Il divieto di licenziamento
per matrimonio opera anche per il marito?
In generale in base all’art. 35 del Dlgs 198 del 2006 (che
ha recepito l’art, 9 della legge 1963 n. 7 artt 1,2 e 6) il licenziamento
opererebbe solo per le donne. In particolare la norma prevede:
“1. Le
clausole di qualsiasi
genere, contenute nei
contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, che prevedano
comunque la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in
conseguenza del matrimonio sono nulle e si hanno per non apposte.
2. Del
pari nulli sono
i licenziamenti attuati
a causa di matrimonio.
3. Salvo
quanto previsto dal
comma 5, si
presume che il licenziamento della
dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle
pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a
un anno dopo
la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di
matrimonio.
4. Sono
nulle le dimissioni
presentate dalla lavoratrice nel periodo di cui al comma 3, salvo che siano dalla
medesima confermate entro un mese alla Direzione provinciale del lavoro.
5. Al datore
di lavoro e'
data facoltà di
provare che il licenziamento
della lavoratrice, avvenuto nel periodo di cui al comma
3, e' stato
effettuato non a causa di matrimonio, ma per una delle seguenti ipotesi:
a) colpa grave
da parte della lavoratrice,
costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
b) cessazione dell'attività dell'azienda cui essa e' addetta;
c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice
e' stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del
termine.
6. Con il provvedimento che
dichiara la nullità dei licenziamenti di
cui ai commi 1, 2, 3 e 4 e'
disposta la corresponsione, a favore della
lavoratrice allontanata dal lavoro, della retribuzione globale di fatto
sino al giorno della riammissione in servizio.
7. La lavoratrice che, invitata
a riassumere servizio, dichiari di recedere
dal contratto, ha
diritto al trattamento previsto per le dimissioni per
giusta causa, ferma restando la corresponsione della
retribuzione fino alla data del recesso.
8. A tale scopo il recesso deve
essere esercitato entro il termine di dieci giorni dal ricevimento dell'invito.
9. Le disposizioni
precedenti si applicano sia alle
lavoratrici dipendenti da imprese
private di qualsiasi genere,
escluse quelle addette ai servizi
familiari e domestici, sia a quelle dipendenti da enti pubblici,
salve le clausole di miglior favore
previste per le lavoratrici nei contratti collettivi ed individuali di lavoro e
nelle disposizioni legislative e regolamentari”.
Tuttavia, come indicato dalla
recente sentenza del Tribunale di Milano del 3 giugno del 2014 giudice dott. Atanasio
n. 16981 del 2014 RG 3666/2014, tale principio vale anche per l’uomo: “E’
certo che la norma in esame parla di
lavoratrici con la conseguenza che sembrerebbe doversi escludere ogni ipotesi
di estensione a tutela dei lavoratori. E’ altrettanto vero però che tale
interpretazione contrasta con il principio di parità di trattamento tra uomini
e donne introdotto dalla direttiva 76/207/CE la quale all’art. 2 dispone che “il
principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi
discriminazione fondata sul sesso direttamente o indirettamente in particolare
mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia”:
Del resto tale principio comunitario ha trovato applicazione nel codice
delle pari opportunità il quale all’articolo
uno (la cui epigrafe ha il titolo: “Divieto di discriminazione e parità di
trattamento e di opportunità tra donne e uomini nonché integrazione dell’obiettivo
della parità tra donne e uomini in tutte le politiche e attività) dispone che “le
disposizioni del presente decreto hanno ad oggetto le misure volte ad eliminare
ogni discriminazione basata sul sesso che abbia come conseguenza o come scopo
di compromettere o di impedire il riconoscimento il godimento o l’esercizio dei
diritti umani e delle libertà
fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in
ogni altro campo”. Ed al comma secondo dispone poi che “La parità di
trattamento e di opportunità tra donne ed uomini deve essere assicurata in
tutti i campi compresi quelli dell’occupazione del lavoro e della retribuzione”.
Da ciò si ricava necessariamente che l’interpretazione della norma contenuta
all’art. 35 (la quale effettivamente fa riferimento alla lavoratrice) deve
invece essere ispirata a una reale parità; e che l’uso del femminile è solo
frutto di un retaggio del passato fondato sulla considerazione che la tutela
anticipata assicurata dall’art. 35 vedeva quale destinataria la sola donna ….invece
la considerazione che le tutele previste in materia di maternità/paternità e di
congedi parentali ne consentono l’accesso anche al lavoratore padre deve
indurre all’estensione della norma di cui all’art. 35 anche al lavoratore
maschio”
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