martedì 31 marzo 2015

In caso di morte del lavoratore dipendente deve essere erogata l’indennità di preavviso?

In forza dell’art. 2122 cc: “in caso di morte del prestatore di lavoro, le indennità indicate dagli artt. 2118 e 2120 cc (preavviso e TFR) devono corrispondersi al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, ai parenti entro il terzo grado  e agli affini entro il secondo grado.
La ripartizione delle indennità, se non vi è accordo tra gli aventi diritto, deve farsi secondo il bisogno di ciascuno.
In mancanza delle persone indicate nel primo comma, le indennità sono attribuite secondo le norme della successione legittima.
È nullo ogni patto anteriore alla morte del prestatore di lavoro circa l'attribuzione e la ripartizione delle indennità”

Come indicato dalla giurisprudenza i soggetti indicati al primo comma hanno diritto alle somme sopra indicate iure proprio e non iure successionis:

“L’art. 2122 cc attribuisce, in caso di morte del lavoratore, il trattamento di fine rapporto iure proprio al coniuge, ai figli, ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo. Il riconoscimento di siffatto diritto iure proprio e non iure successionis è prova di come lo stesso venga in essere solo al momento della cessazione del rapporto di lavoro”. Trib. Milano, Sez. II, 16/06/2011

“Devono escludersi dall'asse ereditario: a) le somme spettanti ai minori a titolo di trattamento di fine rapporto e indennità sostitutiva del preavviso, in quanto esse costituiscono oggetto di un diritto spettante iure proprio ai soggetti indicati all’art. 2122 comma 1 cc; b) le somme relative al Fondo Nazionale di Pensione Complementare, dal momento che trattandosi anche in tal caso di competenze di natura previdenziale, esse spettano iure proprio ai soggetti di cui all’art. 2122 comma 1 cc; c) le somme spettanti ai minori a titolo di trattamento pensionistico in relazione agli importi contributivi versati dal padre e in conseguenza del suo decesso (cd. pensione indiretta), dal momento che il diritto dei superstiti al trattamento pensionistico indiretto è autonomo rispetto al diritto alla pensione spettante all'assicurato, di guisa che alla morte di questi, non entra a far parte dell'asse ereditario, ma è acquisito dai superstiti iure proprio”. Trib. Asti, 13/05/2011


lunedì 30 marzo 2015

La fase di opposizione all'ordinanza del rito Fornero costituisce un grado diverso del giudizio 

“La fase di opposizione  ai sensi dell’art. 1 comma 51 l. 92 del 2012 non costituisce un grado diverso rispetto alla fase che ha preceduto l’ordinanza. Essa non è in altre parole revisio prioris instantiae ma solo una prosecuzione del giudizio di primo grado in forma ordinaria e non più urgente. La Corte costituzionale con sentenza n. 326 del 1997 ha dichiarato non fondata la questione avente ad oggetto l’art. 51 cpc nella parte in cui impone l’obbligo di astensione nella causa di merito al giudice che abbia concesso una misura cautelare ante causam. (Vedi anche  Cass. 13 agosto 2001 n. 11070, 12 gennaio 2006 n. 422. E più recentemente la stessa corte costituzionale con ordinanza n. 205 del 2014, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità degli artt. 1 comma 51, l. 92 del 2012 e 51 cit, primo comma n. 4, rilevando l’improprio tentativo di ottenere con un uso distorto dell’incidente di costituzionalità l’avvallo dell’interpretazione proposta dal remittente in ordine ad un contesto normativo che egli pur riconosce suscettibile di duplice lettura” tanto più che il giudice rimettente riteneva preferibile e costituzionalmente più compatibile, l’opposta interpretazione che escludeva  il contenuto impugnatorio dell’opposizione all’ordinanza in questione. Detto contenuto impugnatorio è stato poi escluso dalle sezioni unite  di questa corte del 18 settembre 2014 n. 19674 hanno espressamente definito quella successiva all’opposizione di cui all’art. 1, comma 51 cit. come fase del giudizio di primo grado”. Cass. n3136 del 17/02/2015

venerdì 27 marzo 2015

A quanto ammontano i permessi stabiliti dall’art. 33 legge 104 del 1992 a favore del lavoratore?

Secondo il comma terzo della legge 104 del 1992 il lavoratore pubblico o privato che assiste persona handicappata (purché non  sia  ricoverata  a tempo pieno) in  situazione  di  gravità che sia:
-          coniuge
-          parente o affine entro il secondo grado
-          parente o affine entro il terzo  grado qualora i genitori  o  il  coniuge  della  persona  con  handicap  in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti  da  patologie  invalidanti  o  siano deceduti o mancanti

ha diritto a fruire di tre  giorni  di  permesso mensile retribuito coperto  da  contribuzione  figurativa,  anche  in maniera  continuativa.

Il   predetto   diritto   non   puo'   essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l'assistenza alla stessa  persona  con  handicap  in  situazione   di   gravità. 

Per l'assistenza  allo  stesso  figlio  con  handicap  in  situazione  di gravità, il diritto e' riconosciuto ad entrambi  i  genitori,  anche adottivi, che possono fruirne alternativamente.

Il  dipendente  ha diritto di prestare assistenza  nei  confronti  di  più  persone  in situazione di handicap grave, a condizione che si tratti:
- del  coniuge
- o di un parente o affine entro il primo  grado 
- parente o affine   entro  il  secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con  handicap  in situazione di gravità abbiano compiuto i  65  anni  di  età  oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano  deceduti  o mancanti.

Il lavoratore che usufruisce dei permessi di cui al comma  3 per assistere persona in situazione di handicap grave,  residente  in comune  situato  a  distanza  stradale  superiore  a  150  chilometri rispetto a quello di residenza del lavoratore, attesta con titolo  di viaggio, o altra documentazione idonea, il raggiungimento  del  luogo di residenza dell'assistito.

Il lavoratore di cui  ha  diritto  a  scegliere,  ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio  della  persona da assistere e non può essere trasferito senza il  suo  consenso  ad altra sede.


In forza del comma 7 bis “Ferma   restando   la   verifica   dei   presupposti   per l'accertamento della responsabilità disciplinare” il  lavoratore decade  dai  diritti  di  cui  all’art. 33 qualora il datore di lavoro o l'INPS  accerti  l'insussistenza  o  il venir meno delle condizioni richieste per la legittima fruizione  dei medesimi  diritti.  

giovedì 26 marzo 2015

Quali crediti possono costituire oggetto di diffida accertativa ex art. 12 d.lgs. 124 del 2004?


“I crediti che possono costituire oggetto di diffida accertativa sono solo quelli che abbiano il carattere della liquidità e della esigibilità e che vengono resi certi attraverso l’accertamento effettuato dall’ispettore, non potendo formare oggetto della diffida accertativa quei crediti che sorgono sul presupposto di un’attività discrezionale che implichi da parte dell’Ispettore accertamenti e valutazioni di una certa complessità. Conferma di tale lettura è fornita dal dato testuale dell’art. 12, comma 3, nella parte in cui prevede che se il datore di lavoro non ottempera a quanto sancito nel provvedimento di diffida e non si attiva per un’eventuale procedura di conciliazione, il provvedimento acquista valore di accertamento tecnico con efficacia di titolo esecutivo. Pertanto, si deve ritenere che possano essere oggetto di diffida accertativa i compensi maturati e non percepiti nel corso del rapporto di lavoro a titolo di retribuzione, di lavoro straordinario, di premio e altre indennità ovvero le somme dovute al momento della cessazione del rapporto, quali l’indennità di preavviso e il trattamento di fine rapporto e che debbano essere, invece, esclusi i crediti scaturenti da una diversa qualificazione del rapporto o dal riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato non registrato ovvero ai crediti che sorgano sul presupposto di un licenziamento illegittimo, o ancora a quelli che sorgano in capo al lavoratore in conseguenza della contestazione della nullità del contratto di somministrazione di lavoro che, ai sensi dell’art. 21, 4 comma, d. lgs. n. 276/03, comporta la costituzione ope legis del rapporto in capo al committente”. (Tribunale di Bari, 28 maggio del 2009, Giudice dottoressa Angela Vernia, in www.giurisprudenzabarese.it).

mercoledì 25 marzo 2015

In caso di licenziamento orale su chi ricade l'onere della prova?


Occorre precisare che tale questione si pone ormai più che altro nei rapporti di lavoro non regolarizzati atteso che attualmente le dimissioni del lavoratore o la risoluzione consensuale impongono lo speciale regime di convalida stabilito dall'art. 4 commi 27 e seguenti legge 92 del 2012[1].

Come indicato da Cassazione 19236 del 2011 (peraltro in un’ipotesi di lavoro non regolarizzato) “In base ad un consolidato e condiviso orientamento di questa Corte nell'ipotesi di controversia in ordine al quomodo della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o dimissioni) si impone una indagine accurata da parte del Giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all'esigenza di rispettare non solo l'art. 2697 cod. civ., comma 1 relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall'attore, ma anche il secondo comma, che pone a carico dell'eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla controparte. Sicché, in mancanza di prova delle dimissioni, l'onere della prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento (prescritta ex lege a pena di nullità) resta a carico del datore di lavoro, in quanto nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo, mentre la prova sulla controdeduzione del datore di lavoro -avente valore di una eccezione - ricade sull'eccipiente - datore di lavoro ex art. 2697 cod. civ. (Cass. 27 agosto 2007, n. 18087; Cass. 20 maggio 2005, n. 10651; Cass. 8 gennaio 2009, n. 155; Cass. 13 aprile 2005, n. 7614; Cass. 11 giugno 2010, n. 14082; Cass. 16 dicembre 2004, n. 22852; Cass. 20 novembre 2000, n, 14977 e altre in corso di pubblicazione)[2].


[1] Art. 4 commi 17 e seguenti legge 92 del 2012

Comma 17. Al di fuori dell'ipotesi di cui all'articolo 55, comma  4,  del citato testo unico di cui al decreto legislativo 26  marzo  2001,  n. 151, come sostituito dal comma 16 del presente articolo,  l'efficacia delle  dimissioni  della  lavoratrice  o  del  lavoratore   e   della risoluzione consensuale del rapporto e' sospensivamente  condizionata alla convalida effettuata presso la Direzione territoriale del lavoro o il Centro per l'impiego territorialmente competenti, ovvero  presso le sedi individuate  dai  contratti  collettivi  nazionali  stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più  rappresentative a livello nazionale.
18. In alternativa alla procedura di cui al comma  17,  l'efficacia delle  dimissioni  della  lavoratrice  o  del  lavoratore   e   della risoluzione consensuale del rapporto e' sospensivamente  condizionata alla sottoscrizione di apposita dichiarazione della lavoratrice o del lavoratore apposta in  calce  alla  ricevuta  di  trasmissione  della comunicazione  di  cessazione  del  rapporto   di   lavoro   di   cui
all'articolo 21 della legge 29 aprile  1949,  n.  264,  e  successive modificazioni. Con decreto, di natura non regolamentare, del Ministro del lavoro e delle  politiche  sociali,  possono  essere  individuate ulteriori modalità semplificate per accertare la  veridicità  della data  e  la  autenticità  della  manifestazione  di  volontà  della lavoratrice o del lavoratore, in relazione  alle  dimissioni  o  alla risoluzione consensuale del rapporto, in funzione dello sviluppo  dei sistemi informatici e della evoluzione della disciplina in materia di comunicazioni obbligatorie.
19. Nell'ipotesi in cui la lavoratrice o il lavoratore non  proceda alla convalida di cui al comma 17 ovvero alla sottoscrizione  di  cui al comma 18, il  rapporto  di  lavoro  si  intende  risolto,  per  il verificarsi della condizione sospensiva, qualora la lavoratrice o  il lavoratore  non  aderisca,  entro  sette  giorni   dalla   ricezione, all'invito a presentarsi presso le sedi di cui  al  comma  17  ovvero all'invito ad  apporre  la  predetta  sottoscrizione,  trasmesso  dal datore di lavoro, tramite comunicazione scritta, ovvero  qualora  non effettui la revoca di cui al comma 21.
20. La comunicazione contenente l'invito, cui deve essere  allegata copia della ricevuta di trasmissione di cui al comma 18, si considera validamente  effettuata  quando  e'  recapitata  al  domicilio  della lavoratrice o del lavoratore indicato nel contratto di  lavoro  o  ad altro  domicilio  formalmente  comunicato  dalla  lavoratrice  o  dal lavoratore al datore di lavoro, ovvero e' consegnata alla lavoratrice o al lavoratore che ne sottoscrive copia per ricevuta.
21. Nei sette giorni di cui al comma 19,  che  possono  sovrapporsi con il periodo di  preavviso,  la  lavoratrice  o  il  lavoratore  ha facoltà di revocare le dimissioni o la risoluzione  consensuale.  La revoca può essere comunicata  in  forma  scritta.  Il  contratto  di lavoro, se interrotto per effetto del recesso, torna ad  avere  corso normale dal giorno successivo alla comunicazione della revoca. Per il periodo intercorso tra il recesso e la revoca, qualora la prestazione lavorativa non sia stata  svolta,  il  prestatore  non  matura  alcun diritto retributivo. Alla revoca del recesso conseguono la cessazione di ogni  effetto  delle  eventuali  pattuizioni  a  esso  connesse  e l'obbligo  in  capo  al  lavoratore  di   restituire   tutto   quanto eventualmente percepito in forza di esse.
22. Qualora, in mancanza della convalida di cui al comma 17  ovvero della sottoscrizione di cui al comma 18,  il  datore  di  lavoro  non provveda  a  trasmettere  alla  lavoratrice  o   al   lavoratore   la comunicazione contenente l'invito entro il termine di  trenta  giorni dalla data delle  dimissioni  e  della  risoluzione  consensuale,  le dimissioni si considerano definitivamente prive di effetto.

[2] In merito alla fattispecie concreta la sentenza così prosegue:

La Corte d'appello non si attenuta a suddetto indirizzo, onerando il lavoratore di una probatio diabolica, pur considerando incontroversa la data di avvenuta interruzione del rapporto di lavoro (11 febbraio 2002) e, nel contempo, non specificando la causa della cessazione del rapporto stesso.
In particolare, la Corte catanese:
1)       senza attribuire alcun rilievo alla - significativa - circostanza che il Giudice di primo grado ha accertato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato (nel periodo 1 aprile 2001- 11 febbraio 2002) ancorché originariamente il Pe. avesse sostenuto la natura amichevole e gratuita del rapporto stesso;
ha poi affermato che doveva essere il P. a provare che il rapporto si era concluso per volontà del datore di lavoro, presumendo che sia stato lo stesso lavoratore ad abbandonare il lavoro per motivi personali attinenti ... all'infortunio subito, anzichè considerare che la prova di tale ultima circostanza non poteva non ricadere sul datore di lavoro stesso, tanto più che, ai fini di una eventuale prova delle dimissioni, è necessario verificare che la dichiarazione o il comportamento cui si intende attribuire il valore negoziale di recesso del lavoratore contenga la manifestazione univoca dell'incondizionata volontà di porre fine al rapporto e che questa volontà sia stata comunicata in modo idoneo alla controparte”

martedì 24 marzo 2015

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo da comminare in un contratto a tutele crescenti devo applicare la procedura di cui all'art. 7 della legge 604 del 1966 ?





In base al comma terzo dell'art. 3 comma 3 del D.lgs 2015 n. 23 "al licenziamento dei lavoratori" per giustificato motivo oggettivo "non trova applicazione l'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni".

lunedì 23 marzo 2015

Nelle aziende con più di 15 dipendenti quando posso licenziare ad nutum un lavoratore per sopraggiunti limiti di età?

In forza dell’art. 24 comma 4 del DL 201 del 2011: “Il proseguimento  dell'attività  lavorativa  è  incentivato, fermi restando i  limiti  ordinamentali  dei  rispettivi  settori  di appartenenza,  dall'operare  dei   coefficienti   di   trasformazione calcolati fino all'età di settant'anni, fatti salvi gli  adeguamenti alla  speranza  di  vita,  come   previsti   dall'articolo   12   del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito,  con  modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010,  n.  122  e  successive  modificazioni  e integrazioni. Nei confronti dei  lavoratori  dipendenti,  l'efficacia delle disposizioni di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera  fino  al  conseguimento  del predetto limite massimo di flessibilità.”


In pratica per le aziende in regime di art. 18 il dipendente che prosegua il rapporto oltre l’età anagrafica prevista per il pensionamento di vecchiaia non può essere licenziato senza giusta causa o giustificato motivo sino ai 70 anni. Una volta raggiunta tale età ferma restando l’anzianità contributiva  minima pari a 20 anni[1] il datore di lavoro può liberamente recedere  dal rapporto di lavoro dando solo il preavviso contrattuale. 

attenzione

 Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Roma, con sentenza depositata il 30 aprile 2014, ha ritenuto che l’art. 24 in questione contenga unicamente la previsione di un incentivo alla permanenza in servizio fino al settantesimo anno di età, in coerenza con l’impianto della riforma del sistema pensionistico che tende all’innalzamento dell’età pensionabile, e un invito alle parti a consentire la prosecuzione del rapporto Secondo la sentenza, il tenore letterale della norma, nella parte in cui recita “il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato … fino all’età di settant’anni …”, non consente, quindi, di affermare che la norma sancisca un vero e proprio diritto potestativo del lavoratore di scegliere se rimanere in servizio fino all’età di settant’anni, né un correlativo obbligo dal datore di lavoro di consentire la prosecuzione del rapporto fino a tale limite massimo di età.

Sullo stesso tenore sentenza del Tribunale di Roma n. 20718/2013, depositata il 5 novembre 2013  e Corte d’Appello di Torino n. 799/2013 (che fa riferimento ad un licenziamento intervenuto per raggiungimento dell’età pensionabile intimato il 24 settembre 2012).

Il giudice di merito non ritiene che il tenore letterale della norma sopra riportata giustifichi l’esistenza di un diritto potestativo in favore del lavoratore che sarebbe libero di scegliere se rimanere fino all’età di 70 anni o meno, diritto di fronte al quale sussisterebbe soltanto un obbligo del datore di lavoro di acconsentire alla prosecuzione del rapporto fino all’età richiesta dal lavoratore. L’utilizzazione del termine “incentivato”, secondo il Tribunale di Roma, in assenza di altre indicazioni che consentano di affermare sia il diritto del lavoratore che la disciplina dell’esercizio di tale diritto, porta ad affermare che la disposizione abbia un valore prettamente programmatico: ciò significa che l’art. 24, comma 4, è, in sostanza, un invito alle parti finalizzato ad una eventuale prosecuzione fino al limite massimo dei 70 anni, in coerenza con l’impianto complessivo della riforma del sistema pensionistico che porta all’innalzamento dell’età pensionabile. La norma, non prevede alcun diritto potestativo ma incentiva la permanenza in servizio con coefficienti di trasformazione favorevoli e attraverso la tutela dell’art. 18 della legge n. 300/1970 che va a sostituire la disposizione attraverso la quale per i lavoratori che raggiungevano l’età pensionabile esisteva soltanto il recesso “ad nutum”. In conclusione, tuttavia, il giudice di merito ha rimarcato come la possibilità di rimanere in servizio dopo il compimento dei 66 anni e 3 mesi e fino ai 70 anni con la fruizione degli incentivi previsti dalla legge, sia subordinata, in assenza di un diritto potestativo, al consenso di entrambe le parti, cosa che nella fattispecie considerata non si è verificata.

Tale principio è stato avvalato dalla sentenza delle Sez. Unite della Cassazione del  04/09/2015, n. 17589 secondo cui “La disposizione di cui all'art. 24 comma 4 dl 201 del 2011, non attribuisce al lavoratore il diritto potestativo di proseguire nel rapporto di lavoro fino al raggiungimento del settantesimo anno di età, in quanto la norma non crea alcun automatismo, ma prefigura solo la formulazione di condizioni previdenziali che costituiscano incentivo alla prosecuzione dello stesso rapporto per un lasso di tempo che può estendersi fino a settanta anni”[1].



[1] Prosegue la corte: “ad avviso del Collegio, invece, il legislatore con il richiamo ai "limiti ordinamentali" intende precisare che la "incentivazione" al prolungamento del rapporto di lavoro non deve collidere con le disposizioni che, sul piano legislativo regolano gli specifici comparti (individuati sulla base della disciplina del rapporto tanto sul piano della regolazione sostanziale che di quella previdenziale) di appartenenza del lavoratore e che potrebbero essere ostativi al nuovo regime previsto dalla disposizione in esame. Di fronte alla genericità della formulazione della disposizione legislativa, quella che viene qui sostenuta, rappresenta l'interpretazione più ragionevole della norma, coerente con la soluzione sopra adottata, secondo cui i regimi previdenziali toccati dall'art. 24, comma 4, sono solo quelli regolati per legge.
16. Tale conclusione trova in qualche modo conferma nella disposizione del DL 31 agosto 2013 n.101, conv. dalla l. 2013 n. 125, che, nell'ambito del perseguimento di obiettivi di razionalizzazione della spesa nelle pubbliche amministrazioni e nelle società partecipate, all'art. 2, comma 5, da l'interpretazione autentica dell'art. 24, comma 4, sopra indicato. Detto DL 31 agosto 2013 n.101, prevede, infatti, che per i lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni il limite ordinamentale, previsto dai singoli settori di appartenenza per il collocamento a riposo d'ufficio e vigente alla data di entrata in vigore del decreto-legge stesso, non è modificato dall'elevazione dei requisiti anagrafici previsti per la pensione di vecchiaia. Il suo superamento, precisa la norma, è possibile solo per il trattenimento in servizio o per consentire all'interessato di conseguire la prima decorrenza utile della pensione.
17. Inoltre, la disposizione nel prevedere che "il proseguimento dell'attività lavorativa è incentivato... dall'operaie dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settantanni..." non attribuisce al lavoratore un diritto di opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro, nè consente allo stesso di scegliere tra la quiescenza o la continuazione del rapporto, ma prevede solo la possibilità che, grazie all'operare di coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settanta anni, si creino le condizioni per consentire ai lavoratori interessati la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre i limiti previsti dalla normativa di settore. E' questo il senso della locuzione "è incentivato... dall'operare dei coefficienti di trasformazione...", la quale presuppone che non solo si siano create dette più favorevoli condizioni previdenziali, ma anche che, grazie all'incentivo in questione, le parti consensualmente stabiliscano la prosecuzione del rapporto sulla base di una reciproca valutazione di interessi.
Correttamente l'odierna ricorrente, dunque, sostiene che la disposizione non attribuisce al lavoratore alcun diritto potestativo, in quanto la norma non crea alcun automatismo ma solo prefigura la formulazione di condizioni previdenziali che costituiscano incentivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro per un lasso di tempo che può estendersi fino a settanta anni.


NB con  ordinanza Tribunale di Roma 24 febbraio 2014: L'art. 24, quarto comma, della legge n. 214 del 2011 si limita a disporre che "Il proseguimento dell'attività lavorativa è incentivato (...) fino all'età di settantenni”. Sotto un profilo strettamente letterale e di tecnica redazionale normativa, la presenza nella proposizione in oggetto del verbo essere unito al participio passato del verbo incentivare indica l'intenzione del legislatore di ritenere dispositiva e immediatamente cogente la previsione relativa. Sotto un profilo logico e di connessione tra il significato dei termini utilizzati, non pare che "l'incentivo" previsto - inteso nel suo significato di "spinta, sprone" - fermi restando "i coefficienti di trasformazione" e il mantenimento delle tutele ex art. 18 1. n. 300 del 1970 "fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità", legato all'utilizzo del termine "proseguimento" che indica la semplice "continuazione" del rapporto, possa essere considerato come un mero invito o essere sottoposto ad un accordo tra le parti. Del resto, la precisazione in tema di garanzia di stabilità del rapporto, in caso di prosecuzione, esclude che il datore di lavoro possa opporsi alla richiesta del lavoratore. Sotto il profilo teleologico, appare chiara la ratio espressa dalla norma e volta ad incentivare il lavoratore alla continuazione dell'attività lavorativa anche alla luce degli intenti espressamente nel comma 1, lett. b) dell'art. 24 in esame ove espressamente si fa riferimento, tra l'altro, al principio della "flessibilità" nell'accesso ai trattamenti pensionistici "anche attraverso incentivi alla prosecuzione della vita lavorativa". Tanto chiarito, la norma in esame stabilisce un consequenziale diritto, di fonte legale, alla continuazione del rapporto lavorativo sino al compimento dei 70 anni di età, pur se il lavoratore abbia raggiunto la massima anzianità contributiva prevista dal proprio ordinamento di categoria.






[1] Art. 24  Comma 7. Il diritto alla pensione di vecchiaia  di  cui  al  comma  6  è conseguito in presenza di un'anzianità contributiva minima pari a 20 anni, a condizione che l'importo della pensione  risulti  essere  non inferiore, per  i  lavoratori  con  riferimento  ai  quali  il  primo accredito contributivo decorre successivamente al 1° gennaio 1996,  a 1,5 volte l'importo dell'assegno sociale di cui all'articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n.  335. Il  predetto  importo  soglia pari, per l'anno 2012, a 1,5 volte l'importo dell'assegno sociale  di cui all'articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995,  n.  335,  e' annualmente rivalutato sulla base della variazione media quinquennale del prodotto interno lordo (PIL)  nominale,  appositamente  calcolata dall'Istituto nazionale di statistica  (ISTAT),  con  riferimento  al quinquennio  precedente  l'anno  da  rivalutare.  In   occasione   di eventuali revisioni della serie storica del PIL operate dall'ISTAT, i tassi di variazione da considerare sono quelli  relativi  alla  seriepreesistente anche per l'anno in  cui  si  verifica  la  revisione  e quelli relativi alla nuova serie per gli anni successivi. Il predetto importo soglia non può in ogni caso essere inferiore,  per  un  dato anno, a 1,5 volte l'importo mensile  dell'assegno  sociale  stabilito per il medesimo anno. Si prescinde dal predetto requisito di  importo minimo se in possesso di un'età anagrafica  pari  a  settanta  anni, ferma restando un'anzianità contributiva minima effettiva di  cinque anni.  Fermo   restando   quanto   previsto   dall'articolo   2   del decreto-legge  28   settembre   2001,   n.   355,   convertito,   con modificazioni, dalla legge 27 novembre 2001, n. 417, all'articolo  1, comma 23 della legge 8 agosto 1995, n. 335, le parole ", ivi comprese quelle relative ai requisiti di accesso alla prestazione  di  cui  al comma 19," sono soppresse.

sabato 21 marzo 2015

In caso di trasferimento del lavoratore entro quando devo impugnare la disposizione aziendale?

L’art. 32 della legge 183 del 2010 comma 3 lettera c) estende i termini di decadenza per impugnature il licenziamento e depositare il ricorso (60 giorni per impugnazione e 180 per deposito ricorso)  stabiliti dall’art. 6 della legge 604 del 1966 [1] “al  trasferimento  ai  sensi  dell'articolo  2103  del  codice civile,  con  termine  decorrente  dalla  data  di  ricezione   della comunicazione di trasferimento”






[1] “Il licenziamento deve essere impugnato a pena di  decadenza  entro sessanta giorni dalla ricezione  della  sua  comunicazione  in  forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch' essa in forma scritta, dei motivi, ove  non  contestuale,  con  qualsiasi  atto  scritto,  anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota  la  volontà  del  lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione  sindacale  diretto ad impugnare il licenziamento stesso.
L'impugnazione e' inefficace se non e' seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito  del  ricorso  nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro  o  dalla comunicazione  alla  controparte  della  richiesta  di  tentativo  di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del  ricorso.  Qualora  la conciliazione o l'arbitrato  richiesti  siano  rifiutati  o  non  sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento,  il  ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro  sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”.


giovedì 19 marzo 2015

In caso di trasferimento d’azienda ex art. 2112 cc entro quando devo impugnare la cessione di contratto?

L’art. 32 della legge 183 del 2010 comma 4 lettera c) estende i termini di decadenza per impugnature il licenziamento e depositare il ricorso (60 giorni per impugnazione e 180 per deposito ricorso)  stabiliti dall’art. 6 della legge 604 del 1966[1] “alla  cessione  di  contratto  di  lavoro  avvenuta  ai  sensi dell'articolo 2112 del codice civile  con  termine  decorrente  dalla data del trasferimento”





[1]“Il licenziamento deve essere impugnato a pena di  decadenza  entro sessanta giorni dalla ricezione  della  sua  comunicazione  in  forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch' essa in forma scritta, dei motivi, ove  non  contestuale,  con  qualsiasi  atto  scritto,  anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota  la  volontà  del  lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione  sindacale  diretto ad impugnare il licenziamento stesso.
L'impugnazione e' inefficace se non e' seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito  del  ricorso  nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro  o  dalla comunicazione  alla  controparte  della  richiesta  di  tentativo  di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del  ricorso.  Qualora  la conciliazione o l'arbitrato  richiesti  siano  rifiutati  o  non  sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento,  il  ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro  sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”.


mercoledì 18 marzo 2015

Cosa è il contributo Aspi?

In forza dell’art. 2 comma 31 della legge 92 del 2012 è il contributo dovuto dal datore di lavoro che ha licenziato il proprio dipendente.

In particolare: “Nei casi di interruzione di  un  rapporto  di  lavoro  a  tempo indeterminato per le causali  che,  indipendentemente  dal  requisito contributivo, darebbero diritto all'ASpI, intervenuti a decorrere dal 1° gennaio 2013, è dovuta, a carico del datore di lavoro, una  somma pari al 41 per cento del massimale mensile di ASpI  per  ogni  dodici mesi di anzianità aziendale  negli  ultimi  tre  anni.  Nel  computo dell'anzianità aziendale sono  compresi  i  periodi  di  lavoro  con contratto diverso da quello a tempo indeterminato, se il rapporto  è proseguito senza soluzione di continuità o se comunque  si  è  dato luogo alla restituzione di cui al comma 30[1].

Il contributo è  dovuto  anche  per  le interruzioni dei rapporti di apprendistato diverse dalle dimissioni o dal recesso del lavoratore, ivi incluso  il  recesso  del  datore  di lavoro ai sensi dell'articolo 2, comma 1, lettera m), del testo unico dell'apprendistato, di cui al decreto legislativo 14 settembre  2011, n. 167.

Non è dovuto:
I)  fino  al  31 dicembre 2016, nei casi in  cui  sia  dovuto  il  contributo  di  cui all'articolo 5, comma 4, della legge 23 luglio 1991, n. 223[2].
II) per il periodo 2013-2015,  non e'  dovuto  nei  seguenti  casi: 
a)  licenziamenti   effettuati   in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succedute  assunzioni presso altri datori di lavoro, in attuazione di clausole sociali  che garantiscano la  continuità  occupazionale  prevista  dai  contratti collettivi  nazionali  di  lavoro  stipulati   dalle   organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale;
b) interruzione di  rapporto  di lavoro a tempo indeterminato, nel settore  delle  costruzioni  edili, per completamento delle  attività  e  chiusura  del  cantiere.



[1] In base al comma 28 dell’art. 2 della legge 92 del 2012 “ai rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato  si  applica un contributo addizionale,  a  carico  del  datore  di  lavoro,  pari all'1,4   per   cento   della   retribuzione   imponibile   ai   fini previdenziali”. Tuttavia in base al comma 30 se il rapporto dopo il patto di prova è trasformato in contratto a tempo indeterminato (o anche dopo sei mesi la cessazione del precedente rapporto a termine) il contributo è restituito (nel caso di contratto a tempo indeterminato dopo la cessazione dell’ultimo contratto a termine la restituzione avviene detraendo dalle mensilità spettanti un numero di mensilità ragguagliato al  periodo trascorso dalla  cessazione  del  precedente  rapporto  di  lavoro  a termine.

[2] In base al comma 35 “A decorrere dal 1° gennaio  2017,  nei  casi  di  licenziamento collettivo in cui la dichiarazione di eccedenza del personale di  cui all'articolo 4, comma 9, della legge 23  luglio  1991,  n.  223,  non abbia formato oggetto di accordo sindacale, il contributo di  cui  al comma 31 del presente articolo e' moltiplicato per tre volte.

martedì 17 marzo 2015

 cosa consiste l’offerta di conciliazione introdotta dall’art. 6 del D.lgs. 2015 n. 23 (contratti a tutele crescenti)

In forza dell’art. 6 in caso di licenziamento di lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato assunti dal 7 marzo 2015 il datore di lavoro “al fine di evitare il giudizio e ferma restando la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge” può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (60 giorni) “in una delle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, del codice civile[1], e all'articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276[2], e successive modificazioni, un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e non e' assoggettato a contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. L'accettazione dell'assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l'estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l'abbia già proposta. Le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario”.

Per tali effetti “la comunicazione obbligatoria telematica di cessazione del rapporto di cui all'articolo 4-bis del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni, e' integrata da una ulteriore comunicazione, da effettuarsi da parte del datore di lavoro entro 65 giorni dalla cessazione del rapporto, nella quale deve essere indicata l'avvenuta ovvero la non avvenuta conciliazione di cui al comma 1 e la cui omissione e' assoggettata alla medesima sanzione prevista per l'omissione della comunicazione di cui al predetto articolo 4-bis”.





[1] Ovvero le conciliazioni avvenute in sede giudiziale, innanzi alla DTL e sindacale (art. 410, 411 cpc, 411 terzo comma) o presso le sedi e secondo le modalità  previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni  maggiormente rappresentative (art. 412 ter ) o innanzi al collegio di conciliazione e di arbitrato di cui all’art. 412 quater cpc  
[2] Sono gli  organi  abilitati  alla  certificazione  dei contratti di lavoro, ovvero “le commissioni di certificazione istituite presso:
    a)  gli  enti  bilaterali  costituiti nell'ambito territoriale di riferimento  ovvero  a  livello  nazionale  quando  la commissione di certificazione  sia  costituita nell'ambito di organismi bilaterali a competenza nazionale;
    b)  le  Direzioni  provinciali  del lavoro e le province, secondo quanto  stabilito da apposito decreto del Ministro del lavoro e delle politiche  sociali  entro sessanta giorni dalla entrata in vigore del presente decreto;
    c)  le  università  pubbliche  e private, comprese le Fondazioni universitarie, registrate nell'albo di cui al comma 2, esclusivamente nell'ambito  di  rapporti di collaborazione e consulenza attivati con docenti  di diritto del lavoro di ruolo ai sensi dell'articolo 66 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382.
    c-bis)  il  Ministero  del  lavoro  e  delle  politiche sociali - Direzione   generale   della   tutela  delle  condizioni  di  lavoro, esclusivamente  nei  casi in cui il datore di lavoro abbia le proprie sedi di lavoro in almeno due province anche di regioni diverse ovvero per  quei  datori  di  lavoro  con  unica sede di lavoro associati ad organizzazioni  imprenditoriali  che  abbiano  predisposto  a livello nazionale  schemi  di  convenzioni  certificati  dalla commissione di certificazione  istituita  presso  il  Ministero  del  lavoro e delle politiche sociali, nell'ambito delle risorse umane e strumentali già operanti  presso  la Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro;
    c-ter)  i  consigli  provinciali dei consulenti del lavoro di cui alla  legge 11 gennaio 1979, n. 12, esclusivamente per i contratti di lavoro instaurati nell'ambito territoriale di riferimento senza nuovi o  maggiori  oneri  per  la  finanza pubblica e comunque unicamente nell'ambito  di  intese  definite tra il Ministero  del lavoro e delle  politiche sociali e il Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, con  l'attribuzione  a quest'ultimo delle funzioni di coordinamento e vigilanza per gli aspetti organizzativi”.

lunedì 16 marzo 2015

Quali sono i crediti di lavoro oltre al TFR garantiti dal fondo di garanzia in caso di fallimento dell’azienda e per quanto tempo sono garantiti?

L’Inps indennizza  le retribuzioni maturate e non corrisposte degli ultimi 90 giorni del rapporto di lavoro rientranti  nei dodici mesi che precedono la data (dies a quo) della domanda diretta all'apertura della procedura concorsuale o la data di deposito in tribunale del relativo ricorso e ciò  entro il limite massimo di tre volte la misura massima del trattamento salariale d’integrazione salariale mensile al netto delle trattenute previdenziali ed assistenziali.

I crediti di lavoro che possono essere posti a carico del Fondo sono :
- la retribuzione propriamente detta
- i ratei di tredicesima e di altre mensilità aggiuntive
- le somme dovute dal datore di lavoro a titolo di prestazioni di malattia e maternità;
Sono esclusi :
- l’indennità di preavviso
- l’indennità per ferie non godute
- l’indennità di malattia a carico dell’Inps che il datore di lavoro avrebbe dovuto anticipare.

I 12 mesi devono essere così individuati

-in generale sono i 12 mesi antecedenti la data della domanda diretta all'apertura del fallimento. Tuttavia se più favorevole il dies a quo corrisponde alla data di deposito del primo ricorso diretto all'apertura della suddetta procedura concorsuale indipendentemente da chi l'abbia proposta oppure la data del provvedimento di messa in liquidazione, di cessazione dell’esercizio provvisorio, di revoca dell’autorizzazione alla continuazione all’esercizio di impresa, per i lavoratori che dopo l’apertura di una procedura concorsuale abbiano effettivamente continuato a prestare attività lavorativa.

- se il lavoratore, prima di questa data, abbia agito personalmente in giudizio per ottenere le somme dovute, il dies a quo da cui calcolare i dodici mesi in cui devono ricadere gli ultimi tre del rapporto, è la data del deposito in Tribunale del relativo ricorso.


venerdì 13 marzo 2015

In caso di fallimento i crediti dei lavoratori dipendenti godono di privilegio?

In base all’art. 2751 bis n.1 i crediti i crediti “per le retribuzioni dovute, sotto qualsiasi forma, ai prestatori di lavoro subordinato e tutte le indennità dovute per effetto della cessazione del rapporto di lavoro, nonché il credito del lavoratore per i danni conseguenti alla mancata corresponsione, da parte del datore di lavoro, dei contributi previdenziali ed assicurativi obbligatori ed il credito per il risarcimento del danno subito per effetto di un licenziamento inefficace, nullo o annullabile”  hanno privilegio generale su tutti i beni mobili dell’impresa fallita.

Peraltro, i forza dell’art. 2776 cc i crediti relativi al TFR ed all’indennità di preavviso, in caso di infruttuosa esecuzione sui beni mobili sono collocati sussidiariamente sul prezzo degli immobili con preferenza rispetto ai creditori chirografari. Infine in base al secondo comma della norma e sempre in caso di infruttuosa esecuzione  sui mobili, gli ulteriori crediti di lavoro insieme ai crediti indicati dagli articoli 2751 e 2751-bis, ed i crediti per contributi dovuti a istituti, enti o fondi speciali, compresi quelli sostitutivi o integrativi, che gestiscono forme di assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, di cui all'art. 2753 cc, sono collocati sussidiariamente, sul prezzo degli immobili, con preferenza rispetto ai crediti chirografari, (ma dopo i crediti per Tfr e preavviso).


In caso di concorso con altri crediti privilegiati i crediti da lavoro si pongono in base all’art. 2777 cc subito dopo le spese di giustizia ma prima degli altri creditori privilegiati indicati dall’art. 2751 bis (seguono i professionisti – i prestatori d’opera e le provvigioni agenti – art. 2751 bis nn. 2 e 3; poi i crediti dei coltivatori diretti e delle imprese artigiane eco operative – art. 2751 bis nn. 4 e 5).

giovedì 12 marzo 2015

Se devo costituirmi in un causa di lavoro ed il termine di 10 (o di cinque giorni) scade il sabato quando devo costituirmi: sabato o venerdì?




La Corte di Cassazione, in più di un'occasione ha affermato che "l'art. 155, 4° co., c.p.c., diretto a prorogare al primo giorno non festivo il termine scadente in giorno festivo e l'art. 155, 5° co.,, c.p.c., volto a prorogare al primo giorno non festivo il termine che scada nella giornata di sabato (v. Cass., 7.5.2008, n.11163) opera con esclusivo riguardo ai termini a decorrenza successiva e non anche per quelli che si computano a ritroso, con l'assegnazione di un intervallo di tempo minimo prima del quale deve essere compiuta una determinata attività (v. Cass., 4.1.2011, n.182; Cass. 7.5.2008, n.11163; Cass., 12.12.2003, n.19041; Cass., 29.11.1977, n.5187.)



Ciò in quanto si produrrebbe altrimenti l'effetto contrario di una abbreviazione dell'intervallo, in pregiudizio delle esigenze garantite con la previsione del termine medesimo (v. Cass. 4.1.2011, n.182; Cass. 7.5.2008, n.111163. E già Cass., 24.4.1982, n.2540)."




Recentemente, la Corte di Cassazione, Terza sezione civile, con sentenza 14767 del 2104, depositata in data 30 giugno, nel condividere e ribadire l'orientamento riportato, ha sottolineato come "debba invero più correttamente affermarsi che le norme di cui all'art. 155, 4° e 5° comma, c.p.c. trovano in effetti applicazione anche relativamente al termine come nella specie a ritroso, con la particolarità che rispetto al termine a scadenza successiva la proroga in questione necessariamente opera in tal caso in modo speculare, in ragione della relativa modalità di calcolo.
A tale stregua, nei termini a ritroso lo slittamento contemplato all'art. 155, 4° e 5° co., c.p.c. va invero inteso come necessariamente riferito al giorno cronologicamente precedente non festivo rispetto al giorno festivo o al sabato in cui cada" il giorno di scadenza.




mercoledì 11 marzo 2015

In base all’art. 18 della legge 300 del 1970 come modificato dalla legge 92 del 2012 il licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittime che conseguenze provoca?

Tale disciplina si applica a coloro che sono dipendenti di aziende cui si applica per dimensioni l’art. 18 assunti sino alla data del 6 marzo 2015. Per coloro che sono assunti in un periodo successivo si applicano le tutele previste dal D.lgs  4 marzo 2015, n. 23 che disciplina il contratto a tutele crescenti[1]

1)      Insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo:

In tali casi, in base al comma settimo, il giudice può adottare la tutela prevista dal quarto comma ovvero: “reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest'ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d'ufficio alla gestione corrispondente all'attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma”.

2) altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo

In tali casi, in base al comma settimo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma ovvero: “dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo”.
In base al comma settimo, quando si applica il comma sesto il giudice, ai fini della determinazione dell'indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni”.  


3)      Inefficacia del licenziamento per mancata applicazione della procedura ex art. 7 legge 604 del 1966:

In base al comma sesto il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo[2].






[1] Art. 1 D.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 comma 1: 1. Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri,  assunti  con  contratto  di  lavoro  subordinato  a  tempo indeterminato a  decorrere  dalla  data  di  entrata  in  vigore  del presente decreto, il regime  di  tutela  nel  caso  di  licenziamento illegittimo e' disciplinato dalle disposizioni  di  cui  al  presente decreto.

[2] Art. 18.

Reintegrazione nel posto di lavoro.
1) Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell'articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.
2) Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. (2)
3) Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.
4) Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest'ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d'ufficio alla gestione corrispondente all'attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma.
5) Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.
6) Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all'articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo.
7) Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell'indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo.
8) Le disposizioni dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti.
9) Ai fini del computo del numero dei dipendenti di cui all'ottavo comma si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il computo dei limiti occupazionali di cui all'ottavo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.
10) Nell'ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo.
11) Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
12)L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
13) L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
14) Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui all'undicesimo comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.


martedì 10 marzo 2015

Cosa è il fondo di tesoreria costituito presso l’Inps?

Con la legge 296 del 2006 art. 1 comma 755 è stato istituito con effetto dal 1° gennaio 2007  il  "Fondo  per l'erogazione  ai  lavoratori  dipendenti  del  settore  privato   dei trattamenti di fine rapporto di  cui  all'articolo  2120  del  codice civile" per le aziende private con almeno 50[1] dipendenti (esclusi i datori di lavoro domestico).


Secondo la norma il fondo garantisce “ai  lavoratori  dipendenti  del  settore privato  l'erogazione  dei  trattamenti  di  fine  rapporto  di   cui all'articolo 2120 del codice civile, per la quota  rimasta in azienda e non destinata alla previdenza complementare. In particolare “al… Fondo  affluisce  un  contributo  pari  alla  quota  di  cui all'articolo 2120 del codice civile, al netto del contributo  di  cui all'articolo 3, ultimo comma, della legge 29  maggio  1982,  n.  297, maturata a decorrere dalla predetta data e non destinata  alle  forme pensionistiche complementari di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252” (comma 756).  Il  predetto  contributo  e'  versato  mensilmente  dai datori di lavoro.

Secondo il decreto ministeriale  30 gennaio 2007 emanato in forza dell’art. 1 comma 757 della legge 296 del 2006:

-    nessun versamento è dovuto al Fondo di Tesoreria INPS  in relazione ai lavoratori con rapporto di lavoro in essere al 31 dicembre 2006 che conferiscono a decorrere da una data compresa tra il 1° gennaio 2007 e il 30 giugno 2007, secondo modalità tacite o esplicite, l’intero TFR maturando a forme pensionistiche complementari, o che lo abbiano in precedenza integralmente conferito;
-   in caso di manifestazione della volontà di mantenere in tutto o in parte il TFR di cui all’articolo 2120 del codice civile, il datore di lavoro che abbia alle proprie dipendenze almeno 50 addetti è obbligato al versamento del contributo al Fondo di Tesoreria INPS, dal 1° gennaio 2007 ovvero dalla data di assunzione se successiva;
-         in relazione ai lavoratori il cui rapporto è iniziato in data successiva al 31 dicembre 2006 (che non abbiano già espresso la propria volontà in ordine al conferimento del TFR relativamente a precedenti rapporti di lavoro) che  conferiscono, secondo modalità tacite o esplicite, il TFR a forme pensionistiche complementari entro sei mesi dall’assunzione, il contributo al Fondo di Tesoreria è comunque dovuto fino al momento del conferimento del TFR.


Al termine del rapporto di lavoro il TFR sarà versato integralmente dal datore di lavoro anche per la quota parte di competenza del Fondo.

Il datore di lavoro tuttavia conguaglierà le quote di TFR corrispondenti ai versamenti al Fondo di Tesoreria  sui contributi dovuti, in base al seguente ordine di priorità:
1) contributi dovuti al Fondo di Tesoreria;
2) in caso di incapienza, contributi obbligatori dovuti all’Istituto (contributi IVS e altri minori).

Qualora l’importo totale delle prestazioni di competenza del Fondo che l’azienda è tenuta ad erogare nel mese – siano esse a titolo di prestazione finale, ovvero di anticipazione - ecceda l’ammontare dei contributi complessivamente dovuti al Fondo e agli Enti previdenziali con la  denuncia del mese di erogazione, il Fondo stesso è tenuto a pagare l’intera quota a suo carico delle prestazioni richieste.
In quest’ultimo caso, il datore di lavoro è tenuto a comunicare immediatamente al Fondo l’incapienza prodottasi e il Fondo medesimo provvederà, entro trenta giorni, ad erogare direttamente al lavoratore l’importo della prestazione per la quota di propria spettanza[2].





[1] Secondo circolare Inps del 3 aprile  2007: “Il datore di lavoro deve avere alle proprie dipendenze almeno 50 addetti. A tale proposito il DM 30 gennaio 2007, recante le modalità di attuazione delle disposizioni dei commi 755 e 756 della legge finanziaria 2007, precisa che nel predetto limite devono essere computati tutti i lavoratori con contratto di lavoro subordinato a prescindere dalla tipologia del rapporto di lavoro e dall’orario di lavoro.
Pertanto ogni lavoratore, qualunque siano le particolarità che caratterizzano il suo contratto di lavoro subordinato (tempo determinato, stagionale, apprendistato, inserimento o reinserimento, intermittente, formazione e lavoro, somministrazione, domicilio, ecc.) vale come una unità ai fini del calcolo del predetto limite dimensionale.
Fanno eccezione  i lavoratori con contratto di lavoro a tempo parziale, che sono computati in base alle previsioni dell’articolo 6 del D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61.
Anche il lavoratore assente (qualunque sia la causa, compresa l’aspettativa per cariche elettive o sindacali, aspettativa motivi famiglia e altre) è computato nel limite, a meno che  in sua sostituzione sia stato assunto un altro lavoratore, nel qual caso sarà computato quest’ultimo”.

Sono tuttavia esclusi:
-          lavoratori con rapporto di lavoro a tempo determinato di durata inferiore a 3 mesi; a tale proposito, si prende a riferimento, per i contratti in corso alla data di entrata in vigore della norma, il termine di durata del rapporto previsto dal contratto  e, in caso di eventuale proroga, il termine complessivo di durata del rapporto. Al riguardo si precisa che l’obbligo del versamento al Fondo di tesoreria  decorre dal periodo della proroga. Si fa presente altresì che l’esclusione dall’obbligo del versamento non riguarda i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, anche se il relativo rapporto si interrompa prima dei 3 mesi;
-          lavoratori stagionali del settore agro-alimentare per i quali il termine non è prestabilito ma è legato al verificarsi di un evento, per es. il termine della campagna saccarifera);
-           lavoratori a domicilio;
-          impiegati, quadri e dirigenti del settore agricolo (assicurati per il TFR presso l’ENPAIA);
-          lavoratori per i quali i CCNL prevedano, anche mediante rinvio alla contrattazione di secondo livello, al posto dell’accantonamento, la corresponsione periodica delle quote maturate di TFR (es. marittimi componenti gli equipaggi delle navi da pesca in regime di legge n. 413/1984; personale marittimo in continuità di rapporto di lavoro di cui alla circolare n. 162 del 1998; personale marittimo in turno particolare); pertanto non rilevano, al fine di escludere dall’obbligo del versamento, previsioni aventi tale contenuto in fonti diverse; 
-          lavoratori per i quali i CCNL prevedono, anche mediante rinvio alla contrattazione di secondo livello,  l’accantonamento delle quote maturate di TFR presso soggetti terzi (es. lavoratori dell’edilizia con TFR accantonato presso le Casse Edili).
-          Sono altresì esclusi i lavoratori assicurati presso il “Fondo di previdenza  per gli impiegati dipendenti dai concessionari del servizio di riscossione dei tributi  delle altre entrate dello Stato e degli Enti pubblici” e i lavoratori iscritti al “Fondo delle abolite imposte di consumo”, in quanto assoggettati a specifica disciplina in materia di trattamenti di fine rapporto (prestazioni in capitale).

[2] Secondo il messaggio  del12-12-2008 n. 27770 del 1970 per il pagamento diretto da parte del Fondo Tesoreria occorre seguire le seguenti istruzoni:

L’azienda è tenuta a comunicare l’incapienza per il recupero dal fondo di tesoreria delle quote di TFR versate e da restituire al/ai lavoratore/i interessato/i. Ogni singolo lavoratore deve a sua volta comunicare i dati necessari per procedere alla liquidazione del TFR di competenza.

La domanda, redatta su modulo FTES01, va presentata alla Sede di competenza dell’azienda che provvederà sia alla prima liquidazione del TFR che all’eventuale riesame delle pratiche.

Il modello FTES01 deve essere compilato dall’Azienda che chiede l’intervento del Fondo ed ogni lavoratore interessato deve compilare e sottoscrivere il modello FTES02, da presentare insieme al modello FTES01. L’Azienda deve indicare oltre i dati identificativi del lavoratore, la data di inizio e fine rapporto di lavoro, la data di inizio e fine del periodo di versamento del TFR al Fondo di Tesoreria, l’importo degli acconti già anticipati per quote versate al Fondo di Tesoreria e le trattenute fiscali effettuate su tali anticipi. L’Azienda deve inoltre precisare l’aliquota fiscale da applicare, calcolata considerando l’anzianità complessiva maturata dal lavoratore presso l’azienda dichiarante. In caso di numero di lavoratori superiore al numero delle righe contenute nel modello FTES01 deve essere utilizzato il modello FTES03.

Per i moduli citati:
www.inps.it/portale/default.aspx?imenu=107&formspalladestramodulistica=true&sricerca=tesoreria