sabato 30 maggio 2015

Come si computa l’indennità di preavviso?

In base all’art. 2121 cc l'indennità di cui preavviso deve calcolarsi “computando le provvigioni, i premi di produzione, le partecipazioni agli utili o ai prodotti ed ogni altro compenso di carattere continuativo, con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese.
Se il prestatore di lavoro è retribuito in tutto o in parte con provvigioni, con premi di produzione o con partecipazioni, l'indennità suddetta è determinata sulla media degli emolumenti degli ultimi tre anni di servizio o del minor tempo di servizio prestato.

Fa parte della retribuzione anche l'equivalente del vitto e dell'alloggio dovuto al prestatore di lavoro” .

giovedì 28 maggio 2015

Quando l’omesso versamento delle ritenute irpef operate dal datore di lavoro costituisce reato?


In forza dell’art. 10 bis d.lgs 74 del 2000: “E' punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa   entro   il   termine  previsto  per  la  presentazione  della dichiarazione  annuale  di  sostituto  di imposta ritenute risultanti dalla  certificazione  rilasciata  ai  sostituiti,  per  un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d'imposta.”


mercoledì 27 maggio 2015

Il lavoratore deve fruire di una pausa?


In forza dell’art. 8 del Dlgs 66 del 2003 “Qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità  e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro,  ai  fini  del  recupero  delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.”

Se manca la contrattazione collettiva “al  lavoratore deve essere concessa una pausa, anche sul posto  di  lavoro, tra l'inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di  lavoro,  di  durata  non  inferiore  a  dieci  minuti  e  la  cui collocazione  deve  tener  conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo”.


In base al comma terzo, “Salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi, rimangono non  retribuiti  o computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti  di  durata  i  periodi di cui all'articolo 5 regio decreto 10 settembre   1923,   n.   1955,   e  successivi  atti  applicativi,  e dell'articolo  4  del  regio  decreto  10  settembre 1923, n. 1956, e successive integrazioni”.

In pratica:

Art. 5 del regio decreto 10 settembre  1923,  n.  1955 (Approvazione del regolamento relativo alla limitazione   dell'orario  di  lavoro  per  gli  operai  ed           impiegati   delle  aziende  industriali  o  commerciali  di qualunque natura): “Non si considerano come lavoro effettivo:
1° i   riposi   intermedi   che  siano  presi  sia all'interno che all'esterno dell'azienda;
2° il tempo impiegato per recarsi al posto di lavoro. Nelle  miniere  o  cave la durata del lavoro si computa dall'entrata all'uscita dal pozzo;
3° le soste di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore, comprese tra  l'inizio  e  la fine di ogni periodo della giornata di lavoro,   durante   le   quali  non  sia  richiesta  alcuna prestazione  all'operaio  o all'impiegato. Tuttavia saranno           considerate  nel computo del lavoro effettivo quelle soste, anche  se  di  durata  superiore  ai  15  minuti,  che sono concesse  all'operaio  nei lavori molto faticosi allo scopo di  rimetterlo  in  condizioni  fisiche  di  riprendere  il lavoro.
I  riposi  normali, perché possano essere detratti dal computo  del  lavoro effettivo, debbono essere prestabiliti ad ore fisse ed indicati nell'orario di cui all'art. 12.
E'  ammesso  il  ricupero dei periodi di sosta dovuti a cause impreviste indipendenti dalla volontà dell'operaio e del  datore  di  lavoro  e  che  derivano da causa di forza maggiore   e   dalle   interruzioni   dell'orario   normale concordate  fra  i  datori  di  lavoro e i loro dipendenti,         purché  i  conseguenti prolungamenti d'orario non eccedano il  limite  massimo di un'ora al giorno e le norme per tali prolungamenti risultino dai patti di lavoro”.

Art. 4 del regio decreto 10 settembre 923,  n.  1956 (Approvazione del regolamento relativo alla           limitazione  dell'orario  di  lavoro  ai  lavoratori  delle aziende agricole):”Non si considerano come lavoro effettivo e  non  sono  compresi  nella  durata  massima  normale  della giornata   di  lavoro  prescritta  dall'art.  1  del  regio decreto-legge:
1° i riposi intermedi;
2°  il  tempo  per  l'andata  ai  campo o al posto di lavoro   e  quello  per  i  ritorno  in  conformità  delle consuetudini locali;
3° il  tempo  necessario  per  le  martellature della falce salvo patto contrario”.



Quando è derogabile l’art. 8?


In forza dell’art. 17 primo comma “Le disposizioni di cui agli articoli 7, 8, 12  e  13  possono essere derogate mediante contratti  collettivi  stipulati  a  livello nazionale  con  le  organizzazioni  sindacali  comparativamente  più rappresentative. Per il settore privato,  in  assenza  di  specifiche disposizioni nei contratti collettivi nazionali  le  deroghe  possono essere stabilite nei contratti collettivi  territoriali  o  aziendali stipulati  con  le  organizzazioni  sindacali  comparativamente  piu'
rappresentative sul piano nazionale[1].
 
Da notare che le “deroghe previste nei commi 1, 2 e 3  dell’art. 17 possono  essere  ammesse soltanto a condizione che ai prestatori  di  lavoro  siano  accordati periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali  in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non  sia  possibile  per  motivi  oggettivi,  a  condizione  che   ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata.

Inoltre:
- in forza del comma  5 “el  rispetto  dei  principi  generali  della  protezione  della sicurezza e della salute dei lavoratori, le disposizioni di cui  agli articoli 3, 4, 5, 7, 8, 12 e 13 non si applicano ai lavoratori la cui durata  dell'orario  di  lavoro,  a   causa   delle   caratteristiche dell'attività esercitata, non e' misurata o  predeterminata  o  può essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta:
    a) di dirigenti, di personale direttivo delle aziende o di  altre persone aventi potere di decisione autonomo;
    b) di manodopera familiare;
    c) di lavoratori nel  settore  liturgico  delle  chiese  e  delle comunità religiose;
    d) di prestazioni  rese  nell'ambito  di  rapporti  di  lavoro  a domicilio e di tele-lavoro.
- in forza del comma 6 “nel  rispetto  dei  principi  generali  della  protezione  della sicurezza e della salute dei lavoratori, le disposizioni di cui  agli articoli 7, 8, 9 e 13, non si applicano al personale mobile.  Per  il personale mobile dipendente da aziende  autoferrotranviarie,  trovano applicazione le relative disposizioni di cui al  regio  decreto-legge 19 ottobre 1923, n. 2328, convertito dalla legge 17 aprile  1925,  n. 473, e alla legge 14 febbraio 1958, n. 138.  




[1] 2. In mancanza di disciplina collettiva, il Ministero del lavoro  e delle  politiche  sociali  ovvero,  per  i  pubblici  dipendenti,  il Ministro per la funzione pubblica, di concerto con  il  Ministro  del lavoro e delle politiche sociali, su richiesta  delle  organizzazioni sindacali    nazionali    di    categoria    comparativamente    più rappresentative o  delle  associazioni  nazionali  di  categoria  dei datori di lavoro firmatarie dei  contratti  collettivi  nazionali  di lavoro, adotta un decreto, sentite le  stesse  parti,  per  stabilire deroghe agli articoli 4, terzo comma, nel limite di sei mesi,  7,  8, 12 e 13 con riferimento:
a) alle attività caratterizzate dalla distanza fra il  luogo  di lavoro e il luogo di residenza del  lavoratore,  compreso  il  lavoro offshore, oppure dalla distanza fra i suoi diversi luoghi di lavoro;
b)  alle  attività  di  guardia,   sorveglianza   e   permanenza caratterizzate dalla necessità di assicurare la protezione dei  beni delle persone, in particolare, quando  si  tratta  di  guardiani  o
portinai o di imprese di sorveglianza;
c) alle attività caratterizzate dalla necessità  di  assicurare la continuità del  servizio  o  della  produzione,  in  particolare, quando si tratta:
1) di servizi relativi all'accettazione, al  trattamento  o  alle cure prestati  da  ospedali  o  stabilimenti  analoghi,  comprese  le attività dei medici in formazione, da case di riposo e da carceri;
            2) del personale portuale o aeroportuale;
3)  di  servizi  della  stampa,   radiofonici,   televisivi,   di produzione cinematografica, postali  o  delle  telecomunicazioni,  di servizi di ambulanza, antincendio o di protezione civile;
4) di servizi di produzione, di conduzione  e  distribuzione  del gas, dell'acqua e  dell'elettricità,  di  servizi  di  raccolta  dei rifiuti domestici o degli impianti di incenerimento;
            5) di industrie in cui il lavoro non può essere  interrotto  per ragioni tecniche;
            6) di attività di ricerca e sviluppo;
            7) dell'agricoltura;
8) di lavoratori  operanti  nei  servizi  regolari  di  trasporto passeggeri in ambito urbano ai sensi dell'articolo 10 comma 1, numero 14), 2^ periodo, del  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  26 ottobre 1972, n. 633;
d) in  caso  di  sovraccarico  prevedibile  di  attività,  e  in particolare:
            1) nell'agricoltura;
            2) nel turismo;
            3) nei servizi postali;
e) per personale che lavora nel settore dei trasporti ferroviari:
1) per le attività discontinue;
            2) per il servizio prestato a bordo dei treni;
3) per le attività  connesse  al  trasporto  ferroviario  e  che assicurano la regolarità del traffico ferroviario;
f) a fatti dovuti a circostanze estranee  al  datore  di  lavoro, eccezionali e imprevedibili o eventi eccezionali, le conseguenze  dei quali sarebbero state  comunque  inevitabili  malgrado  la  diligenza
osservata;
g) in caso di incidente o di rischio di incidente imminente.

martedì 26 maggio 2015

Cosa determina l’esperimento del tentativo di conciliazione ex art. 410 cpc ai fini della prescrizione e della decadenza?



In forza del comma secondo dell’art. 410 cpc “La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”.

lunedì 25 maggio 2015

Costituisce reato l’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori?





Con l'art. 3, comma 6, D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 8. il comma 1 bis dell' art. 2 del DL 1983 n. 463 che disciplina l'omesso versamento delle ritenute previdenziali assistenzili è il seguente:

1-bis. L'omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l'importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione .

1-ter. La denuncia di reato è presentata o trasmessa senza ritardo dopo il versamento di cui al comma 1-bis ovvero decorso inutilmente il termine ivi previsto. Alla denuncia è allegata l'attestazione delle somme eventualmente versate .

1-quater. Durante il termine di cui al comma 1-bis il corso della prescrizione rimane sospeso


PRECEDENTEMENTE

In forza del comma 1 bis DL 1983 n. 463 vecchio testo,  l’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori “e' punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino  a  lire due milioni. Il datore di lavoro  non  e'  punibile  se  provvede  al versamento entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione”.


In particolare:


In base all’art. 2 commi 1,2, 1 bis  e 1 ter del DL 463 del 1983:

2. . Le ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, ivi comprese le trattenute effettuate ai sensi degli articoli 20, 21 e 22 della legge 1969 b. 153, debbono essere comunque versate e non possono essere portate a conguaglio con le somme anticipate, nelle forme e nei termini di legge, dal datore di lavoro ai lavoratori per conto delle gestioni previdenziali ed assistenziali, e regolarmente denunciate alle gestioni stesse, tranne che a seguito di conguaglio tra gli importi contributivi a carico del datore di lavoro e le somme anticipate risulti un saldo attivo a favore del datore di lavoro.
1-bis. L'omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1 è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a lire due milioni. Il datore di lavoro non è punibile se provvede al versamento entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione .

1-ter. La denuncia di reato è presentata o trasmessa senza ritardo dopo il versamento di cui al comma 1-bisovvero decorso inutilmente il termine ivi previsto. Alla denuncia è allegata l'attestazione delle somme eventualmente versate”

Da notare che l’art. 2 della legge delega n. 67 del 2014 comma 2 lettera c) ha delegato il governo a “  trasformare  in  illecito  amministrativo  il  reato  di  cui all'articolo 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983,  n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983,  n.
638, purché l'omesso versamento non ecceda il limite complessivo  di 10.000 euro annui e preservando comunque  il  principio  per  cui  il datore di lavoro non risponde a titolo di illecito amministrativo, se provvede  al  versamento  entro  il  termine  di   tre   mesi   dalla contestazione  o  dalla  notifica  dell'avvenuto  accertamento  della violazione”.

Sulla operatività della legge delega in assenza di decreti delegati in  giurisprudenza:

contra

Cass. pen. Sez. III, 14/04/2015, n. 20547 “Il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, previsto dall'art. 2, comma 1-bis, dl 463 del 1983 conv. in l. 638 del 1983, non può ritenersi abrogato per effetto diretto dell'art. 2 comma 2 lett. c. l. 67 del 2014, posto che quest'ultima conferisce al governo una delega, implicante, ai fini della prevista depenalizzazione della fattispecie di reato, il suo esercizio mediante emanazione di apposito decreto delegato”

Cass. 31 luglio 2014 – 17 settembre 2014 n. 38080 “L’omesso versamento delle ritenute previdenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti costituisce reato (ai sensi dell’art. 2, comma 1 bis, d.l. n. 463 del 1983, convertito in l. n. 638 del 1983) anche a seguito della depenalizzazione, per omessi versamenti fino a dieci­mila euro annui, prospettata dall’art. 2, 2° comma, lett. c), l. n. 67 del 2014, costituendo quest’ultima mera norma di dele­gazione, non ancora attuata dal governo con decreto legisla­tivo”

 a favore


Tribunale di Asti; sentenza 20 giugno 2014 – 27 giugno 2014; Giud. Corato; “L’omesso versamento delle ritenute previdenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti non costituisce più reato (per il caso di importo fino a dieci­mila euro annui) in forza della previsione della futura depe­nalizzazione operata dall’art. 2, 2° comma, lett. c), l. n. 67 del 2014, in quanto tale disposizione, ancorché norma di de­legazione, va considerata, in virtù di una interpretazione si­stematica che tiene anche conto delle risultanze di Corte cost. 21 maggio 2014, n. 139, già direttamente produttiva di effetti giuridici

sabato 23 maggio 2015

Quando si ha il c.d. lavoro gratuito?

Ecco una piccola rassegna giurisprudenziale:

Legittimità:

La prestazione di lavoro resa da un "militante" a favore di un partito politico, in quanto connotata da finalità ideali e non lucrative (affectionis vel benevolentiae causa), è da considerarsi effettuata a titolo gratuito. Cass. civ., Sez. lavoro, 03/07/2012, n. 11089

Il rapporto di scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione costituisce uno degli elementi costitutivi del contratto di lavoro subordinato come delineato dall’art. 2094 cc, così distinguendosi, sia dalla prestazione di lavoro a titolo gratuito, sia dai rapporti di tipo associativo. Tuttavia quanto più il rapporto assuma, per gli altri versi, le caratteristiche tipiche dei rapporti a carattere oneroso, opera al riguardo la presunzione di fatto di onerosità, basata sui criteri della normalità, dell'apparenza e della buona fede, a tutela del ragionevole e legittimo affidamento della parte interessata, sempre che non sussistano invece i presupposti per l'operare di una presunzione di gratuità, correlata alle situazioni in cui i criteri della normalità e dell'affidamento conducano ad un'opzione in tal senso. Cass. civ., Sez. lavoro, 01/09/2004, n. 17584

Secondo le norme dell'ordinamento statuale vigente - applicabili anche al rapporto di lavoro del religioso, non essendo il relativo status limitativo della comune capacità del soggetto ed essendo gli effetti dei voti, previsti dal diritto canonico, riconosciuti, in base al diritto concordatario, solo a determinati fini - la fattispecie tipica del rapporto di lavoro subordinato è caratterizzata non solo dagli estremi della collaborazione e della subordinazione ma anche dell'onerosità e, pertanto, non ricorre nel caso in cui una determinata attività, ancorché oggetti va m ente configurabile quale prestazione di lavoro subordinato, non sia eseguita con spirito di subordinazione né in vista di adeguata retribuzione, ma affectionis vel benevolentiae causa o in omaggio a principi di ordine morale o religioso o in vista di vantaggi che si traggano o si speri di trarre dall'esercizio dell'attività stessa. La configurabilità dello svolgimento a titolo gratuito di una prestazione obiettivamente lavorativa, come tale al di fuori del contratto di lavoro in senso tecnico, non trova ostacolo nelle norme costituzionali (art. 36) e del cc (artt. 2094, 2099, 2113 e 2126) che presuppongono l'onerosità del rapporto, in quanto le stesse, attenendo alla figura tipica del contratto di lavoro, non escludono l'ammissibilità di una prestazione lavorativa con le caratteristiche suindicate, la cui pattuizione è consentita all'autonomia privata.  Cass. civ., Sez. lavoro, 07/11/2003, n. 16774

Per negare che le prestazioni lavorative svolte nell'ambito di un gruppo parentale diano luogo a un rapporto di lavoro subordinato o di parasubordinazione occorre accertare l'esistenza di una partecipazione costante dei vari membri alla vita e agli interessi del gruppo, ossia uno stato di mutua solidarietà e assistenza, dovendo in difetto di ciò, specie quando le prestazioni lavorative siano svolte nell'ambito di un'attività professionale esercitata al di fuori della comunità familiare, escludersi l'ipotesi del lavoro gratuito, la cui presunzione peraltro non opera quando i soggetti non convivano sotto il medesimo tetto ma stiano in unità abitative autonome e distinte. Cass. civ., Sez. lavoro, 27/12/1999, n. 14579

Ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un rapporto diverso istituito affectionis vel benevolentiae causa, caratterizzato dalla gratuità della prestazione; a tale fine non rileva il grado maggiore o minore di subordinazione, cooperazione o inserimento del prestatore di lavoro, ma la sussistenza o meno di una finalità ideale alternativa rispetto a quella lucrativa, che deve essere rigorosamente provata, fermo restando che la valutazione al riguardo compiuta dal giudice del merito è incensurabile in sede di legittimità, se immune da errori di diritto e da vizi logici. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, sulla base delle specifiche circostanze di fatto emerse dall'istruttoria espletata, aveva ritenuto provato che il ricorrente, giornalista, aveva svolto a titolo gratuito l'attività, non a tempo pieno, di direzione di un notiziario politico edito da un gruppo consiliare presso un'assemblea regionale). Cass. civ., Sez. lavoro, 06/04/1999, n. 3304

Una volta che la parte attrice con il ricorso introduttivo di una causa di lavoro abbia dedotto in maniera circostanziata l'esistenza di un rapporto di lavoro domestico, formulando altresì le relative richieste probatorie, costituisce onere del convenuto, ai sensi dell'art. 416, commi 2 e 3 c.p.c., eccepire tempestivamente con la memoria difensiva di costituzione la sussistenza di relazioni affettive che giustifichino la gratuità del rapporto e chiedere la prova delle relative circostanze di fatto. Conseguentemente, nel caso in cui il convenuto non abbia tempestivamente proposto tali difese ed al contrario, non contestando i fatti dedotti dall'avversario ed eccependo la prescrizione, li abbia ammessi, correttamente il giudice di merito ritiene sulla loro base l'esistenza di un ordinario - e quindi oneroso - rapporto di lavoro subordinato, ed esonera l'attrice dall'espletamento della prova richiesta, senza dare rilievo in senso contrario al fatto che nel successivo corso del giudizio il convenuto abbia invece dedotto il carattere non subordinato e gratuito del rapporto. (Nella specie, il convenuto aveva in un secondo tempo asserito che il rapporto si era svolto tra conviventi sulla base di "affectio", solidarietà e benevolenza. Il giudice d'appello, nel ritenere l'insussistenza di particolari rapporti affettivi e il carattere subordinato e oneroso del rapporto, aveva qualificato la lavoratrice quale "Vergara", figura tipica di collaboratrice domestica in area di campagna nella provincia di Macerata, dando rilievo a tale qualifica e alla fruizione da parte dell'interessata di alloggio - per sè e in taluni periodi anche per i suoi familiari - prima nell'abitazione del datore di lavoro e poi in una adiacente, e di altre prestazioni in natura, tra cui la facoltà di intrattenere un piccolo allevamento di suini, al fine di liquidare - con procedimento dalla S.C. ritenuto corretto - le spettanze retributive dell'attrice disattendendo in parte i parametri offerti dalle previsioni dei contratti collettivi del settore domestico e valutando equitativamete il valore delle prestazioni in natura). Cass. civ., Sez. lavoro, 06/12/1996, n. 10872

Per negare che le prestazioni lavorative svolte nell'ambito di un gruppo parentale diano luogo ad un rapporto di lavoro subordinato o di parasubordinazione, occorre accertare l'esistenza di una partecipazione costante dei vari membri alla vita agli interessi del gruppo, ossia uno stato di mutua solidarietà e assistenza, dovendo in difetto di ciò, specie quando le prestazioni lavorative siano svolte al di fuori della comunità familiare, escludersi l'ipotesi del lavoro gratuito, la cui presunzione, peraltro, non opera quando i soggetti non sono conviventi sotto il medesimo tetto ma in unità abitative autonome e distinte. Cass. civ., Sez. lavoro, 14/12/1994, n. 10664

Non è rapporto di lavoro familiare a titolo gratuito quello in cui un cugino presti la sua opera subordinata a favore di altro senza conviverci e senza avere comunque con lui una comunanza di vita o d'interessi, ed in mancanza di qualsiasi insegnamento da parte del datore, anche perché privo, questi, di particolare capacità nello svolgere la sua attività (nella specie, la gestione di una pizzeria-panificio). Cass. civ., Sez. lavoro, 23/02/1989, n. 1009

Il diritto alla retribuzione, in corrispettivo della prestazione lavorativa, previsto e tutelato dalla costituzione art. 36) e dal c. c. (art. 2094, 2099, 2113 e 2126), con esclusione di ogni possibilità di valida rinuncia, riguarda il rapporto a titolo oneroso, ma non è di per sé preclusivo della configurabilità di un'attività lavorativa a titolo gratuito, la cui pattuizione deve ritenersi consentita all'autonomia privata, sempre che, integrando una eccezionale deroga alla normale onerosità del rapporto, ricorrano particolari circostanze oggettive o soggettive (modalità e quantità del lavoro, condizioni economico-sociali delle parti, relazioni intercorrenti fra le stesse, ecc.), che giustifichino la causa gratuita e consentano di negare con certezza la sussistenza di un accordo elusivo di detta irrinunciabilità della retribuzione medesima. Cass. civ., 05/02/1983, n. 996

L'affermazione della ricorrenza di un rapporto di lavoro subordinato a titolo gratuito, con esclusione del diritto alla retribuzione, non può essere fondata sulla sola base dei patti inerenti al momento genetico del rapporto stesso o sulla successiva inerzia del lavoratore nel richiedere il compenso, ma postula un preciso riscontro, alla stregua del concreto svolgimento dell'attività lavorativa, di elementi e situazioni giustificativi dell'eccezione alla normale onerosità dell'attività medesima; nella specie, il mancato intervento dell'approvazione o del visto, da parte dell'organo di controllo, della delibera di un ente ospedaliero la quale stabilisca il trattenimento in servizio di un sanitario, come straordinario, nonché la retribuibilità del medesimo, comporta l'impossibilità di inquadrare nell'ambito di un rapporto di pubblico impiego il servizio prestato dal sanitario ma anche l'impossibilità di ravvisare nella stessa delibera la prova della gratuità del rapporto in deroga alla normale onerosità dell'attività lavorativa oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato. Cass. civ., 19/01/1983, n. 527

Secondo le norme dell'ordinamento statuale vigente, applicabili anche al rapporto di lavoro del religioso, non essendo il relativo status limitativo della comune capacità del soggetto ed essendo gli effetti dei voti, previsti dal diritto canonico, riconosciuti, in base al diritto concordatario, solo a determinati fini, la fattispecie tipica del rapporto di lavoro subordinato è caratterizzata non solo dagli estremi della collaborazione e della subordinazione ma anche dell'onerosità e, pertanto, non ricorre nel caso in cui una determinata attività, ancorché oggettivamente configurabile quale prestazione di lavoro subordinato, non sia eseguita con spirito di subordinazione né in vista di adeguata retribuzione, ma affectionis vel benevolentiae causa o in omaggio a principi di ordine morale o religioso o in vista di vantaggi che si traggano o si speri di trarre dall'esercizio dell'attività stessa; la configurabilità dello svolgimento a titolo gratuito di una prestazione obiettivamente lavorativa, come tale al di fuori del contratto di lavoro in senso tecnico, non trova ostacolo nelle norme costituzionali (art. 36 Cost)  del c.c. (art. 2094, 2099, 2113 e 2126) che presuppongono l'onerosità del rapporto, in quanto le stesse, attenendo alla figura tipica del contratto di lavoro, non escludono l'ammissibilità di una prestazione lavorativa con le caratteristiche suindicate, la cui pattuizione è consentita all'autonomia privata. Cass. civ., 13/05/1982, n. 2987

Il diritto alla retribuzione, in corrispettivo della prestazione lavorativa, previsto e tutelato dalla costituzione (art. 36) e dal c. c. (art. 2094, 2099, 2113 e 2126), con esclusione di ogni possibilità di valida rinuncia, riguarda il rapporto a titolo oneroso, ma non è di per sé preclusivo della configurabilità di un'attività lavorativa a titolo gratuito, la cui pattuizione deve ritenersi consentita all'autonomia privata, sempre che integrando una eccezionale deroga alla normale onerosità del rapporto, ricorrano particolari circostanze oggettive o soggettive (modalità e quantità del lavoro, condizioni economico-sociali delle parti, relazioni intercorrenti fra le stesse, ecc.), che giustifichino la causa gratuita e consentano di negare con certezza la sussistenza di un accordo elusivo di detta irrinunciabilità della retribuzione medesima; pertanto, con riguardo ad un medico, che sia stato ammesso a frequentare un ospedale in qualità di «volontario» o «specialista onorario», ma abbia poi in concreto svolto anche attività lavorativa di tipo subordinato, analoga a quella dei medici dipendenti dell'ospedale stesso, l'affermazione della ricorrenza di un rapporto a titolo gratuito, con esclusione del diritto alla retribuzione, non può essere fondata sulla sola base dei patti inerenti al momento genetico del rapporto, ovvero sulla successiva inerzia del lavoratore nel chiedere il compenso, ma postula un preciso riscontro, alla stregua del concreto svolgimento dell'attività lavorativa, di elementi e situazioni giustificative dell'eccezione alla normale onerosità dell'attività medesima, nei termini specificati.  Cass. civ., 11/04/1981, n. 2123


Merito

La retribuzione costituisce un elemento essenziale del contratto di lavoro subordinato, il quale, dunque, si presume pattuito a titolo oneroso. Ne consegue che il contratto di lavoro gratuito è ammissibile unicamente come contratto atipico nei limiti posti dall’art. 1322 cc ovvero quando sia diretto a perseguire interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico, cioè particolari ragioni di tipo affettivo, solidaristico, religioso che devono essere rigorosamente provate da chi afferma la gratuità del rapporto. Trib. Trapani, Sez. lavoro, 31/01/2012

Lo svolgimento di una prestazione di lavoro giornalistico non può escludere la configurabilità di una prestazione lavorativa a titolo gratuito, riconducibile a un rapporto istituito affectionis vel benevolentiae causa. Tuttavia, di tale gratuità deve essere data prova rigorosa da parte del beneficiario della prestazione; siddetta prova non può consistere nella semplice inerzia del prestatore nel chiedere il compenso per la prestazione, ma deve essere desunta dall'originaria volontà delle parti nonché delle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro. Trib. Verona, 10/06/2005

Poichè le prestazioni lavorative fra coniugi si presumono fatte a titolo gratuito, colui che afferma l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato deve dimostrare che ricorrano in concreto i requisiti dell'onerosità e della subordinazione, con specifico riferimento alla obbligatorietà e continuità delle prestazioni stesse, all'inserimento nella struttura organizzativa dell'impresa ed all'esercizio di un potere disciplinare e direttivo del beneficiario delle prestazioni. Pret. Sassari, 17/01/1994

giovedì 21 maggio 2015

Quando il tempo di vestizione deve essere retribuito al lavoratore?





Come è stato indicato dalla recente Cassazione n. 2837 del 7 febbraio 2014,: "in relazione alla regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 - secondo cui "è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un'occupazione assidua e continuativa"- il principio secondo cui tale disposizione non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell'attività lavorativa." 

Secondo la corte, pertanto, se la vestizione è strettamente necessaria ed obbligatoria per lo svolgimento della prestazione lavorativa questa è attività da remunerare. In particolare: visto che è possibile distinguere "nel rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa direttamente l'interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell'ambito della disciplina d'impresa (art. 2104 comma 2 cod.civ. ) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva." (Cassazione n. 2837 del 7 febbraio 2014)

Ed ancora:

“Il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale deve essere retribuito, o non deve essere retribuito, a seconda della disciplina contrattuale specifica: ove vi sia facoltà del lavoratore circa il tempo ed il luogo (anche a casa) in cui indossarlo, fa parte degli atti di diligenza preparatoria e non deve essere retribuito; ove tale operazione sia eterodiretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e come tale il tempo necessario deve essere retribuito. Cass. n. 15734/2003

“Posto che nell’orario di lavoro ai sensi della nuova disciplina (dlgs 66 del 2003) rientra il tempo necessario per tutte quelle attività preparatorie e propedeutiche all’espletamento di una determinata prestazione lavorativa, rientra nell’orario di lavoro, e come tale va retribuito, il tempo occorrente al lavoratore per indossare e dimettere la divisa di lavoro in quanto attività funzionali all’inizio della prestazione lavorativa che deve essere espletata utilizzando una specifica divisa imposta dall’azienda.” (App. Milano, 20/10/2005 Cannavò c. Autogrill s.p.a.  Lavoro nella Giur., 2006, 5, 508 Dir. e Pratica Lav., 2008, 20, 1201).

“L’orario di lavoro inizia quando il dipendente - entrando nell’impresa organizzata e diretta dall’imprenditore (art. 2082 e 2094 cc.) - si assoggetta alle di lui disposizioni. Questa indicazione di massima - in conseguenza della quale ogni attività svolta all’interno dell’impresa s’identifica col tempo di lavoro - non può che essere riconfermata allorquando una certa attività svolta dal dipendente all’interno dell’unità in cui lavora, è in funzione dell’adempimento di un dovere che il datore di lavoro ha valutato come attinente alla posizione lavorativa. (Nella specie, il tribunale ha riconosciuto la stretta connessione tra attività lavorativa e disposizione aziendale d’indossare una divisa - operazione che poteva essere effettuata solo entrando in azienda - imputando i tempi di vestizione della divisa nell’orario di lavoro prestato.” (Trib. Milano, estensore Mannacio, 10/06/1995 Soc. Sma supermercati c. De Leo e altri Orient. Giur. Lav., 1995, 370)





mercoledì 20 maggio 2015

A quanto ammontano i contributi della gestione separata nel 2015?


L’art. 10-bis del decreto legge 31 dicembre 2014, n. 142, - cd Milleproroghe – convertito dalla legge 27 febbraio 2015 n. 11, pubblicata sulla GU n. 49 del 28 febbraio 2015, ha sostituito il primo periodo dell’art. 1, comma 744, della legge 147/2013 e variato quanto già previsto dall’art. 1, comma 79, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (s.m.i.).


Conseguentemente ai lavoratori autonomi, titolari di partita IVA, iscritti in via esclusiva alla Gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge n. 335/95, per l’anno 2014 e 2015 si applica l’aliquota contributiva del 27%, per l’anno 2016 si applica l’aliquota contributiva del 28% e per l’anno 2017 del 29%..

Per i soggetti iscritti alla Gestione Separata, i contributi dovuti per l’anno 2015 sono calcolati applicando le aliquote così come di seguito specificato:

Liberi Professionisti non assicurati presso altre forme pensionistiche obbligatorie 27,72% (27,00 IVS + 0,72 aliquota aggiuntiva)
Soggetti titolari di pensione o provvisti di altra tutela pensionistica obbligatoria 23,50%

Collaboratori e figure assimilate non assicurati presso altre forme pensionistiche obbligatorie 30,72% (30,00 IVS + 0,72 aliquota aggiuntiva)
Soggetti titolari di pensione o provvisti di altra tutela pensionistica obbligatoria 23,50%.

Ne consegue che l’accredito contributivo calcolato sul minimale è così calcolato:

Reddito minimo annuo
€ 15.548,00     23,50%           € 3.653,78
€ 15.548,00     27,72%           € 4.309,91 (IVS 4.197,96)
€ 15.548,00     30,72%           € 4.776,35 (IVS 4.664,40)



martedì 19 maggio 2015

Quando è legittimo il licenziamento per scarso rendimento del lavoratore?

Ecco una raccolta della Cassazione:

E’ legittimo il licenziamento per scarso rendimento intimato al lavoratore qualora sia risultata provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso e in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - e a lui imputabile - in conseguenza dell'”enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito a una media di attività tra i vari dipendenti (Cassazione 2013 n. 2291)

E’ legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia risultato provato, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione (nella specie, la Corte ha confermato il licenziamento inflitto ad un addetto ad un laboratorio per controllo qualità a cui erano stati contestati molteplici ritardi, omissioni e violazioni, tutti oggetto di una sola contestazione disciplinare che aveva portato al licenziamento).
Rende legittimo il licenziamento per scarso rendimento l'atteggiamento negligente del lavoratore, protratto nel tempo e non modificato a seguito dei richiami dei superiori, il quale violi in modo incontestato la clausola di rendimento relativa all'attività lavorativa espletata, nonostante la qualità di rendimento e la capacità professionale dimostrate in precedenza (Cass. 2010 n. 24361)


Nel licenziamento per scarso rendimento del lavoratore, rientrante nel tipo del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, il datore di lavoro - cui spetta l'onere della prova - non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l'oggettiva sua esigibilità, ma deve anche provare che la causa di esso derivi da colpevole negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell'espletamento della sua normale prestazione. Nella valutazione delle relative risultanze probatorie dovrà tenersi conto - alla stregua di un bilanciamento dei principi costituzionali sanciti dagli art. 4 e 41 Cost. - del grado di diligenza normalmente richiesto per la prestazione lavorativa e di quello effettivamente usato dal lavoratore, nonché dell'incidenza dell'organizzazione complessiva del lavoro nell'impresa e dei fattori socio-ambientale. (cass.2009 n. 20050)

Il legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia risultato provato, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda con la quale un lavoratore, inquadrato nella qualifica di operatore di vendita, chiedeva la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli a seguito della contestazione di non aver raggiunto l'obiettivo di fatturato stabilito nei mesi da marzo ad ottobre del 2003).
In tema di licenziamento per scarso rendimento , la negligenza può essere provata anche solo attraverso presunzioni e tale prova, concernente l'inadempimento del lavoratore, costituisce una valutazione di fatto che spetta al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore, inquadrato nella qualifica di operatore di vendita ed addetto ad una determinata zona di vendita, intimato a seguito della contestazione di non aver raggiunto l'obiettivo di fatturato stabilito nei mesi da marzo ad ottobre del 2003, attingendo la prova della negligenza del lavoratore da plurimi elementi, senza reputare necessaria la produzione in giudizio da parte del datore di lavoro della documentazione idonea a dimostrare i minimi produttivi in concreto raggiungibili e i risultati conseguiti da altri lavoratori, addetti alla stessa specifica attività, operanti nella medesima zona). (cass. 2009 n. 1632)




E’ legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia risultato provato, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata con la quale era stata affermata la legittimità del recesso datoriale in relazione alla violazione dell'obbligo contrattuale di collaborazione da parte di un ispettore dipendente di una società assicurativa secondo i programmi di produzione e le direttive impartite, ravvisando la congruità della motivazione circa la valutazione delle risultanze acquisite comprovanti il notevole calo del rendimento nell'arco degli ultimi anni del rapporto di lavoro comparato in percentuale con quello dei colleghi e l'imputabilità dello scarso rendimento alla negligenza del lavoratore). (cass. 2006 n. 3876)

Nel licenziamento per scarso rendimento del lavoratore, rientrante nel tipo di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, il datore di lavoro - a cui spetta l'onere della prova - non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l'oggettiva sua esigibilità, ma deve anche provare che la causa di esso derivi da colpevole e negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell'espletamento della sua normale prestazione. Nella valutazione delle relative risultanze probatorie dovrà tenersi conto - alla stregua di un bilanciamento dei principi costituzionali sanciti dagli artt. 4 e 41 Cost. - del grado di diligenza normalmente richiesto per la prestazione lavorativa e di quello effettivamente usato dal lavoratore, nonché dell'incidenza della organizzazione complessiva del lavoro nell'impresa e dei fattori socio-ambientali. Cass. 2004 n. 15351

Nel licenziamento per scarso rendimento del lavoratore, rientrante nel tipo di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, il datore di lavoro - a cui spetta l'onere della prova - non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l'oggettiva sua esigibilità, ma deve anche provare che la causa di esso derivi da colpevole e negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell'espletamento della sua normale prestazione. Nella valutazione delle relative risultanze probatorie dovrà tenersi conto - alla stregua di un bilanciamento dei principi costituzionali sanciti dagli art. 4 e 41 Cost. - del grado di diligenza normalmente richiesto per la prestazione lavorativa e di quello effettivamente usato dal lavoratore, nonché dell'incidenza della organizzazione complessiva del lavoro nell'impresa e dei fattori socio-ambientali. Cass. 2003 13194

In tema di licenziamento per scarso rendimento, la negligenza può essere provata anche solo attraverso presunzioni. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C., con riferimento al licenziamento per scarso rendimento della dipendente, addetta all'acquisizione di polizze assicurative, ha ritenuto raggiunta la prova della negligenza sulla base di un complesso univoco di elementi presuntivi, consistenti in ciò che altri due produttori operanti nella medesima zona avevano raggiunto e superato gli obiettivi annuali, che la lavoratrice licenziata, quando venne affiancata nelle visite ai possibili clienti da altro collega, aveva raggiunto gli obiettivi prefissati e che ella effettuava visite a potenziali clienti solo nel suo comune di residenza).
L'atteggiamento negligente del lavoratore, protratto nel tempo e non modificato a seguito dei richiami dei superiori, il quale violi in modo incontestato la clausola di rendimento relativa all'attività lavorativa espletata, svolta fuori dal controllo dell'imprenditore, rende legittimo il licenziamento per scarso rendimento, nonostante la qualità di rendimento e capacità professionale dimostrate in precedenza. La negligenza può essere provata solo attraverso presunzioni.
Il datore di lavoro, che intenda licenziare per scarso rendimento, non può limitarsi a provare esclusivamente il mancato raggiungimento del risultato, ma deve altresì dimostrare che la causa di esso derivi da negligenza nell'espletamento della prestazione lavorativa. La prova della negligenza, però, può essere raggiunta anche solo ed unicamente mediante elementi presuntivi uno dei quali, sicuramente, è rappresentato dallo scarso rendimento del lavoratore subordinato. Cass. 2003 n. 6747


Lo scarso rendimento rilevante ai fini del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sussiste soltanto allorché esso cagioni la perdita totale dell'interesse del datore di lavoro alla prestazione, da valutare mediante indagine condotta alla stregua di tutte le circostanze della fattispecie concreta compreso fra queste il comportamento del datore di lavoro, per accertare se il medesimo, obbligato non solo al pagamento della retribuzione ma anche a predisporre i mezzi per l'esplicazione dell'attività lavorativa, si sia o meno attivato per prevenire o rimuovere situazioni ostative allo svolgimento della prestazione lavorativa.
Lo scarso rendimento del lavoratore può essere addotto, a seconda delle circostanze, come giustificato motivo oggettivo di licenziamento come giustificato motivo soggettivo, quando esso sia l'effetto di un inadempimento degli obblighi contrattuali. Alla valutazione della sussistenza e gravità di tale inadempimento deve concorrere l'apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto ("obiter dictum").
II datore di lavoro che intenda far valere lo scarso rendimento del dipendente quale giustificato motivo soggettivo di licenziamento, non può limitarsi a provare il mancato raggiungimento del risultato atteso ed eventualmente la sua oggettiva esiguità, ma è onerato dalla dimostrazione di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, quale fatto complesso alla cui valutazione deve concorrere anche l'apprezzamento degli aspetti concreti. Nonostante la previsione di un minimo quantitativo, infatti, il lavoratore resta obbligato a un facere e non a un risultato, con la conseguenza che l'inadeguatezza della prestazione resa può essere imputabile alla stessa organizzazione dell'impresa o comunque a fattori non dipendenti dal lavoratore . Cass. 2003 n. 3250

L'obbligo, posto a carico del datore di lavoro (nella specie, istituto di credito) dalla contrattazione collettiva - che contenga una clausola che condiziona la corresponsione del premio di rendimento ai dipendenti al conseguimento di una determinata qualifica - di motivare succintamente la classificazione di un dipendente come "mediocre" o "insufficiente", con conseguente esclusione della possibilità, per questo, di conseguimento di detto premio, non configura una prescrizione sulla forma, ma una procedimentalizzazione, con finalità di garanzia, del potere unilaterale del datore di lavoro. Ne consegue che l'inosservanza di tale obbligo deve essere ricondotta non già alla nullità per mancanza della forma convenuta, ma alla fattispecie dell'inadempimento dell'obbligazione, assunta dal titolare del potere, di esercitarlo secondo determinate modalità. Peraltro, anche in tale prospettiva, la violazione dell'obbligo di motivare succintamente l'attribuzione della qualifica di "mediocre" o "insufficiente", importa la stessa conseguenza, che, cioè, la classificazione stessa debba ritenersi non avvenuto. Cass 2001 n. 11207

L'inidoneità del lavoratore allo svolgimento dei compiti affidatigli, per mancanza delle capacità e della preparazione necessari può giustificare il licenziamento non disciplinare per giustificato motivo, senza che possa rilevare in senso contrario l'inquadramento della prestazione del lavoratore nell'ambito delle obbligazioni di mezzi e non di risultato, o possa eccepirsi la mancata applicazione del procedimento previsto dall'art. 11 dell'accordo interconfederale 18 ottobre 1950, reso efficace "erga omnes" con il D.P.R. 14 luglio 1960 n. 1011, prevedente, in caso di scarso rendimento, la previa ammonizione del lavoratore e la segnalazione del caso alla commissione interna, quali condizioni per l'applicazione del licenziamento, dato che la materia dei licenziamenti individuali è stata regolata "ex novo" dalle leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970 con norme imperative. Cass. 2000 n. 14964

Il rendimento lavorativo inferiore al minimo contrattuale, o d'uso, non integra "ex se" l'inesatto adempimento che, a norma dell'art. 1218 c.c., si presume, fino a prova contraria, imputabile a colpa del debitore, dato che, nonostante la previsione di minimi quantitativi, il lavoratore è obbligato a un "facere" e non a un risultato e la inadeguatezza della prestazione resa può essere imputabile alla stessa organizzazione dell'impresa o comunque a fattori non dipendenti dal lavoratore. Conseguentemente, in relazione al cosiddetto scarso rendimento, il datore di lavoro che intenda farlo valere quale giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ai sensi dell'art. 3 l. n. 604 del 1966, non può limitarsi - neanche nei casi in cui il risultato della prestazione non è collegato ad elementi intrinsecamente aleatori - a provare il mancato raggiungimento del risultato atteso ed eventualmente la sua oggettiva esigibilità, ma è onerato della dimostrazione di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, quale fatto complesso alla cui valutazione deve concorrere anche l'apprezzamento degli aspetti concreti del fatto addebitato, tra cui il grado di diligenza richiesto dalla prestazione quello usato dal lavoratore. Cass. 2000 n. 14605

Il rendimento lavorativo inferiore al minimo contrattuale, o d'uso, non integra "ex se" l'inesatto adempimento che, a norma dell'art. 1218 c.c., si presume, fino a prova contraria, imputabile a colpa del debitore, dato che, nonostante la previsione di minimi quantitativi, il lavoratore è obbligato a un "facere" e non a un risultato e la inadeguatezza della prestazione resa può essere imputabile alla stessa organizzazione dell'impresa o comunque a fattori non dipendenti dal lavoratore. Conseguentemente, in relazione al cosiddetto scarso rendimento, il datore di lavoro che intenda farlo valere quale giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ai sensi dell'art. 3 della l. n. 604 del 1966, non può limitarsi - neanche nei casi in cui il risultato della prestazione non è collegato ad elementi intrinsecamente aleatori - a provare il mancato raggiungimento del risultato atteso ed eventualmente la sua oggettiva esigibilità, ma è onerato della dimostrazione di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, quale fatto complesso alla cui valutazione deve concorrere anche l'apprezzamento degli aspetti concreti del fatto addebitato, tra cui il grado di diligenza richiesto dalla prestazione e quello usato dal lavoratore.
È illegittimo il licenziamento di un lavoratore per scarso rendimento ove il datore di lavoro si sia limitato a provare il mancato raggiungimento del risultato atteso e non abbia dimostrato un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, come fatto complesso alla cui valutazione deve concorrere l'apprezzamento del grado di diligenza richiesto dalla prestazione e di quello usato dal lavoratore (nel caso, si trattava di un malato di mente). Cass. 2000 n. 11001


Per poter essere ricondotto a un'ipotesi di giustificato motivo soggettivo di licenziamento, lo scarso rendimento , in quanto forma di inadempimento agli obblighi contrattuali, deve essere valutato non solo sulla base del mancato raggiungimento del risultato atteso e oggettivamente esigibile, ma anche e soprattutto alla luce del comportamento negligente del lavoratore che lo abbia determinato. Cass. 1999 n. 5048  

lunedì 18 maggio 2015

Il consenso scritto dei lavoratori può evitare d’incorrere nel reato di cui all’art. 4 della l. 300 del 1970 in caso di assenza delle rsa  e preventiva autorizzazione dell’ispettorato del lavoro?


In forza dell’art. 4 della legge 300 del 1970 comma secondo, anche per “gli  impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da  esigenze  organizzative  e  produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro,  ma  dai  quali  derivi  anche la possibilità di controllo a distanza  dell'attività  dei  lavoratori,  possono essere installati soltanto  previo  accordo  con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di  accordo,  su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del  lavoro,  dettando,  ove  occorra, le modalità per l'uso di tali impianti”.

Quindi l’autorizzazione è preventiva ed occorre anche quando il controllo dei dipendenti è eventuale. Tuttavia secondo una pronuncia della Cassazione

“Non integra il reato previsto dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori ( legge 300 del 1970) l'installazione di un sistema di videosorveglianza potenzialmente in grado di controllare a distanza l'attività dei lavoratori, la cui attivazione, anche in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, sia stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti”. (Annulla senza rinvio, Trib. Pisa, 20/04/2011) Cass. pen., Sez. III, 17/04/2012, n. 22611



Tuttavia si sconsiglia di non richiedere l'autorizzazione all'ispettorato posto che attualmente esistono procedure estremamente semplificate per ottenere l'autorizzazione. 

sabato 16 maggio 2015

Alla data del 17 maggio 2015 il lavoratore adibito a mansioni superiori quando matura il diritto all’assegnazione definitiva alle stesse?


In forza dell’art. 2103 cc “nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi”

giovedì 14 maggio 2015

Nel ricorso di opposizione contro l’ordinanza che ha definito la fase sommaria del giudizio promosso ai sensi dell’art. 1 commi 47 e ss. L. 92 del 2012 (cd Rito Fornero) può essere chiamato a decidere  lo stesso giudice della prima fase?

Con sentenza n. 78 del 2015 la corte Costituzionale ha stabilito che nella fase di opposizione all’ordinanza ex art. 1 comma 51 l. 92 del 2012[1] la decisione affidata al giudice della fase sommaria è conforme a Costituzione.

In particolare la corte era stata chiamata a verificare la legittimità costituzionale dell’art. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile e 1, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), in forza dell’ordinanza di rimessione del 27 gennaio 2014 (r.o. n. 87 del 2014) del  Tribunale ordinario di Milano in relazione agli  artt. 3, 24 e 111 della Costituzione  «nella parte in cui non prevedono l’obbligo di astensione per l’organo giudicante (persona fisica) investito del giudizio di opposizione ex art. 51, comma 1 [rectius: art. 1, comma 51], l. n. 92 del 2012 che abbia pronunciato l’ordinanza ex art. 1, comma 49».

Secondo il Tribunale di Milano: «La morfologia strutturale dell’istituto processuale introdotto dalla l. 92/2012 corrisponde […] integralmente al codice genetico tipico dei procedimenti bifasici, in cui l’unico processo di merito è scandito da due fasi: una preliminare sommaria, e una (eventuale: se c’è opposizione) a cognizione piena». Per cui «Si versa, in buona sostanza, nell’ambito delle forme procedimentali che prevedono provvedimenti interinali a contenuto decisorio, cedevoli nel corso del successivo giudizio di merito», con riguardo alle quali «è notoriamente escluso che possa trovare applicazione l’obbligo dell’astensione, tant’è che, quando il Legislatore ha voluto esprimere una riserva, lo ha fatto in modo espresso». Ravvisa, appunto, in ciò la ragione per cui il legislatore del 2012 «ha escluso la necessità di un giudice (persona fisica) differente per la trattazione del giudizio di opposizione», disponendo che l’opposizione, di che trattasi, sia proposta con ricorso «da depositare dinnanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto».

Nonostante ciò Milano ha rilevato che la fase di opposizione nell’esaminato processo, «pur non istituendo, in senso tecnico, un “grado” di giudizio», potrebbe «di fatto […] assume[re] valore impugnatorio con contenuto sostanziale di revisio prioris instantiae».

Dal che, dunque, il sospetto che «La dinamica procedimentale così confezionata» comporti «violazione dell’art. 3, primo comma, della Costituzione, per la irragionevole diversità di disciplina rispetto all’ipotesi, sostanzialmente simile, prevista dall’art. 669-terdecies, secondo comma, cod. proc. civ., che ha introdotto un caso di incompatibilità del giudice in una ipotesi abbastanza analoga, per essere adottata quale tertium comparationis». E la possibilità che contrasti, altresì, con gli artt. 24 e 111 Cost., «per la lesione del diritto alla tutela giurisdizionale, sotto il profilo di esclusione della imparzialità del giudice».

La corte ha escluso l’incostituzionalità rilevando quando segue.

1.– Questa Corte è chiamata a stabilire se l’art. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile, prevedente l’obbligo di astensione in capo al magistrato che abbia conosciuto della causa «in altro grado del processo» e l’art. 1, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), per il quale (nel contesto del nuovo rito impugnatorio dei licenziamenti), avverso l’ordinanza che decide in via semplificata sul ricorso del lavoratore, può essere proposta opposizione «da depositare dinanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto» − nella parte in cui (dette norme) non prevedono l’obbligo di astensione per l’organo giudicante (persona fisica) investito della suddetta opposizione ove abbia pronunciato l’ordinanza opposta – violino:
− l’art. 3, primo comma, della Costituzione, per l’assunta irragionevolezza della diversità di disciplina rispetto alla (sostanzialmente) simile ipotesi prevista dall’art. 669-terdecies, secondo comma, cod. proc. civ. che – con riferimento all’istituto del reclamo nel procedimento cautelare – stabilisce l’incompatibilità tra il giudice che ha emesso il provvedimento reclamato e il giudice (in composizione collegiale, del quale il primo non può far parte) designato alla trattazione e alla decisione del proposto reclamo (parametro specificatamente dedotto solo dal Tribunale ordinario di Milano con l’ordinanza depositata il 27 gennaio 2014, iscritta al r.o. n. 87 del 2014);
‒ gli artt. 24 e 111 Cost., per la ravvisata lesione del diritto alla tutela giurisdizionale sotto il profilo di esclusione dell’imparzialità del giudice (parametri dedotti con tutte e quattro le ordinanze di rimessione).
2.− Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità formulata, dall’Avvocatura generale dello Stato, sul presupposto che la questione in esame sia identica, per oggetto e termini della sua prospettazione, a quella già sollevata dal Tribunale ordinario di Siena e dichiarata, appunto, manifestamente inammissibile, da questa Corte, con ordinanza n. 205 del 2014.
È pur vero, infatti, che gli odierni rimettenti, come già il Tribunale di Siena, condividono l’opzione esegetica che esclude la riconducibilità, alle disposizioni denunciate, di una previsione di incompatibilità, del magistrato (persona fisica) che abbia pronunciato l’ordinanza di cui all’art. 1, comma 49, della legge n. 92 del 2012, a decidere sull’opposizione, avverso l’ordinanza medesima, di cui al successivo comma 51 dell’art. 1 della predetta legge.
Ma, mentre il Tribunale di Siena chiedeva a questa Corte un avallo di tale interpretazione (ritenuta preferibile e più costituzionalmente conforme rispetto ad altra, a suo avviso, possibile, di segno opposto) – ciò che, dunque, si risolveva in un uso distorto del giudizio di costituzionalità – i giudici a quibus propriamente chiedono, invece, ora di verificarne la compatibilità con gli evocati parametri costituzionali.
3.‒ Va, del pari, respinta l’ulteriore eccezione di inammissibilità, articolata dall’Avvocatura generale dello Stato, in ragione della omissione, addebitata ai Tribunali rimettenti, della previa verifica di praticabilità di una lettura delle disposizioni denunziate nel senso – che si assume costituzionalmente adeguato ai parametri costituzionali evocati – della enucleabilità di una previsione di necessaria terzietà del giudice che decide sull’opposizione ex art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012 rispetto a quello che ha pronunciato l’ordinanza opposta.
Una siffatta esegesi alternativa − sostenuta anche dalla difesa della ricusante costituita, al diverso fine di sollecitare, sulla base della stessa, una decisione interpretativa di rigetto della questione sollevata dal rimettente – è stata, però, esattamente ritenuta non praticabile dai giudici a quibus. I quali hanno escluso di poter «piegare la disposizione [di cui all’art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012] fino a spezzarne il legame con il dato letterale», che esprime «una scelta precisa del legislatore», per cui «il rito nasce ab origine come affidato al medesimo giudice».
Con la prima delle ordinanze richiamate, il Tribunale ordinario di Milano ha, poi, del pari correttamente escluso che un obbligo di astensione del giudice della opposizione possa evincersi, dalla norma denunciata, in esito ad un processo ermeneutico analogo a quello che ha condotto questa Corte, nella sentenza (interpretativa di rigetto) n. 387 del 1999, ad enucleare una incompatibilità del giudice pronunciatosi con decreto ex art. 28, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento) a conoscere della opposizione, al decreto stesso di cui al successivo terzo comma del medesimo art. 28.
Ed, infatti, mentre il rito di cui al citato art. 28 della legge n. 300 del 1970, attivato su ricorso degli organismi locali, ha la funzione esclusiva di reprimere la condotta antisindacale del datore di lavoro, ed ha vocazione, quindi, sanzionatoria ed ambito di cognizione correlativamente limitato – per cui la successiva opposizione ha contenuto effettivamente impugnatorio del provvedimento opposto – il procedimento disciplinato dalla legge n. 92 del 2012 ha, viceversa, ad oggetto un determinato rapporto di lavoro, in un giudizio che vede confrontarsi parti legate da un vincolo negoziale, con un ambito di cognizione ben più ampio, che può arrestarsi ad una prima fase di valutazione sommaria, ma suscettibile di evolversi nell’esame più approfondito che le parti richiedano nella successiva fase, appunto, della opposizione.
L’interpretazione, della disposizione denunciata, presupposta dai rimettenti − che trova, del resto, ulteriore conferma nel fatto che la stessa disciplina normativa prevede il rimedio impugnatorio tipico del reclamo (comparabile all’appello) avverso la sentenza del giudice di prime cure (adottata all’esito dell’opposizione) e quello del ricorso per cassazione nei riguardi della sentenza di secondo grado – si è, nel frattempo, consolidata, comunque, in termini di diritto vivente, per effetto dell’intervento ermeneutico della Corte di cassazione a sezioni unite civili (ordinanza 18 settembre 2014, n. 19674), poi ribadito dalla sesta sezione civile – sottosezione L (ordinanza 20 novembre 2014, n. 24790) e dalla sezione lavoro (sentenze 17 febbraio 2015, n. 3136 e 16 aprile 2015, n. 7782) della stessa Corte.
Il giudice della nomofilachìa ha chiarito, infatti, che il carattere peculiare del rito impugnatorio dei licenziamenti, ridisegnato dal legislatore del 2012, sta nell’articolazione in due fasi del giudizio di primo grado. Nel contesto del quale «Quindi dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata – mirata a riconoscere, sussistendone i presupposti, al lavoratore ricorrente una tutela rapida ed immediata e ad assegnargli un vantaggio processuale […] ove il fondamento della sua domanda risulti prima facie sussistere alla luce dei soli atti di istruzione indispensabili – il procedimento si riespande, nella fase dell’opposizione, alla dimensione ordinaria della cognizione piena con accesso per le parti a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti» (ordinanza n. 19674 del 2014).
Dal che la conclusione che la fase di opposizione – non costituendo una revisio prioris instantiae della fase precedente ma solo «una prosecuzione del giudizio di primo grado» – non postula l’obbligo di astensione (del giudice che abbia pronunziato l’ordinanza opposta), previsto dall’art. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ. con (tassativo) riferimento al magistrato che abbia conosciuto della controversia «in altro [e non dunque, nel medesimo] grado del processo».
4.‒ Nel merito, il sospetto di illegittimità costituzionale delle norme denunciate, così come correttamente interpretate, non ha fondamento.
4.1.‒ Non sussiste in primo luogo la violazione dell’art. 3 Cost., prospettata per l’asserita irragionevole disparità di trattamento della disciplina impugnata rispetto a quella del reclamo contro i provvedimenti cautelari di cui all’art. 669- terdecies cod. proc. civ.
La disciplina processuale assunta dal rimettente a tertium comparationis − lungi dall’essere, come da sua prospettazione, «abbastanza analoga» − è, in realtà, ben differente da quella in esame: per essere, come detto, quest’ultima scandita da una prima, necessaria, fase sommaria e informale e da una successiva, eventuale, fase a cognizione piena; mentre, nell’ipotesi disciplinata dal richiamato art. 669-terdecies cod. proc. civ., il reclamo avverso l’ordinanza, con la quale è stata concessa o denegata la misura cautelare dal giudice monocratico del Tribunale, integra una vera e propria impugnazione che «si propone al collegio» del quale, appunto, «non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato».
Una significativa analogia è ravvisabile, viceversa, tra l’ordinanza di cui al comma 49 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 e l’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione (anticipatoria dell’esito del giudizio di primo grado, ove non revocata con la sentenza, per altro eventuale, che definisce il giudizio), di cui all’art. 186-quater cod. proc. civ. Con riguardo alla quale questa Corte ha già rilevato come un tal meccanismo processuale «lungi dal violare il diritto di difesa per eventuale incidenza della forza della prevenzione nel giudizio del decidente, offre alle parti una garanzia di maggiore ponderazione del contenzioso in sede decisoria» (ordinanza n.168 del 2000).
4.2.‒ Priva di fondamento è anche la denuncia di violazione degli artt. 24 e 111 Cost. «per la lesione», come sinteticamente motivato dai rimettenti, «del diritto alla tutela giurisdizionale sotto il profilo di esclusione della imparzialità del giudice».
Questa Corte ha già affermato, e più volte ribadito, che, nel processo civile – al quale (diversamente da quanto sostenuto dalla difesa della ricusante) non sono applicabili le regole, in tema di incompatibilità relative al processo penale (sentenza n. 387 del 1999) − il principio di imparzialità del giudice, cui è ispirata la disciplina dell’astensione, si pone in modo diverso in riferimento, rispettivamente, alla pluralità dei gradi del giudizio ed alla semplice articolazione dell’iter processuale attraverso più fasi sequenziali, necessarie od eventuali (per tutte, ordinanza n. 220 del 2000).
Ed in ragione di tale premessa ha reiteratamente escluso che il suddetto principio – che rimanda anche agli artt. 3, 25, 101 e 104 Cost., oltre che ai parametri evocati dai rimettenti − risulti violato con riguardo a varie tipologie di procedimenti bifasici.
È stata così ritenuta costituzionalmente legittima la mancata previsione dell’obbligo di astensione ex art. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ. con riguardo al giudice che abbia conosciuto della causa in fase cautelare, chiamato a partecipare alla sua decisione nel merito (ordinanza n. 359 del 1998 e sentenza n. 326 del 1997); al giudice delegato al fallimento chiamato a comporre il collegio in sede di reclamo avverso i provvedimenti da lui stesso emessi (sentenza n. 363 del 1998); al giudice che abbia trattato la fase sommaria e sia poi chiamato a decidere nel merito una causa possessoria (ordinanze n. 101 del 2004 e n. 220 del 2000); al giudice della esecuzione [che, prima della introduzione del nuovo art. 186-bis disp. att. cod. proc. civ., era] chiamato a conoscere della opposizione agli atti esecutivi ex artt. 617 e 618 cod. proc. civ. (ordinanza n. 497 del 2002); al giudice che, con la già richiamata ordinanza ex art. 186-quater cod. proc. civ., abbia deciso, nei limiti in cui ritiene già raggiunta la prova (sull’istanza della parte di pagamento di somme ovvero di consegna o rilascio di beni), a conoscere il prosieguo della causa ai fini della successiva decisione (ordinanza n. 168 del 2000).
È stato, per altro, anche precisato che sussiste, invece, l’obbligo di astensione quando il procedimento svolgentesi davanti al medesimo giudice sia solo «apparentemente “bifasico”» mentre, in realtà, esso «per la sostanziale identità di valutazioni da compiersi in entrambe le fasi […] si articola in due momenti, il secondo dei quali assume il valore di vera e propria impugnazione, e acquista, pertanto, i caratteri essenziali di “altro grado del processo”» (sentenza n. 460 del 2005).
È quest’ultima, appunto, l’ipotesi (quella, cioè, di una seconda fase risolventesi in una «revisio prioris instantiae») che i rimettenti propendono a ritenere inverata nella opposizione di cui al denunciato comma 51 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012.
Ma tale prospettazione, che sta alla base del sospettato vulnus agli artt. 24 e 111 Cost., non trova giustificazione ed è anzi inequivocabilmente smentita dal ruolo e dalla funzione che assolve la richiamata fase oppositoria nella struttura del giudizio di primo grado, nel complessivo contesto del nuovo rito speciale delle controversie avente ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970.
In questo caso, l’opposizione non verte, infatti, sullo stesso oggetto dell’ordinanza opposta (pronunciata su un ricorso “semplificato”, e sulla base dei soli atti di istruzione ritenuti, allo stato, indispensabili), né è tantomeno circoscritta alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi dal giudice della prima fase, ma – come già detto – può investire anche diversi profili soggettivi (stante anche il possibile intervento di terzi), oggettivi (in ragione dell’ammissibilità di domande nuove, anche in via riconvenzionale, purché fondate sugli stessi fatti costitutivi) e procedimentali, essendo previsto che in detto giudizio possano essere dedotte circostanze di fatto ed allegati argomenti giuridici anche differenti da quelli già addotti e che si dia corso a prove ulteriori.
Il che, appunto, esclude che la fase oppositoria (nell’ambito del giudizio di primo grado) – in cui la cognizione si espande in ragione non solo del nuovo apporto probatorio, ma anche delle ulteriori considerazioni svolte dalle parti, quantomeno in sede di discussione e nelle eventuali note difensive – possa configurarsi come la riproduzione dell’identico itinerario logico decisionale già seguito per pervenire all’ordinanza opposta. La quale − in esito alla fase di opposizione − è destinata, comunque, ad essere assorbita nella statuizione definitiva che conclude il primo grado del giudizio: decisione, quest’ultima, che può ben condurre ad un esito differente (rispetto a quello dell’ordinanza opposta) in virtù del nuovo materiale probatorio apportato al processo e del suo ampliamento soggettivo od oggettivo (nei limiti consentiti), anche alla luce della pressoché totale assenza di preclusioni e decadenze per le parti nell’ambito della prima fase.
La circostanza che l’art. 1, comma 50, della legge in esame non preveda la possibilità che l’efficacia esecutiva dell’ordinanza che definisce la prima fase possa essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza che conclude la successiva fase di opposizione costituisce, a sua volta, conferma ulteriore della ravvisabilità, nella specie, di un giudizio unico anche se contraddistinto da due fasi, in conformità, del resto, al diritto vivente ormai univocamente formatosi sulla questione.
Pertanto, il fatto che entrambe le fasi di detto unico grado del giudizio possano essere svolte dal medesimo magistrato non confligge con il principio di terzietà del giudice e si rivela, invece, funzionale all’attuazione del principio del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata. E ciò a vantaggio anche, e soprattutto, del lavoratore, il quale, in virtù dell’effetto anticipatorio (potenzialmente idoneo anche ad acquisire carattere definitivo) dell’ordinanza che chiude la fase sommaria, può conseguire una immediata, o comunque più celere, tutela dei propri diritti, mentre la successiva, ed eventuale, fase a cognizione piena è volta a garantire alle parti, che non restino soddisfatte dal contenuto dell’ordinanza opposta, una pronuncia più pregnante e completa.


Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile, e 1, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), sollevata, dal Tribunale ordinario di Milano − sezione nona civile e dallo stesso Tribunale, sezione prima civile e sezione specializzata in materia di impresa, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, con le quattro ordinanze indicate in epigrafe, e, dal solo Tribunale di Milano − sezione nona civile, in riferimento anche all’art. 3 Cost.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 aprile 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2015.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI




[1] Art. 1 comma 51  l. 92 del 2012 “Contro l'ordinanza di accoglimento o di rigetto di cui al comma 49  può  essere  proposta  opposizione  con  ricorso  contenente   i requisiti di cui all'articolo 414 del codice di procedura civile,  da depositare innanzi  al  tribunale  che  ha  emesso  il  provvedimento opposto, a pena di decadenza, entro trenta giorni dalla notificazione dello stesso, o dalla comunicazione se anteriore. Con il ricorso  non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma  47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli  identici  fatti costitutivi o siano svolte nei  confronti  di  soggetti  rispetto  ai quali la causa e' comune o dai quali si intende essere garantiti.  Il giudice fissa con  decreto  l'udienza  di  discussione  non  oltre  i successivi  sessanta  giorni,  assegnando  all'opposto  termine   per costituirsi fino a dieci giorni prima dell'udienza”.