'art. 5, della legge n. 604 del 1966, l'onere di allegare e provare i fatti costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso; fatti che indubbiamente comprendono, ad esempio, l'intervenuto superamento del periodo di comporto, nei sensi definiti dalla contrattazione collettiva di settore.

martedì 10 settembre 2019

Il licenziamento intimato in violazione dell'art. 4art. 2112 è nullo o annullabile?


Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 04/02/2019, n. 3186 (rv. 652879-01)


l licenziamento causato dal trasferimento d'azienda non è nullo ma annullabile per difetto di giustificato motivo oggettivo, in quanto l'art. 2112 c.c. non pone un generale divieto di recesso datoriale ma si limita ad escludere che la vicenda traslativa possa di per sé giustificarlo; ne consegue che il licenziamento intimato in vista di una futura fusione societaria - non ancora attuale al momento del recesso - concretizza l'ipotesi della manifesta insussistenza del fatto ex art. 18, comma 7, st.lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO ROMA, 30/01/2017)


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 17-01-2018) 11-05-2018, n. 11410

Reputa questa Corte che la prospettata nullità, per violazione dell'art. 2112 c.c., comma 4, non costituendo il trasferimento d'azienda ex se un motivo legittimo di licenziamento (Cass. 6 marzo 1998, n. 2521; Cass. 21 maggio 2002, n. 7458), per giunta intimato da una società neppure più titolare del rapporto alla data di ricevimento della lettera di recesso, debba essere esclusa.

Ed infatti, anche in caso di trasferimento d'azienda, l'alienante conserva il potere di recesso attribuitogli dalla normativa generale, in quanto ribadito proprio dall'art. 2112 c.c., comma 4 ("Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti"), che pure dispone che il trasferimento non possa essere di per sè ragione giustificativa di licenziamento. Sicchè, il trasferimento non può impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sempre che abbia fondamento nella struttura aziendale autonomamente considerata e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo (Cass. 11 giugno 2008, n. 15495); e neppure, qualora nell'imminenza del trasferimento dell'azienda, l'imprenditore alienante receda dal rapporto di lavoro nei casi in cui detta facoltà gli sia attribuita, si deve ritenere che nel suo esercizio in concreto egli ponga in essere un atto emulativo o in frode alla legge, nè è prospettabile la violazione dei principi di correttezza e buona fede, a norma degli artt. 1175 e 1375 c.c., che non creano obbligazioni autonome, ma rilevano soltanto per verificare il puntuale adempimento di obblighi riconducibili a determinati rapporti (Cass. 19 gennaio 2004, n. 741).

Quanto poi alla dedotta carenza di titolarità del rapporto della società intimante alla data di ricevimento dalla lavoratrice della lettera di recesso, basti ribadire che la dichiarazione di volontà, espressa con l'atto unilaterale di recesso (che pure produce effetto, ai sensi dell'art. 1334 c.c., dal momento in cui pervenga a conoscenza del destinatario, posto che la norma configura la ricezione dell'atto alla stregua di requisito di efficacia), si perfeziona con la sola emissione e che a tale momento occorre risalire per valutare la capacità e volontà del dichiarante (Cass. 11 luglio 2006, n. 15678). Sicchè, il vizio di nullità prospettato è infondato, essendo l'intimazione del licenziamento avvenuta nel caso di specie con lettera 31 ottobre 2002 quando ancora la società cedente era titolare dell'azienda trasferita.

Ed allora non sussistono ragioni per disattendere la ricorrenza di un'ipotesi di licenziamento qualificabile come (eventuarmente) annullabile, secondo il corretto assunto dalla Corte territoriale, che ha accertato la prescrizione della relativa azione (per le ragioni esposte al secondo capoverso di pg. 4 della sentenza).

lunedì 9 settembre 2019

La responsabilità solidale ex art. 29 del Dlgs 29 del 2003 si estende all'indennità di licenziamento?



Cass. 04/09/2019, n. 22110
Nel contratto di appalto il regime della responsabilità solidale del committente con l'appaltatore di servizi, ex art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276 del 2003, concerne gli emolumenti, al cui pagamento il datore di lavoro risulti tenuto in favore dei propri dipendenti, di natura strettamente retributiva e concernenti il periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall'appalto restando esclusa l'applicabilità del predetto regime alle somme liquidate ad esempio a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo.

venerdì 6 settembre 2019


Come deve essere dimostrato il danno da demansionamento?

Cass. 02/08/2019, n. 20842

In tema di demansionamento, se è vero che esso può essere foriero di danni al bene immateriale della dignità professionale del lavoratore, è del pari vero che detti danni non sono "in re ipsa” e devono pur sempre essere dimostrati, seppure, eventualmente, a mezzo di presunzioni e/o di massime di esperienza, da chi si assume danneggiato. Il risarcimento del danno professionale, infatti, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo e, se la relativa prova può essere acquisita in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo precipuo rilievo quella per presunzioni, tuttavia il ricorso alle presunzioni medesime è consentito a condizione che sia stata allegata la natura del pregiudizio e il ricorrente abbia dedotto e provato circostanze diverse ed ulteriori rispetto al mero inadempimento, che possano essere valorizzate per risalire dal fatto noto a quello ignoto.

giovedì 5 settembre 2019

Entro quali limiti opera  la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cc?


Cass. 09/08/2019, n. 21287


La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., non è limitata alla violazione di norme di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma va estesa alla cura del lavoratore attraverso l'adozione di tutte quelle misure e delle cautele che, in funzione della diffusione e della conoscibilità delle conoscenze, pur valutata in concreto, si rivelino idonee, secondo l'id quod plerumque accidit, a tutelare l'integrità psicofisica del prestatore. Consegue a quanto innanzi che la responsabilità datoriale non è configurabile solo nell'ipotesi in cui il nesso causale tra l'uso di una sostanza e la patologia professionale non fosse configurabile allo stato delle conoscenze scientifiche dell'epoca del fatto, sicché non poteva essere prospettata l'adozione di adeguate misure precauzionali. (In relazione al caso concreto, dovendo ritenersi pacifica, specie da parte di una struttura sanitaria, la conoscenza dei rischi del fumo, in riferimento ad una situazione di accertata azione del fumo passivo in ambiente inidoneo allo svolgimento di attività lavorativa senza rischi per la salute dei lavoratori, non può escludersi la responsabilità della struttura sul rilievo che all'epoca dei fatti non erano state ancora introdotte specifiche norme contenenti divieti di fumo in ambienti quali quello ove il lavoratore svolgeva la sua prestazione.)

mercoledì 4 settembre 2019

Come è disciplinato il rapporto di lavoro negli enti del Terzo settore in forza del Dlgs 117 del 2017?




In forza dell'art. 16 del dlgs 117 del 2017

 1. I lavoratori degli enti del Terzo settore hanno diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di cui all'articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81. In ogni caso, in ciascun ente del Terzo settore, la differenza retributiva tra lavoratori dipendenti non puo' essere superiore al rapporto uno a otto, da calcolarsi sulla base della retribuzione annua lorda. Gli enti del Terzo settore danno conto del rispetto di tale parametro nel proprio bilancio sociale o, in mancanza, nella relazione di cui all'articolo 13, comma 1. 

martedì 3 settembre 2019



Quale è lo stato della giurisprudenza sulla giusta causa di licenziamento e reintegra ex art. 18 legge 300 del 1970 come modificato dalla legge 92 del 2012? 





Cass. civ. Sez. lavoro, 28/05/2019, n. 14500 

In tema di licenziamento, solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo, ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18, comma 4 della L. 20 maggio 1970 n. 300 novellato. Non è, invece, consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi o dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita al caso non previsto, sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare. 





Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-05-2019, n. 14063 

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento "che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici; v., tra le altre, Cass. n. 2288 del 2019; Cass. n. 7426 del 2018 n. 7426; Cass. n. 6498 del 2012). 

Tale valutazione rientra nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice e non è vincolata dalle previsioni contenute nel codice disciplinare del contratto collettivo. Anche quando la condotta sia astrattamente corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, infatti, occorre pur sempre che essa sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo (v. da ultimo Cass. n. 8826 del 2017, Cass. n. 1595 del 2016 ed i precedenti conformi ivi richiamati). 

Ciò non comporta che dalle valutazioni del codice disciplinare il giudice possa prescindere. Con la predisposizione del codice disciplinare, sebbene di solito in modo generico e meramente esemplificativo, l'autonomia collettiva individua infatti il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli artt. 2104 e 2015 c.c., in quel determinato momento storico ed in quel contesto aziendale. In tal senso, la L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, prevede che "il giudice tiene conto" delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento contenute nei contratti collettivi. Ne consegue coerentemente che, pur non essendo vincolante la tipizzazione delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell'individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso, la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c. e che le parti ben potranno sottoporre il risultato di tale valutazione cui è pervenuto il giudice di merito all'esame di questa Corte sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale costituito dalle previsioni del codice disciplinare (v. Cass. n. 18715 del 2016, Cass. n. 9396 del 2018). 

Nel caso di specie, la Corte distrettuale, pur essendo stata specificamente e ritualmente sollecitata a concretizzare la clausola generale dettata dall'art. 2119 c.c., tramite le previsioni del contratto collettivo applicato dal datore di lavoro (nella specie artt. 220, 226 e 229 c.c.n.l. settore Commercio 18.7.2008), ha trascurato completamente il parametro valutativo individuato dall'autonomia collettiva, tralasciando ogni motivazione circa lo scostamento dalle previsioni del codice disciplinare, che rappresenta il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli artt. 2104 e 2015 c.c. (cfr. in tal senso Cass. n. 28492 del 2018). 

In sintesi, va espresso il seguente principio di diritto: le tipizzazioni delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell'individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso non sono vincolanti per il giudice, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c.. 



Cass. 20-05-2019, n. 13533 



La statuizione del giudice del reclamo che riconosce la sola tutela cd. indennitaria in presenza di licenziamento ritenuto illegittimo per difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva è conforme alla giurisprudenza di questa Corte la quale ha chiarito che in tema di licenziamento disciplinare, qualora vi sia sproporzione tra sanzione e infrazione, spetta la sola tutela risarcitoria ove la condotta in addebito non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi ovvero i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa; in tal caso il difetto di proporzionalità ricade, difatti, tra le "altre ipotesi" di cui al novellato comma 5 della L. n. 300 del 1970,art. 18, come modificato dalla cit. L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento ed è accordata la tutela indennitaria cd. forte (Cass. 12/10/2018 n. 25534; 17/10/2018 n. 26013; Cass. 16/7/2018 n. 18823; Cass. 25/5/2017 n. 13178; Cass. 6/11/2014 n. 23669). 



Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 09/05/2019, n. 12365 





In tema di licenziamento disciplinare, ove la condotta addebitata al lavoratore abbia un pari disvalore disciplinare rispetto a quelle punite dal c.c.n.l. con sanzione conservativa, il giudice, sebbene gli sia precluso applicare la tutela reintegratoria alle ipotesi non tipizzate dalla contrattazione collettiva - giacché, nel regime introdotto dalla l. n. 92 del 2012, tale tutela costituisce l'eccezione alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria, presupponendo l'art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, l'abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo, derivante o dalla insussistenza del fatto contestato o dalla chiara riconducibilità della condotta tra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l'espulsione del lavoratore - se ritiene che tale condotta non costituisca comunque giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, utilizzando la graduazione delle infrazioni disciplinari articolate dalle parti collettive come parametro integrativo delle clausole generali di fonte legale, ai sensi dell'art. 30, comma 3, del d.lgs. n. 183 del 2010, potrà dichiarare illegittimo il recesso e, risolto il rapporto di lavoro, applicare la tutela indennitaria prevista dall'art. 18, comma 5, della l. n. 300 del 1970. (Nella fattispecie, relativa a un lavoratore sorpreso dal proprio superiore gerarchico, durante il turno di lavoro notturno, addormentato presso una diversa zona dello stabilimento, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, ritenuta tale condotta assimilabile al c.d. abbandono del posto di lavoro, infrazione punita dal c.c.n.l. addetti Industria Metalmeccanica con sanzione conservativa, aveva applicato la tutela reintegratoria). (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO TRIESTE, 28/11/2017) 



Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 09-05-2019, n. 12365 

In primo luogo deve accertare se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non avendo la riforma del 2012 "modificato le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla L. n. 604 del 1966, laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c., o per giustificato motivo" (così Cass. SS.UU. n. 30985 del 2017). 

Nel caso in cui il giudice escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, deve svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno di una delle due condizioni previste dall'art. 18, comma 4, per accedere alla tutela reintegratoria ("insussistenza del fatto contestato" ovvero fatto rientrante "tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili"), dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal comma 5, "da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale" (ancora Cass. SS.UU. n. 30985 del 2017). 

6. Avuto riguardo alle previsioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari, questa Corte, essendo quella della giusta causa e del giustificato motivo una nozione legale, ha più volte espresso il generale principio che tali previsioni non vincolano il giudice di merito (ex plurimis, Cass. n. 8718 del 2017; Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011). Anche se "la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c." (Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 28492 del 2018), considerato altresì che la L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, ha previsto che "nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro" (cfr. Cass. n. 32500 del 2018; circa la natura non meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nella L. n. 183 del 2010, art. 30, v. anche Cass. n. 25201 del 2016). 

Il principio generale subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (L. n. 604 del 1966, art. 12). Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti (cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non si accerti che le parti stesse "non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsivà, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016). 

7. La nuova disciplina fissata dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, in tema di tutele applicabili in caso di licenziamento illegittimo appare pienamente coerente rispetto a tali indirizzi consolidati, laddove prevede che, ove il fatto rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, non solo il licenziamento sarà ingiustificato senza possibilità di diversa valutazione da parte del giudice ma il giudice dovrà annullare il licenziamento, ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento di una indennità risarcitoria non superiore a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto. 

8. In ordine ai criteri di interpretazione di un contratto collettivo, questa Corte ha già affermato che, in considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni dettate dall'art. 1362 c.c. e ss.. Coerentemente è stato da gran tempo escluso il ricorso all'applicazione analogica (Cass. n. 7519 del 1983; Cass. n. 5726 del 1985; Cass. n. 6524 del 1988), "atteso che anche nel contratto collettivo le disposizioni in esso contenute conservano pur sempre la loro originaria natura contrattuale e non consentono conseguentemente il ricorso all'analogia, che è un procedimento di integrazione ermeneutica consentito, ex art. 12 preleggi, con esclusivo riferimento agli atti aventi forza o valore di legge" (in termini, Cass. n. 30420 del 2017). 

Con riferimento all'interpretazione estensiva, essa è, in linea generale, consentita ai sensi dell'art. 1365 c.c., per estendere un patto relativo ad un caso ad un altro caso non espressamente contemplato dalle parti. In proposito è stato di recente precisato (Cass. n. 9560 del 2017) che la norma da ultimo citata consente l'interpretazione estensiva di clausole contrattuali solo ove risulti l'"inadeguatezza per difetto" dell'espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, inadeguatezza tradottasi in un contenuto carente rispetto all'intenzione. In tale ipotesi, l'interprete deve tener presenti le conseguenze normali volute dalle parti stesse con l'elencazione esemplificativa dei casi menzionati e verificare se sia possibile ricomprendere nella previsione contrattuale ipotesi non contemplate nell'esemplificazione, attenendosi, nel compimento di tale operazione ermeneutica, al criterio di ragionevolezza imposto dalla medesima norma. E' evidente che la suddetta verifica deve essere eseguita dall'interprete con particolare severità in un contesto, come quello in esame, nel quale trova applicazione il principio generale secondo cui una norma che preveda una eccezione rispetto alla regola generale deve essere interpretata restrittivamente. Ne consegue che in siffatta ipotesi l'interpretazione non può estendersi oltre i casi in cui il plus di significato, che si intenda attribuire alla norma interpretata, non riduca la portata della norma costituente la regola con l'introduzione di nuove eccezioni (cfr., in materia di rapporto regola-eccezione e della necessità di stretta interpretazione di queste ultime e dell'esclusione di qualunque integrazione di tipo analogico o estensivo, Cass. S. U. n. 24772 del 2008 in materia di mandato senza rappresentanza; Cass. n. 13875 del 2010 in tema di patrocinio a spese dello Stato; Cass. n. 8379 del 2018 in materia di forma dei contratti collettivi; Cass. n. 20188 del 2017, che rinvia altresì a Cass. n. 9205 del 1999, in materia di successione e di diritto d'autore). 

Pertanto solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18 novellato, comma 4. 

Coerentemente non può dirsi consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita, per le ragioni suesposte, al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare. 

Una tale possibilità è negata, del resto, dalla lettera del comma 4, della L. n. 300 del 1970, art. 18, che vieta operazioni ermeneutiche che estendano l'eccezione della tutela reintegratoria alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria nonchè, dal punto di vista sistematico, in quanto violerebbe la chiara ratio nel nuovo regime in cui la tutela reintegratoria presuppone l'abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoratore, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato nell'ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l'espulsione del lavoratore. L'apertura all'analogia o a un'interpretazione che allargasse la portata della norma collettiva oltre i limiti sopra delineati, invece, produrrebbe effetti esattamente contrari a quelli chiaramente espressi dal legislatore in termini di esigenza di prevedibilità delle conseguenze circa i comportamenti tenuti dalle parti del rapporto. 

La scelta del legislatore non si palesa irragionevole, tenuto conto che al giudice non è certo inibito di trarre dal pari disvalore disciplinare della condotta addebitata rispetto a quelle punibili con sanzione conservativa secondo le previsioni collettive il convincimento che il comportamento del lavoratore non costituisca giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, utilizzando appunto la graduazione delle infrazioni disciplinari articolate dalle parti collettive come parametro integrativo delle clausole generali di fonte legale; quindi il giudice, ai sensi dell'art. 18, comma 5 cit., dichiarato illegittimo il recesso e risolto il rapporto di lavoro, condannerà il datore di lavoro al pagamento dell'indennità risarcitoria tra 12 e 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto; ciò che gli è precluso dalla previsione normativa è solo disporre la maggiore, eccezionale, tutela reintegratoria, ma, come ancora di recente ribadito dalla Corte costituzionale (sent. n. 194 del 2018, punto 9.2. del considerato in diritto), si tratta di terreno in cui si esercita la discrezionalità del legislatore, negandosi ancora espressamente che "il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost. ... imponga un determinato regime di tutela". 

9. Ebbene, nel caso di specie, la Corte distrettuale ha ritenuto ingiustificato il licenziamento in quanto diretto a sanzionare una condotta alla quale le parti sociali avevano ricollegato una sanzione conservativa ed ha, poi, tratto le immediate conseguenze in ordine al regime di tutela da applicare (scegliendo, dunque, la sanzione reintegratoria della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4). In particolare, il giudice di merito ha ritenuto di sussumere il comportamento contestato nell'ambito della previsione di cui all'art. 9 c.c.n.l. applicato in azienda, nella specie "l'abbandono del posto di lavoro senza giustificato motivo", punito con sanzione conservativa dal c.c.n.l. di settore. 

Così facendo, però, ha interpretato e poi applicato una clausola contrattuale prevedente una sanzione conservativa ad un caso concreto non contemplato dalla medesima. Invero la contrattazione collettiva applicabile annovera ulteriori fattispecie suscettibili di essere punite con sanzioni conservative (quali la mancata presentazione al lavoro, il ritardo all'inizio del lavoro senza giustificato motivo o la sospensione o l'anticipazione della cessazione) facendo riferimento a condotte tutte accomunate dalla caratteristica di essere immediatamente e agevolmente rilevabili dal datore di lavoro in quanto tenute in palese ed aperta violazione dell'obbligo di osservanza dell'orario di lavoro. Ma un'interpretazione rigorosa della clausola contrattuale non consente di sussumere il comportamento adottato dal L. nella tipizzazione contrattuale in quanto comportamento più articolato e complesso, qualitativamente differente, e consistente non semplicemente nella mancata o nell'interrotta prestazione lavorativa immediatamente percepibile al datore di lavoro bensì nella sottrazione dal controllo datoriale al fine di realizzare un'apparente situazione di regolarità lavorativa. 

Non potendo ritenersi ricollegabile la condotta tenuta dal L. con la tipizzazione contenuta nell'art. 9 del c.c.n.l. di settore, e, dunque, dovendo escludersi, per il fatto de quo l'assoggettabilità a sanzione conservativa, il giudice dovrà procedere nuovamente all'accertamento della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo (tenendo conto delle tipizzazioni espresse dalla contrattazione collettiva e utilizzando la discrezionalità che deriva dalla nozione legale di tali giustificazioni) e, nel caso ritenga sproporzionata la sanzione espulsiva adottata, dovrà - in sede di valutazione del regime sanzionatorio da applicare - applicare il regime generale della tutela risarcitoria dettato dal comma 5, dovendosi escludere, per le ragioni in precedenza enunciate, la ricorrenza dei presupposti di legge per l'applicazione della tutela reintegratoria. 

10. Il terzo motivo è assorbito. 





Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., 07-02-2019, n. 3655 

Che il motivo, così come esposto in ricorso è infondato, non avendo colto (e censurato) la ratio decidendi della sentenza impugnata basata sul consolidato orientamento di questa Corte (Cass. n. 20540/15, Cass. n. 18418/16, Cass. n. 11322/18) secondo cui l'insussistenza del fatto contestato, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, comprende anche l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicchè in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria di cui dell'art. 18, comma 4, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità. Questa Corte ha più in particolare chiarito che non è plausibile che il Legislatore, parlando di "insussistenza del fatto contestato", abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, restando estranea alla fattispecie la diversa questione della proporzione tra fatto sussistente e di illiceità modesta, rispetto alla sanzione espulsiva (Cass. 6 novembre 2014 n. 23669, che peraltro si riferiva ad un caso di insussistenza materiale del fatto contestato). In altre parole l'irrilevanza giuridica del fatto (pur accertato) equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell'art. 18, comma 4, cit.. 

lunedì 2 settembre 2019

In caso di retrocessione di azienda quando si applica l'art. 2112 cc?





Cass. 01-10-2018, n. 23765




Ha rilevato parte ricorrente l'errata valutazione della Corte aquilana sulla inapplicabilità nella fattispecie dell'art. 2112 c.c., trattandosi comunque, anche in ipotesi di restituzione dell'azienda in affitto, di una vicenda traslativa della azienda assoggettata alla disciplina della norma codicistica. Richiama a riguardo la giurisprudenza di questa Corte sulla qualificazione del ramo d'azienda e sulle necessarie condizioni di preesistenza ed autonomia che devono caratterizzarlo, sicchè ogni eventuale "scorporo" di personale risulti operazione contrastante rispetto al fenomeno unitariamente considerato dalla norma e dalle tutele in essa contenute.

I principi affermati da questa Corte in materia di applicabilità della disciplina di cui all'art. 2112 c.c., anche alle ipotesi di cessazione dell'affitto dell'azienda e di restituzione della stessa alla originaria cedente, (Cass. n. 12909/2003; Cass. n. 7458/2002) muovono dal presupposto che anche in tali situazioni sia presente un fenomeno traslativo dell'azienda o di parte di essa che richieda la tutela diretta al mantenimento della occupazione per i lavoratori trasferiti ed al trattamento già percepito dagli stessi.

La condizione presupposta resta sempre la configurabilità del ramo d'azienda quale complesso di beni dotato di autonomia funzionale preesistente e quindi capace di individuazione specifica rispetto alla restante parte dell'impresa, nonchè la ulteriore condizione che nella retrocessione l'impresa retrocessionaria (originariamente cedente) utilizzi l'azienda in funzione dell'esercizio dell'attività di cui la stessa è strumento, e quindi prosegua, mediante la immutata organizzazione dei beni aziendali, l'attività già esercitata in precedenza, vanificandosi, altrimenti, l'intento perseguito dal Legislatore (Cass. n. 12909 del 2003; in tal senso anche Cass. n. 16255/2011) Rispetto a tale quadro teorico di riferimento deve valutarsi se nella fattispecie in esame, rispetto allo I., sia ipotizzabile una retrocessione. I principi enunciati, e le condizioni evidenziate per la corretta operatività delle disposizioni di cui all'art. 2112 c.c., in caso di retrocessione, richiedono che la società ricorrente, invocandone l'applicabilità, avrebbe dovuto allegare la presenza delle circostanze richieste, ovvero non soltanto la adibizione del lavoratore al ramo d'azienda retrocesso, sì da dimostrarne la stretta inerenza rispetto a quello, ma anche la condizione della prosecuzione dell'attività da parte della retrocessionaria.

Tale ultimo elemento, costitutivo della ipotesi di retrocessione, avrebbe dovuto essere allegato dal ricorrente Fallimento nei giudizi di merito e di tale allegazione lo stesso avrebbe dovuto dar conto, specificamente indicando nel ricorso in cassazione i tempi ed i modi delle circostanze evidenziate e della domanda svolta, così da soddisfare i requisiti di autosufficienza del ricorso, richiesti per la valutazione della censura.

Pertanto la concreta fattispecie, come radicatasi in giudizio, esclude comunque, anche in ipotesi si volesse accedere alla tesi sostenuta dalla società, la eventuale operatività della norma codicistica di cui all'art. 2112 c.c., in quanto non allegati e provati i presupposti necessari.