lunedì 4 maggio 2015

Il divieto di licenziamento per matrimonio opera anche per il marito?


In generale in base all’art. 35 del Dlgs 198 del 2006 (che ha recepito l’art, 9 della legge 1963 n. 7 artt 1,2 e 6) il licenziamento opererebbe solo per le donne. In particolare la norma prevede:

“1.  Le  clausole  di  qualsiasi  genere,  contenute  nei  contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, che prevedano comunque la risoluzione  del  rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio sono nulle e si hanno per non apposte.
2.  Del  pari  nulli  sono  i  licenziamenti  attuati  a  causa  di matrimonio.
3.   Salvo   quanto  previsto  dal  comma  5,  si  presume  che  il licenziamento  della  dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione,  a  un  anno  dopo  la  celebrazione  stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio.
4.  Sono  nulle  le  dimissioni  presentate  dalla  lavoratrice nel periodo  di cui al comma 3, salvo che siano dalla medesima confermate entro un mese alla Direzione provinciale del lavoro.
5.  Al  datore  di  lavoro  e'  data  facoltà  di  provare  che il licenziamento della lavoratrice, avvenuto nel periodo di cui al comma
3,  e'  stato  effettuato non a causa di matrimonio, ma per una delle seguenti ipotesi:
a)  colpa  grave  da  parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
b) cessazione dell'attività dell'azienda cui essa e' addetta;
c)  ultimazione  della prestazione per la quale la lavoratrice e' stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine.
6.  Con il provvedimento che dichiara la nullità dei licenziamenti di  cui  ai commi 1, 2, 3 e 4 e' disposta la corresponsione, a favore della  lavoratrice allontanata dal lavoro, della retribuzione globale di fatto sino al giorno della riammissione in servizio.
7.  La lavoratrice che, invitata a riassumere servizio, dichiari di recedere  dal  contratto,  ha  diritto al trattamento previsto per le dimissioni  per  giusta causa, ferma restando la corresponsione della
retribuzione fino alla data del recesso.
8.  A tale scopo il recesso deve essere esercitato entro il termine di dieci giorni dal ricevimento dell'invito.
9.  Le  disposizioni  precedenti  si applicano sia alle lavoratrici dipendenti  da  imprese  private  di qualsiasi genere, escluse quelle addette  ai servizi familiari e domestici, sia a quelle dipendenti da enti  pubblici,  salve  le clausole di miglior favore previste per le lavoratrici nei contratti collettivi ed individuali di lavoro e nelle disposizioni legislative e regolamentari”.


Tuttavia, come indicato dalla recente sentenza del Tribunale di Milano del 3 giugno del 2014 giudice dott. Atanasio n. 16981 del 2014 RG 3666/2014, tale principio vale anche per l’uomo:  “E’ certo che la norma in esame  parla di lavoratrici con la conseguenza che sembrerebbe doversi escludere ogni ipotesi di estensione a tutela dei lavoratori. E’ altrettanto vero però che tale interpretazione contrasta con il principio di parità di trattamento tra uomini e donne introdotto dalla direttiva 76/207/CE la quale all’art. 2 dispone che “il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso direttamente o indirettamente in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia”:

Del resto tale principio comunitario ha trovato applicazione nel codice delle pari opportunità  il quale all’articolo uno (la cui epigrafe ha il titolo: “Divieto di discriminazione e parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini nonché integrazione dell’obiettivo della parità tra donne e uomini in tutte le politiche e attività) dispone che “le disposizioni del presente decreto hanno ad oggetto le misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento il godimento o l’esercizio dei diritti umani  e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo”. Ed al comma secondo dispone poi che “La parità di trattamento e di opportunità tra donne ed uomini deve essere assicurata in tutti i campi compresi quelli dell’occupazione del lavoro e della retribuzione”. Da ciò si ricava necessariamente che l’interpretazione della norma contenuta all’art. 35 (la quale effettivamente fa riferimento alla lavoratrice) deve invece essere ispirata a una reale parità; e che l’uso del femminile è solo frutto di un retaggio del passato fondato sulla considerazione che la tutela anticipata assicurata dall’art. 35 vedeva quale destinataria la sola donna ….invece la considerazione che le tutele previste in materia di maternità/paternità e di congedi parentali ne consentono l’accesso anche al lavoratore padre deve indurre all’estensione della norma di cui all’art. 35 anche al lavoratore maschio”

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