Nel ricorso di
opposizione contro l’ordinanza che ha definito la fase sommaria del giudizio
promosso ai sensi dell’art. 1 commi 47 e ss. L. 92 del 2012 (cd Rito Fornero)
può essere chiamato a decidere lo stesso
giudice della prima fase?
Con sentenza n. 78 del 2015 la
corte Costituzionale ha stabilito che nella fase di opposizione all’ordinanza
ex art. 1 comma
51 l.
92 del 2012
la decisione affidata al
giudice della fase sommaria è conforme a Costituzione.
In particolare la corte era stata
chiamata a verificare la legittimità costituzionale dell’art. 51, primo comma,
numero 4), del codice di procedura civile e 1, comma 51, della legge 28 giugno
2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una
prospettiva di crescita), in forza dell’ordinanza di rimessione del 27 gennaio
2014 (r.o. n. 87 del 2014) del Tribunale
ordinario di Milano in relazione agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione «nella parte in cui non prevedono l’obbligo di
astensione per l’organo giudicante (persona fisica) investito del giudizio di
opposizione ex art. 51, comma 1 [rectius: art. 1, comma 51], l. n. 92 del 2012
che abbia pronunciato l’ordinanza ex art. 1, comma 49».
Secondo il Tribunale di Milano:
«La morfologia strutturale dell’istituto processuale introdotto dalla l.
92/2012 corrisponde […] integralmente al codice genetico tipico dei
procedimenti bifasici, in cui l’unico processo di merito è scandito da due
fasi: una preliminare sommaria, e una (eventuale: se c’è opposizione) a
cognizione piena». Per cui «Si versa, in buona sostanza, nell’ambito delle
forme procedimentali che prevedono provvedimenti interinali a contenuto decisorio,
cedevoli nel corso del successivo giudizio di merito», con riguardo alle quali
«è notoriamente escluso che possa trovare applicazione l’obbligo
dell’astensione, tant’è che, quando il Legislatore ha voluto esprimere una
riserva, lo ha fatto in modo espresso». Ravvisa, appunto, in ciò la ragione per
cui il legislatore del 2012 «ha escluso la necessità di un giudice (persona
fisica) differente per la trattazione del giudizio di opposizione», disponendo
che l’opposizione, di che trattasi, sia proposta con ricorso «da depositare
dinnanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto».
Nonostante ciò Milano ha rilevato
che la fase di opposizione nell’esaminato processo, «pur non istituendo, in
senso tecnico, un “grado” di giudizio», potrebbe «di fatto […] assume[re]
valore impugnatorio con contenuto sostanziale di revisio prioris instantiae».
Dal che, dunque, il sospetto che «La dinamica procedimentale
così confezionata» comporti «violazione dell’art. 3, primo comma, della
Costituzione, per la irragionevole diversità di disciplina rispetto
all’ipotesi, sostanzialmente simile, prevista dall’art. 669-terdecies, secondo
comma, cod. proc. civ., che ha introdotto un caso di incompatibilità del
giudice in una ipotesi abbastanza analoga, per essere adottata quale tertium
comparationis». E la possibilità che contrasti, altresì, con gli artt. 24 e 111
Cost., «per la lesione del diritto alla tutela giurisdizionale, sotto il
profilo di esclusione della imparzialità del giudice».
La corte ha escluso l’incostituzionalità
rilevando quando segue.
1.– Questa Corte è chiamata a stabilire se l’art. 51, primo comma,
numero 4), del codice di procedura civile, prevedente l’obbligo di astensione
in capo al magistrato che abbia conosciuto della causa «in altro grado del
processo» e l’art. 1, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni
in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita),
per il quale (nel contesto del nuovo rito impugnatorio dei licenziamenti),
avverso l’ordinanza che decide in via semplificata sul ricorso del lavoratore,
può essere proposta opposizione «da depositare dinanzi al tribunale che ha
emesso il provvedimento opposto» − nella parte in cui (dette norme) non
prevedono l’obbligo di astensione per l’organo giudicante (persona fisica)
investito della suddetta opposizione ove abbia pronunciato l’ordinanza opposta
– violino:
− l’art. 3, primo comma, della Costituzione, per l’assunta
irragionevolezza della diversità di disciplina rispetto alla (sostanzialmente)
simile ipotesi prevista dall’art. 669-terdecies, secondo comma, cod. proc. civ.
che – con riferimento all’istituto del reclamo nel procedimento cautelare –
stabilisce l’incompatibilità tra il giudice che ha emesso il provvedimento
reclamato e il giudice (in composizione collegiale, del quale il primo non può
far parte) designato alla trattazione e alla decisione del proposto reclamo
(parametro specificatamente dedotto solo dal Tribunale ordinario di Milano con
l’ordinanza depositata il 27 gennaio 2014, iscritta al r.o. n. 87 del 2014);
‒ gli artt. 24 e 111 Cost., per la ravvisata lesione del diritto alla
tutela giurisdizionale sotto il profilo di esclusione dell’imparzialità del
giudice (parametri dedotti con tutte e quattro le ordinanze di rimessione).
2.− Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità
formulata, dall’Avvocatura generale dello Stato, sul presupposto che la
questione in esame sia identica, per oggetto e termini della sua
prospettazione, a quella già sollevata dal Tribunale ordinario di Siena e
dichiarata, appunto, manifestamente inammissibile, da questa Corte, con
ordinanza n. 205 del 2014.
È pur vero, infatti, che gli odierni rimettenti, come già il Tribunale
di Siena, condividono l’opzione esegetica che esclude la riconducibilità, alle
disposizioni denunciate, di una previsione di incompatibilità, del magistrato
(persona fisica) che abbia pronunciato l’ordinanza di cui all’art. 1, comma 49,
della legge n. 92 del 2012,
a decidere sull’opposizione, avverso l’ordinanza
medesima, di cui al successivo comma 51 dell’art. 1 della predetta legge.
Ma, mentre il Tribunale di Siena chiedeva a questa Corte un avallo di
tale interpretazione (ritenuta preferibile e più costituzionalmente conforme
rispetto ad altra, a suo avviso, possibile, di segno opposto) – ciò che, dunque,
si risolveva in un uso distorto del giudizio di costituzionalità – i giudici a
quibus propriamente chiedono, invece, ora di verificarne la compatibilità con
gli evocati parametri costituzionali.
3.‒ Va, del pari, respinta l’ulteriore eccezione di inammissibilità,
articolata dall’Avvocatura generale dello Stato, in ragione della omissione,
addebitata ai Tribunali rimettenti, della previa verifica di praticabilità di
una lettura delle disposizioni denunziate nel senso – che si assume
costituzionalmente adeguato ai parametri costituzionali evocati – della
enucleabilità di una previsione di necessaria terzietà del giudice che decide
sull’opposizione ex art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012 rispetto a
quello che ha pronunciato l’ordinanza opposta.
Una siffatta esegesi alternativa − sostenuta anche dalla difesa della
ricusante costituita, al diverso fine di sollecitare, sulla base della stessa,
una decisione interpretativa di rigetto della questione sollevata dal
rimettente – è stata, però, esattamente ritenuta non praticabile dai giudici a
quibus. I quali hanno escluso di poter «piegare la disposizione [di cui
all’art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012] fino a spezzarne il legame
con il dato letterale», che esprime «una scelta precisa del legislatore», per
cui «il rito nasce ab origine come affidato al medesimo giudice».
Con la prima delle ordinanze richiamate, il Tribunale ordinario di
Milano ha, poi, del pari correttamente escluso che un obbligo di astensione del
giudice della opposizione possa evincersi, dalla norma denunciata, in esito ad
un processo ermeneutico analogo a quello che ha condotto questa Corte, nella
sentenza (interpretativa di rigetto) n. 387 del 1999, ad enucleare una
incompatibilità del giudice pronunciatosi con decreto ex art. 28, primo comma,
della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità
dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di
lavoro e norme sul collocamento) a conoscere della opposizione, al decreto
stesso di cui al successivo terzo comma del medesimo art. 28.
Ed, infatti, mentre il rito di cui al citato art. 28 della legge n. 300
del 1970, attivato su ricorso degli organismi locali, ha la funzione esclusiva
di reprimere la condotta antisindacale del datore di lavoro, ed ha vocazione,
quindi, sanzionatoria ed ambito di cognizione correlativamente limitato – per
cui la successiva opposizione ha contenuto effettivamente impugnatorio del
provvedimento opposto – il procedimento disciplinato dalla legge n. 92 del 2012 ha, viceversa, ad
oggetto un determinato rapporto di lavoro, in un giudizio che vede confrontarsi
parti legate da un vincolo negoziale, con un ambito di cognizione ben più
ampio, che può arrestarsi ad una prima fase di valutazione sommaria, ma suscettibile
di evolversi nell’esame più approfondito che le parti richiedano nella
successiva fase, appunto, della opposizione.
L’interpretazione, della disposizione denunciata, presupposta dai
rimettenti − che trova, del resto, ulteriore conferma nel fatto che la stessa
disciplina normativa prevede il rimedio impugnatorio tipico del reclamo
(comparabile all’appello) avverso la sentenza del giudice di prime cure
(adottata all’esito dell’opposizione) e quello del ricorso per cassazione nei
riguardi della sentenza di secondo grado – si è, nel frattempo, consolidata,
comunque, in termini di diritto vivente, per effetto dell’intervento ermeneutico
della Corte di cassazione a sezioni unite civili (ordinanza 18 settembre 2014,
n. 19674), poi ribadito dalla sesta sezione civile – sottosezione L (ordinanza
20 novembre 2014, n. 24790) e dalla sezione lavoro (sentenze 17 febbraio 2015,
n. 3136 e 16 aprile 2015, n. 7782) della stessa Corte.
Il giudice della nomofilachìa ha chiarito, infatti, che il carattere
peculiare del rito impugnatorio dei licenziamenti, ridisegnato dal legislatore
del 2012, sta nell’articolazione in due fasi del giudizio di primo grado. Nel
contesto del quale «Quindi dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata
– mirata a riconoscere, sussistendone i presupposti, al lavoratore ricorrente
una tutela rapida ed immediata e ad assegnargli un vantaggio processuale […] ove
il fondamento della sua domanda risulti prima facie sussistere alla luce dei
soli atti di istruzione indispensabili – il procedimento si riespande, nella
fase dell’opposizione, alla dimensione ordinaria della cognizione piena con
accesso per le parti a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti»
(ordinanza n. 19674 del 2014).
Dal che la conclusione che la fase di opposizione – non costituendo una
revisio prioris instantiae della fase precedente ma solo «una prosecuzione del
giudizio di primo grado» – non postula l’obbligo di astensione (del giudice che
abbia pronunziato l’ordinanza opposta), previsto dall’art. 51, primo comma,
numero 4), cod. proc. civ. con (tassativo) riferimento al magistrato che abbia
conosciuto della controversia «in altro [e non dunque, nel medesimo] grado del
processo».
4.‒ Nel merito, il sospetto di illegittimità costituzionale delle norme
denunciate, così come correttamente interpretate, non ha fondamento.
4.1.‒ Non sussiste in primo luogo la violazione dell’art. 3 Cost.,
prospettata per l’asserita irragionevole disparità di trattamento della
disciplina impugnata rispetto a quella del reclamo contro i provvedimenti
cautelari di cui all’art. 669- terdecies cod. proc. civ.
La disciplina processuale assunta dal rimettente a tertium
comparationis − lungi dall’essere, come da sua prospettazione, «abbastanza
analoga» − è, in realtà, ben differente da quella in esame: per essere, come
detto, quest’ultima scandita da una prima, necessaria, fase sommaria e
informale e da una successiva, eventuale, fase a cognizione piena; mentre, nell’ipotesi
disciplinata dal richiamato art. 669-terdecies cod. proc. civ., il reclamo
avverso l’ordinanza, con la quale è stata concessa o denegata la misura
cautelare dal giudice monocratico del Tribunale, integra una vera e propria
impugnazione che «si propone al collegio» del quale, appunto, «non può far
parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato».
Una significativa analogia è ravvisabile, viceversa, tra l’ordinanza di
cui al comma 49 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 e l’ordinanza successiva
alla chiusura dell’istruzione (anticipatoria dell’esito del giudizio di primo
grado, ove non revocata con la sentenza, per altro eventuale, che definisce il
giudizio), di cui all’art. 186-quater cod. proc. civ. Con riguardo alla quale
questa Corte ha già rilevato come un tal meccanismo processuale «lungi dal
violare il diritto di difesa per eventuale incidenza della forza della
prevenzione nel giudizio del decidente, offre alle parti una garanzia di
maggiore ponderazione del contenzioso in sede decisoria» (ordinanza n.168 del
2000).
4.2.‒ Priva di fondamento è anche la denuncia di violazione degli artt.
24 e 111 Cost. «per la lesione», come sinteticamente motivato dai rimettenti,
«del diritto alla tutela giurisdizionale sotto il profilo di esclusione della
imparzialità del giudice».
Questa Corte ha già affermato, e più volte ribadito, che, nel processo
civile – al quale (diversamente da quanto sostenuto dalla difesa della
ricusante) non sono applicabili le regole, in tema di incompatibilità relative
al processo penale (sentenza n. 387 del 1999) − il principio di imparzialità
del giudice, cui è ispirata la disciplina dell’astensione, si pone in modo
diverso in riferimento, rispettivamente, alla pluralità dei gradi del giudizio
ed alla semplice articolazione dell’iter processuale attraverso più fasi
sequenziali, necessarie od eventuali (per tutte, ordinanza n. 220 del 2000).
Ed in ragione di tale premessa ha reiteratamente escluso che il
suddetto principio – che rimanda anche agli artt. 3, 25, 101 e 104 Cost., oltre
che ai parametri evocati dai rimettenti − risulti violato con riguardo a varie
tipologie di procedimenti bifasici.
È stata così ritenuta costituzionalmente legittima la mancata
previsione dell’obbligo di astensione ex art. 51, primo comma, numero 4), cod.
proc. civ. con riguardo al giudice che abbia conosciuto della causa in fase
cautelare, chiamato a partecipare alla sua decisione nel merito (ordinanza n.
359 del 1998 e sentenza n. 326 del 1997); al giudice delegato al fallimento
chiamato a comporre il collegio in sede di reclamo avverso i provvedimenti da
lui stesso emessi (sentenza n. 363 del 1998); al giudice che abbia trattato la
fase sommaria e sia poi chiamato a decidere nel merito una causa possessoria
(ordinanze n. 101 del 2004 e n. 220 del 2000); al giudice della esecuzione
[che, prima della introduzione del nuovo art. 186-bis disp. att. cod. proc.
civ., era] chiamato a conoscere della opposizione agli atti esecutivi ex artt.
617 e 618 cod. proc. civ. (ordinanza n. 497 del 2002); al giudice che, con la
già richiamata ordinanza ex art. 186-quater cod. proc. civ., abbia deciso, nei
limiti in cui ritiene già raggiunta la prova (sull’istanza della parte di
pagamento di somme ovvero di consegna o rilascio di beni), a conoscere il
prosieguo della causa ai fini della successiva decisione (ordinanza n. 168 del
2000).
È stato, per altro, anche precisato che sussiste, invece, l’obbligo di
astensione quando il procedimento svolgentesi davanti al medesimo giudice sia
solo «apparentemente “bifasico”» mentre, in realtà, esso «per la sostanziale
identità di valutazioni da compiersi in entrambe le fasi […] si articola in due
momenti, il secondo dei quali assume il valore di vera e propria impugnazione,
e acquista, pertanto, i caratteri essenziali di “altro grado del processo”»
(sentenza n. 460 del 2005).
È quest’ultima, appunto, l’ipotesi (quella, cioè, di una seconda fase
risolventesi in una «revisio prioris instantiae») che i rimettenti propendono a
ritenere inverata nella opposizione di cui al denunciato comma 51 dell’art. 1
della legge n. 92 del 2012.
Ma tale prospettazione, che sta alla base del sospettato vulnus agli
artt. 24 e 111 Cost., non trova giustificazione ed è anzi inequivocabilmente
smentita dal ruolo e dalla funzione che assolve la richiamata fase oppositoria
nella struttura del giudizio di primo grado, nel complessivo contesto del nuovo
rito speciale delle controversie avente ad oggetto l’impugnativa dei
licenziamenti di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970.
In questo caso, l’opposizione non verte, infatti, sullo stesso oggetto
dell’ordinanza opposta (pronunciata su un ricorso “semplificato”, e sulla base
dei soli atti di istruzione ritenuti, allo stato, indispensabili), né è
tantomeno circoscritta alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando
eventualmente commessi dal giudice della prima fase, ma – come già detto – può
investire anche diversi profili soggettivi (stante anche il possibile
intervento di terzi), oggettivi (in ragione dell’ammissibilità di domande
nuove, anche in via riconvenzionale, purché fondate sugli stessi fatti
costitutivi) e procedimentali, essendo previsto che in detto giudizio possano
essere dedotte circostanze di fatto ed allegati argomenti giuridici anche
differenti da quelli già addotti e che si dia corso a prove ulteriori.
Il che, appunto, esclude che la fase oppositoria (nell’ambito del
giudizio di primo grado) – in cui la cognizione si espande in ragione non solo
del nuovo apporto probatorio, ma anche delle ulteriori considerazioni svolte
dalle parti, quantomeno in sede di discussione e nelle eventuali note difensive
– possa configurarsi come la riproduzione dell’identico itinerario logico
decisionale già seguito per pervenire all’ordinanza opposta. La quale − in
esito alla fase di opposizione − è destinata, comunque, ad essere assorbita
nella statuizione definitiva che conclude il primo grado del giudizio: decisione,
quest’ultima, che può ben condurre ad un esito differente (rispetto a quello
dell’ordinanza opposta) in virtù del nuovo materiale probatorio apportato al
processo e del suo ampliamento soggettivo od oggettivo (nei limiti consentiti),
anche alla luce della pressoché totale assenza di preclusioni e decadenze per
le parti nell’ambito della prima fase.
La circostanza che l’art. 1, comma 50, della legge in esame non preveda
la possibilità che l’efficacia esecutiva dell’ordinanza che definisce la prima
fase possa essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza che
conclude la successiva fase di opposizione costituisce, a sua volta, conferma
ulteriore della ravvisabilità, nella specie, di un giudizio unico anche se
contraddistinto da due fasi, in conformità, del resto, al diritto vivente ormai
univocamente formatosi sulla questione.
Pertanto, il fatto che entrambe le fasi di detto unico grado del
giudizio possano essere svolte dal medesimo magistrato non confligge con il
principio di terzietà del giudice e si rivela, invece, funzionale
all’attuazione del principio del giusto processo, per il profilo della sua
ragionevole durata. E ciò a vantaggio anche, e soprattutto, del lavoratore, il
quale, in virtù dell’effetto anticipatorio (potenzialmente idoneo anche ad
acquisire carattere definitivo) dell’ordinanza che chiude la fase sommaria, può
conseguire una immediata, o comunque più celere, tutela dei propri diritti,
mentre la successiva, ed eventuale, fase a cognizione piena è volta a garantire
alle parti, che non restino soddisfatte dal contenuto dell’ordinanza opposta,
una pronuncia più pregnante e completa.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli
artt. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile, e 1, comma
51, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del
mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), sollevata, dal Tribunale
ordinario di Milano − sezione nona civile e dallo stesso Tribunale, sezione
prima civile e sezione specializzata in materia di impresa, in riferimento agli
artt. 24 e 111 della Costituzione, con le quattro ordinanze indicate in
epigrafe, e, dal solo Tribunale di Milano − sezione nona civile, in riferimento
anche all’art. 3 Cost.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 29 aprile 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2015.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI
[1] Art. 1 comma 51 l. 92 del 2012
“Contro l'ordinanza di accoglimento o di rigetto di cui al comma
49 può
essere proposta opposizione
con ricorso contenente
i requisiti di cui all'articolo 414 del codice di procedura civile, da depositare innanzi al
tribunale che ha
emesso il provvedimento opposto, a pena di decadenza,
entro trenta giorni dalla notificazione dello stesso, o dalla comunicazione se
anteriore. Con il ricorso non possono
essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano
fondate sugli identici fatti costitutivi o siano svolte nei confronti
di soggetti rispetto
ai quali la causa e' comune o dai quali si intende essere
garantiti. Il giudice fissa con decreto
l'udienza di discussione
non oltre i successivi
sessanta giorni, assegnando
all'opposto termine per costituirsi fino a dieci giorni prima
dell'udienza”.