sabato 31 gennaio 2015

Entro quanto devo impugnare il licenziamento che ritengo illegittimo?


In forza del comma 1 art. 6 della legge 604 del 1966: Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso”  

giovedì 29 gennaio 2015

Incostituzionale la sanzione in misura fissa stabilita dall’art. 36 bis del DL 223 del 2006

L’art. 36 bis del DL 223 del 2006 aveva modificato la sanzione stabilita dall’art. 3 del DL 2002 n. 12 convertito con modificazioni dalla legge 2002 n. 73 stabilendo:

“7.  All'articolo  3  del  decreto-legge  22  febbraio  2002, n. 12, convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge 23 aprile 2002, n. 73, sono apportate le seguenti modificazioni:

    a)  il  comma  3  e'  sostituito dal seguente: "3. Ferma restando l'applicazione  delle  sanzioni  già  previste  dalla  normativa  in vigore,  l'impiego  di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra  documentazione obbligatoria e' altresi' punito con la sanzione amministrativa  da  euro  1.500 a euro 12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata  di  euro  150  per ciascuna giornata di lavoro effettivo. L'importo  delle  sanzioni  civili connesse all'omesso versamento dei contributi  e  premi  riferiti a ciascun lavoratore di cui al periodo precedente  non può essere inferiore a euro 3.000, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata.";


Tale norma è stata in vigore sino al 24 dicembre del 2010, data a partire dalla quale è stata sostituita in virtù dell’art 4 comma 1 lett. a)  l. 183 del 2010 con il seguente

“Ferma restando l’applicazione delle sanzioni già previste dalla normativa in vigore, in caso di impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato, con la sola esclusione del datore di lavoro domestico, si applica altresì la sanzione amministrativa da euro 1.500 a euro 12.000 per ciascun lavoratore irregolare, maggiorata di euro 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo. L’importo della sanzione è da euro 1.000 a euro 8.000 per ciascun lavoratore irregolare, maggiorato di euro 30 per ciascuna giornata di lavoro irregolare, nel caso in cui il lavoratore risulti regolarmente occupato per un periodo lavorativo successivo. L’importo delle sanzioni civili connesse all’evasione dei contributi e dei premi riferiti a ciascun lavoratore irregolare di cui ai periodi precedenti è aumentato del 50 per cento”


Secondo la sentenza della Corte Costituzionale n. 254 del 2014, la precedente normativa determinava un’eccessiva sproporzione rispetto alla gravità effettiva dell’inadempimento e risultava incoerente con la natura della stessa sanzione “ se si considera che, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, l’obbligo relativo alle somme aggiuntive che il datore di lavoro è tenuto a versare in caso di omesso o ritardato pagamento dei contributi assicurativi ha natura di sanzione civile e non amministrativa, costituendo una conseguenza automatica dell’inadempimento o del ritardo, che è posta allo scopo di rafforzare l’obbligazione contributiva e risarcire, in misura predeterminata dalla legge, con una presunzione iuris et de iure, il danno cagionato all’istituto assicuratore (ex multis, Cass. civ., sez. lav., 19 giugno 2009, n. 14475; Cass. civ., sez. lav., 1 agosto 2008, n. 24358; Cass. civ., sez. lav., 19 giugno 2000, n. 8323. In tal senso, si veda anche la circolare n. 38 del 2010 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali).

“In altri termini, poiché le sanzioni civili connesse all’omesso versamento di contributi e premi hanno una funzione essenzialmente risarcitoria, essendo volte a quantificare, in via preventiva e forfettaria, il danno subito dall’ente previdenziale, la previsione di una soglia minima disancorata dalla durata della prestazione lavorativa accertata, dalla quale dipende l’entità dell’inadempimento contributivo e del relativo danno, è irragionevole. Il legislatore infatti, con la norma impugnata, ha predeterminato in via presuntiva il danno subito dall’ente previdenziale a causa dell’omissione contributiva, ma nel far ciò ha escluso la rilevanza di uno degli elementi che concorrono a cagionare quel danno, costituito dalla durata dei rapporti di lavoro non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria e dal correlativo inadempimento dell’obbligo contributivo. In tal modo, però, la sanzione risulta arbitraria e irragionevole, perché, pur avendo la funzione di «risarcire, in misura predeterminata dalla legge, con una presunzione “iuris et de iure”, il danno cagionato all’Istituto assicuratore» (Cass. civ., sez. lav., 19 giugno 2000, n. 8323; Cass. civ., sez. lav., 8 marzo 1995, n. 2689), è stabilita con un criterio privo di riferimento all’entità di tale danno, dipendente dalla durata del periodo in cui i rapporti di lavoro in questione si sono protratti”…….

“In conclusione, l’art. 36-bis, comma 7, lettera a), del d.l. n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 248 del 2006, nella parte relativa alla sanzione civile, risulta, per la denunciata irragionevolezza, in contrasto con l’art. 3 Cost. 5.– Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 36-bis, comma 7, lettera a), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248, che ha modificato l’art. 3, comma 3, del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 12 (Disposizioni urgenti per il completamento delle operazioni di emersione di attività detenute all’estero e di lavoro irregolare), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 aprile 2002, n. 73, nella parte in cui stabilisce: «L’importo delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore di cui al periodo precedente non può essere inferiore a euro 3.000, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata»”


mercoledì 28 gennaio 2015

In un’azienda con meno di 15 dipendenti, quando il lavoratore illegittimamente licenziato può essere reintegrato e non ricevere la sola indennità risarcitoria?


L’art. 18 comma 1 della legge 300 del 1970 stabilisce che il diritto alla reintegra sul posto di lavoro si applica al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore,  (anche con meno di 15 dipendenti per stabilimento/comune o 5 se agricole o 60 a livello nazionale) nel caso di:
-          licenziamento orale
-          licenziamento discriminatorio ai sensi dell’art. 3 della legge 108 del 1990
-          licenziamento intimato in concomitanza di matrimonio ex art. 35 D.lgs 198 del 2006
-          licenziamento in violazione dei divieti  di cui all'articolo 54, commi 1,  6,  7  e  9,  del  testo  unico  delle disposizioni legislative  in  materia  di  tutela  e  sostegno  della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001
-          licenziamento riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge
-          licenziamento determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 cc 

Dal 2015 per gli assunti con contratto a tutele crescenti l’art.1 prevede sostanzialmente le medesime ipotesi, stabilendo all’art. 1 dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183:

“Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ovvero riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale”.

Negli altri casi di illegittimità del licenziamento vale:

per gli assunti sino al 2015:

l’art. 8 della legge 604 del 1966: secondo cui: “il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro”

dal 2015:

l’art. 9 dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183

Ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970, non si applica l’articolo 3, comma 2, e l'ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall'articolo 3, comma 1, dall’articolo 4, comma 1 e dall’articolo 6, comma 1, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità.   

ovvero

Art. 3 comma 1: “Salvo quanto disposto dal comma 2 del presente articolo, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”.

Art. 4 – “Vizi formali e procedurali. Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all’articolo 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto”.



Art. 6 comma 1 “In caso di licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 1, al fine di evitare il giudizio e ferma restando la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge, il datore di lavoro può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in una delle sedi di cui all’articolo 2113, comma 4, cod. civ., e all’articolo 82, comma 1, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettata a contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. L’accettazione dell’assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta”.

martedì 27 gennaio 2015

Sugli interessi per crediti di lavoro devo pagare tasse?

“In tema di imposte sui redditi, gli interessi corrisposti sui crediti di lavoro per competenze arretrate costituiscono reddito da lavoro dipendente, assoggettabile a tassazione ai sensi dell'art. 6 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (così come modificato, con effetto dal 30 dicembre 1993, dall'art. 1 del d.l. 30 dicembre 1993, n. 557, conv. con modifiche nella l. 26 febbraio 1994, n. 133), alla pari di qualsiasi erogazione economica che abbia titolo nel rapporto di lavoro, anche se maturati in epoca anteriore al 1994 ed indipendentemente dalle cause del ritardo nel pagamento, in quanto la percezione costituisce il momento decisivo ai fini dell'imposizione fiscale prevista dalla normativa citata, non sospettabile, peraltro, di incostituzionalità, essendo il discrimine temporale un elemento diversificatore idoneo a giustificare una differente regolamentazione di vicende simili. (Rigetta, Comm. Trib. Reg. Palermo, 10/11/2006)”. Cass. civ., Sez. V, 22/09/2011, n. 19325


“Sono assoggettabili ad IRPEF gli interessi sull'indennità di buonuscita percepiti in epoca successiva al 30 dicembre 1993, data di entrata in vigore del D.L. 30 dicembre 1993 n. 557 (convertito nella Legge n. 133 del 1994), il cui art. 1, comma 1, lett. a), ha aggiunto all'art. 6, primo comma n. 2, D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 (che stabiliva la tassabilità dei "proventi conseguiti in sostituzione di redditi", senza nulla disporre in ordine agli interessi derivanti da tali proventi) un secondo periodo, ove si dispone che "gli interessi moratori e ... per dilazione di pagamento costituiscono redditi della stessa categoria di quelli da cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati". Cass. civ., Sez. V, 24/08/2004, n. 16749


lunedì 26 gennaio 2015

Concorso tra cessione volontaria dello stipendio di un dipendente privato o pubblico ed un successivo pignoramento

La materia è regolata dall’art. 68 comma 2 del DPR 1950 n. 180, divenuta applicabile anche ai dipendenti privati in forza dell’art. 1 comma 137  secondo cui: “Qualora i sequestri o i pignoramenti abbiano luogo dopo una cessione perfezionata e debitamente notificata, non si può sequestrare o pignorare se non la differenza fra la metà dello stipendio o salario valutati al netto di ritenute e la quota ceduta, fermi restando i limiti di cui all'art. 2 “[1].
I limiti imposti dall’art. 2 sono i seguenti:

“1) fino alla concorrenza di un terzo valutato al netto di ritenute, per causa di alimenti dovuti per legge;
2) fino alla concorrenza di un quinto valutato al netto di ritenute, per debiti verso lo Stato e verso gli altri enti, aziende ed imprese da cui il debitore dipende, derivanti dal rapporto d'impiego o di lavoro;
3) fino alla concorrenza di un quinto valutato al netto di ritenute, per tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni, facenti carico, fin dalla loro origine, all'impiegato o salariato”. NB La Corte Costituzionale con sentenza n. 89 del 1987 ha stabilito l’incostituzionalità “dell'art. 2 del D.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, comma primo, n. 3  nella parte in cui, in contrasto con l'art. 545, comma quarto, c.p.c., non prevede la pignorabilità e la sequestrabilità degli stipendi, salari e retribuzioni corrisposti da altri enti diversi dallo Stato, da aziende ed imprese di cui all'art. 1 del D.P.R. n. 180 del 1950, fino alla concorrenza di un quinto per ogni credito vantato nei confronti del personale”.

NB “Il sequestro ed il pignoramento, per il simultaneo concorso delle cause indicate ai numeri 2, 3, 
non possono colpire una quota maggiore del quinto sopra indicato, e, quando concorrano anche le cause di cui al numero 1, non possono colpire una quota maggiore della metà, valutata al netto di ritenute, salve le disposizioni del titolo V nel caso di concorso anche di vincoli per cessioni e delegazioni”.

Come indicato dalla giurisprudenza: “Nell'ipotesi in cui il terzo pignorato abbia dichiarato che l'esecutato, in forza del rapporto di lavoro, percepisce un certo stipendio mensile, sul quale grava una ritenuta, anteriore al pignoramento, per cessione a favore di una banca, le disposizioni applicabili al fine di stabilire la quota di stipendio assegnabile al creditore sono quelle previste dall'art. 545, co. 4, c.p.c. e dagli artt. 2 e 68, co. 2, del D.P.R. n. 180/1950, nel testo risultante da ripetuti interventi della Corte costituzionale. Ed invero, il pignoramento eseguito sullo stipendio percepito dal dipendente pubblico e (a seguito del disposto dell'art. 1, co. 137, della legge 30 dicembre 2004, n. 311) da quello privato, se segue ad una precedente cessione dello stipendio stesso, è possibile solo nei limiti della differenza tra la metà dello stipendio e la quota ceduta; più precisamente, deve essere rispettato il limite di cui all'art. 2, n. 3, del D.P.R. n. 180/1950, che è pari ad un quinto; inoltre, quando vi sia una precedente cessione opponibile al procedente, deve essere rispettato anche l'ulteriore limite dell'art. 68, co. 2, D.P.R. n. 180/1950, sicchè non si potrà mai pignorare una quota dello stipendio superiore alla differenza tra la metà dello stipendio e la quota ceduta (nel caso di specie, la quota concretamente assegnata al creditore procedente è stata pari ad un quinto dell'emolumento stipendiale, dal momento che l'assegnazione in tale misura rispetta sia il limite di un quinto dello stipendio, ex art. 545, co. 4, c.p.c., e art. 2 D.P.R. n. 180/1950, sia l'ulteriore limite della differenza tra la metà dello stipendio e la quota ceduta, a sensi dell'art. 68, co. 2, D.P.R. n. 180/1950)”. Trib. (Ord.) Bologna, 09/12/2008

Quindi se ho uno stipendio che al netto è pari a 100 ed ho ceduto 20, la quota dispendio su cui si potrà eseguire il pignoramento è quella risultante dalla differenza tra la metà dello stipendio (50) e la quota ceduta (20) per un ammontare di 30. Su questa quota potrà essere effettuata la ritenuta sempre che sia contenuta nel limite di 1/5 del netto iniziale.

Da notare che “Le quote di stipendio cedute al fine di estinguere i finanziamenti effettuati ai sensi del D.P.R. n. 180/1950 e dell'art. 1260 c.c. sono inderogabilmente vincolate a favore del cessionario ed il datore di lavoro, una volta ricevuta la notifica del contratto di mutuo e perfezionata la cessione del credito, non può effettuare sulle quote in questione sequestri o pignoramenti (artt. 42 e 68 del citato D.P.R.) e tanto meno opporre alla cessionaria un verbale di conciliazione con il proprio dipendente”. Trib. Milano, 28/07/2008, Sito Il caso.it, 2008

Si ricorda che in forza dell’art. 5 DPR 180/1950 il limite massimo di cessione è pari ad 1/5 per  massimo 10 anni[2]. In forza dell’art. 70 DPR 180/1950 una cessione ed una delegazione possono giungere sino al 50% dello stipendio (da notare che i regolamenti delle PA giungono a concedere il cumulo di delegazione e cessione sino al 40%, per estenderlo sino al 50% solo in presenza di determinate circostanze).




[1] Nb in caso di delegazione vale il secondo comma dell’art. 69 DPR 180/1950 “Quando preesista delegazione o ritenuta, i sequestri e i pignoramenti non possono colpire se non l'eventuale differenza fra la metà dello stipendio, salario o pensione valutati al netto di ritenute e l'importo della delegazione o ritenuta”.


[2] Gli impiegati e salariati dipendenti dallo Stato e dagli altri enti, aziende ed imprese indicati nell'art. 1 possono contrarre prestiti da estinguersi con cessione di quote dello stipendio o del salario fino al quinto dell'ammontare di tali emolumenti valutato al netto di ritenute e per periodi non superiori a dieci anni, secondo le disposizioni stabilite dai titoli II e III del presente testo unico. Le operazioni di prestito concesse ai sensi del presente testo unico devono essere conformi a quanto previsto dalla delibera del Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio del 4 marzo 2003, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 72 del 27 marzo 2003, e dalla vigente disciplina in materia di trasparenza delle condizioni contrattuali per i servizi bancari, finanziari ed assicurativi

domenica 25 gennaio 2015

Gli interessi  devono essere calcolati sulla retribuzione lorda o netta?

“La rivalutazione monetaria e gli interessi liquidati dal giudice in relazione ai crediti di lavoro, ai sensi dell'art. 429 c.p.c., vanno calcolati sulla somma dovuta al lavoratore al lordo delle ritenute fiscali e contributive, atteso che le prime attengono al distinto rapporto di imposta e vanno eseguite in un momento successivo a quello dell'accertamento e della liquidazione delle spettanze retributive e anche le seconde non possono essere considerate nell'ambito del giudizio di cognizione, poiché il datore di lavoro può provvedervi in relazione alla sola retribuzione corrisposta alla scadenza”. Cass. civ., Sez. lavoro, 10/04/2001, n. 5363

"La rivalutazione monetaria e gli interessi liquidati dal giudice in relazione ai crediti di lavoro, ai sensi dell'art. 429 c.p.c., vanno calcolati sulla somma dovuta al lavoratore al lordo delle ritenute fiscali e contributive. Infatti le prime attengono al distinto rapporto di imposta e vanno eseguite in un momento successivo a quello dell'accertamento e della liquidazione delle spettanze retributive e anche le seconde non possono essere considerate nell'ambito del giudizio di cognizione, poiché il datore di lavoro può provvedervi in relazione alla sola retribuzione corrisposta alla scadenza." Cass. civ., Sez. lavoro, 16/05/1996, n. 4534


"La sentenza di condanna al pagamento delle retribuzioni deve determinare le somme dovute al lordo delle ritenute fiscali, ma in sede di adempimento il datore di lavoro, sostituto d'imposta deve operare le ritenute fiscali sia sul capitale, sia sulla rivalutazione monetaria, sia sugli interessi." Pret. Firenze, 25/03/1986 Banca Toscana C. Del Puglia in Toscana Lavoro Giur., 1986, 182