mercoledì 31 marzo 2021

Quando si ha doloso occultamento ai fini della sospensione della prescrizione? 



Cass. 25/03/2021, n. 8419

In tema di sospensione delia prescrizione, costituisce doloso occultamento del debito contributivo verso l'ente previdenziale, ai fini dell'applicabilità dell'art. 2941, n. 8, c.c., la condotta del professionista che ometta di compilare la dichiarazione dei redditi nella parte relativa ai proventi della propria attività, utile al calcolo dei contributi per la gestione separata.

martedì 30 marzo 2021

I dottori commercialisti che versano solo il contributo integrativo devono iscriversi alla gestione separata?



Cass. 25/03/2021, n. 8442

I dottori commercialisti iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie i quali, non avendo raggiunto la soglia reddituale che rende obbligatoria l'iscrizione alla Cassa dei dottori commercialisti, alla stessa versino esclusivamente un contributo integrativo di carattere solidaristico, in quanto iscritti all'albo professionale, cui non segue la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio, sono tenuti comunque ad iscriversi alla gestione separata presso l'INPS, in virtù del principio di universalizzazione della copertura assicurativa, cui è funzionale la disposizione di cui alla L. n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, secondo cui l'unico versamento contributivo rilevante ai fini dell'esclusione di detto obbligo di iscrizione è quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale.

lunedì 29 marzo 2021

 Quali misure sono state introdotte sui contratti a termine con il DL 41 del 2021?

In forza dell'art. 17 del DL 41 del 2021:


1. All'articolo 93 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. In conseguenza dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, in deroga all'articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 e fino al 31 dicembre 2021, ferma restando la durata massima complessiva di ventiquattro mesi, è possibile rinnovare o prorogare per un periodo massimo di dodici mesi e per una sola volta i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, anche in assenza delle condizioni di cui all'articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81.».

2. Le disposizioni di cui al comma 1 hanno efficacia a far data dall'entrata in vigore del presente decreto e nella loro applicazione non si tiene conto dei rinnovi e delle proroghe già intervenuti.

sabato 27 marzo 2021

Quali misura per la Cassa Covid sono state introdotte dal DL 41 del 2021?


Art. 8. Nuove disposizioni in materia di trattamenti di integrazione salariale

1. I datori di lavoro privati che sospendono o riducono l'attività lavorativa per eventi riconducibili all'emergenza epidemiologica da COVID-19 possono presentare, per i lavoratori in forza alla data di entrata in vigore del presente decreto, domanda di concessione del trattamento ordinario di integrazione salariale di cui agli articoli 19 e 20 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27 per una durata massima di tredici settimane nel periodo compreso tra il 1° aprile e il 30 giugno 2021. Per i trattamenti concessi ai sensi del presente comma non è dovuto alcun contributo addizionale.


2. I datori di lavoro privati che sospendono o riducono l'attività lavorativa per eventi riconducibili all'emergenza epidemiologica da COVID-19 possono presentare, per i lavoratori in forza alla data di entrata in vigore del presente decreto, domanda per i trattamenti di assegno ordinario e di cassa integrazione salariale in deroga di cui agli articoli 19, 21, 22 e 22-quater del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27 per una durata massima di ventotto settimane nel periodo tra il 1° aprile e il 31 dicembre 2021. Per i trattamenti concessi ai sensi del presente comma non è dovuto alcun contributo addizionale.


3. Le domande di accesso ai trattamenti di cui ai commi 1 e 2 sono presentate all'INPS, a pena di decadenza, entro la fine del mese successivo a quello in cui ha avuto inizio il periodo di sospensione o di riduzione dell'attività lavorativa. In fase di prima applicazione, il termine di decadenza di cui al presente comma è fissato entro la fine del mese successivo a quello di entrata in vigore del presente decreto.


4. In caso di pagamento diretto delle prestazioni di cui al presente articolo da parte dell'INPS, ferma restando la possibilità di ricorrere all'anticipazione di cui all'articolo 22-quater del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, il datore di lavoro è tenuto a inviare all'Istituto i dati necessari per il pagamento o per il saldo dell'integrazione salariale entro la fine del mese successivo a quello in cui è collocato il periodo di integrazione salariale, o, se posteriore, entro il termine di trenta giorni dall'adozione del provvedimento di concessione. In sede di prima applicazione, i termini di cui al presente comma sono spostati al trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto se tale ultima data è posteriore a quella di cui al primo periodo. Trascorsi inutilmente tali termini, il pagamento della prestazione e gli oneri ad essa connessi rimangono a carico del datore di lavoro inadempiente.


5. Per le domande di trattamenti di integrazione salariale di cui al presente articolo riferite a sospensioni o riduzioni dell'attività lavorativa, la trasmissione dei dati necessari al calcolo e alla liquidazione diretta delle integrazioni salariali da parte dell'INPS o al saldo delle anticipazioni delle stesse, nonché all'accredito della relativa contribuzione figurativa, è effettuata con il flusso telematico denominato «UniEmens- Cig».


6. Al fine di razionalizzare il sistema di pagamento delle integrazioni salariali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19, i trattamenti di cui al presente articolo possono essere concessi sia con la modalità di pagamento diretto della prestazione da parte dell'INPS, compresa quella di cui all'articolo 22-quater del medesimo decreto-legge n. 18 del 2020, sia con le modalità di cui all'articolo 7 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148.


7. I Fondi di cui all'articolo 27 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148 garantiscono l'erogazione dell'assegno ordinario di cui al comma 2 con le medesime modalità di cui al presente articolo. Il concorso del bilancio dello Stato agli oneri finanziari relativi alla predetta prestazione è stabilito nel limite massimo di 1.100 milioni di euro per l'anno 2021. Tale importo è assegnato ai rispettivi Fondi con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze. Le risorse di cui al presente comma sono trasferite ai rispettivi Fondi con uno o più decreti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, previo monitoraggio da parte dei Fondi stessi dell'andamento del costo della prestazione, relativamente alle istanze degli aventi diritto, nel rispetto del limite di spesa e secondo le indicazioni fornite dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.


8. Il trattamento di cassa integrazione salariale operai agricoli (CISOA) ai sensi dell'articolo 19, comma 3-bis, del decreto-legge n. 18 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, richiesto per eventi riconducibili all'emergenza epidemiologica da COVID-19, è concesso, in deroga ai limiti di fruizione riferiti al singolo lavoratore e al numero di giornate lavorative da svolgere presso la stessa azienda di cui all'articolo 8 della legge 8 agosto 1972, n. 457, per una durata massima di centoventi giorni, nel periodo ricompreso tra il 1° aprile e il 31 dicembre 2021. La domanda di CISOA deve essere presentata, a pena di decadenza, entro la fine del mese successivo a quello in cui ha avuto inizio il periodo di sospensione dell'attività lavorativa. In fase di prima applicazione, il termine di decadenza di cui al presente comma è fissato entro la fine del mese successivo a quello di entrata in vigore del presente decreto.


9. Fino al 30 giugno 2021, resta precluso l'avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223 e restano altresì sospese le procedure pendenti avviate successivamente al 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell'appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto di appalto. Fino alla medesima data di cui al primo periodo, resta, altresì, precluso al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e restano altresì sospese le procedure in corso di cui all'articolo 7 della medesima legge.


10. Dal 1° luglio al 31 ottobre 2021 ai datori di lavoro di cui ai commi 2 e 8 resta precluso l'avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223 e restano altresì sospese le procedure pendenti avviate successivamente al 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell'appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto di appalto. Ai medesimi soggetti di cui al primo periodo resta, altresì, preclusa indipendentemente dal numero dei dipendenti la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e restano altresì sospese le procedure in corso di cui all'articolo 7 della medesima legge.


11. Le sospensioni e le preclusioni di cui ai commi 9 e 10 non si applicano nelle ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell'attività dell'impresa oppure dalla cessazione definitiva dell'attività di impresa conseguente alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell'attività, nei casi in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni o attività che possano configurare un trasferimento d'azienda o di un ramo di essa ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile o nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo. A detti lavoratori è comunque riconosciuto il trattamento di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22. Sono altresì esclusi dal divieto i licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l'esercizio provvisorio dell'impresa o ne sia disposta la cessazione. Nel caso in cui l'esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell'azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso.


12. I trattamenti di cui ai commi 1, 2 e 8 sono concessi nel limite massimo di spesa pari a 4.880,2 milioni di euro per l'anno 2021, ripartito in 2.901,0 milioni di euro per i trattamenti di cassa integrazione ordinaria e assegno ordinario, in 1.603,3 milioni di euro per i trattamenti di cassa integrazione in deroga e in 375,9 milioni di euro per i trattamenti di CISOA. L'INPS provvede al monitoraggio del limite di spesa di cui al presente comma. Qualora dal predetto monitoraggio emerga che è stato raggiunto anche in via prospettica il limite di spesa, l'INPS non prende in considerazione ulteriori domande.


13. I limiti di spesa di cui al comma 12 del presente articolo e all'articolo 1, comma 312, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, e successive modificazioni e integrazioni, rappresentano in ogni caso i limiti massimi di spesa complessivi per il riconoscimento dei diversi trattamenti per l'anno 2021 previsti ai sensi del presente articolo e dell'articolo 1, commi da 300 a 302 e 304 della predetta legge n. 178 del 2020 e rispettivamente pari, per l'anno 2021, a complessivi 4.336,0 milioni di euro per i trattamenti di cassa integrazione ordinaria e assegno ordinario, a complessivi 2.290,4 milioni di euro per i trattamenti di cassa integrazione in deroga e a 657,9 milioni di euro per i trattamenti di CISOA, per un totale complessivo pari a 7.284,3 milioni di euro per l'anno 2021. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, i limiti di spesa di cui al primo periodo del presente comma possono essere altresì integrati dalle eventuali risorse residue relative all'importo di 707,4 milioni di euro per l'anno 2021 di cui all'articolo 12, comma 13, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176. Qualora, a seguito dell'attività di monitoraggio relativa ai trattamenti concessi di cui al primo periodo del presente comma, dovessero emergere economie rispetto alle somme stanziate per una o più tipologie dei trattamenti previsti, le stesse possono essere utilizzate, con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, prioritariamente per finanziare eventuali esigenze finanziare relative ad altre tipologie di trattamenti di cui al primo periodo del presente comma, fermi restando i limiti massimi di durata previsti dai commi 1, 2 e 8 del presente articolo e dall'articolo 1, commi 300 e 304 della citata legge n. 178 del 2020, ovvero, limitatamente ai datori di lavoro di cui al comma 2 del presente articolo, i quali abbiano interamente fruito del periodo complessivo di quaranta settimane, per finanziare un'eventuale estensione della durata massima di cui al comma 2 medesimo nell'ambito delle risorse accertate come disponibili in via residuale. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare le occorrenti variazioni di bilancio in termini di residui, competenza e cassa.


14. All'onere derivante dai commi 7 e 12, pari a 5.980,2 milioni di euro per l'anno 2021 si provvede quanto a 2.668,6 milioni di euro mediante utilizzo del fondo di cui all'articolo 1, comma 299 della legge 30 dicembre 2020, n. 178, come rifinanziato dall'articolo 7 e quanto a 3.311,6 milioni di euro ai sensi dell'articolo 42.


giovedì 25 marzo 2021

 Quando i funzionari direttivi hanno diritto allo  straordinario?


Cass. 18/03/2021, n. 7678

In tema di compensi per lavoro straordinario, i funzionari direttivi, esclusi dalla disciplina legale delle limitazioni dell'orario di lavoro, hanno diritto al compenso qualora la prestazione, per la sua durata, superi - secondo un accertamento riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità, ove adeguatamente motivato - il limite della ragionevolezza e sia particolarmente gravosa ed usurante.

mercoledì 24 marzo 2021

 Quali sono i limiti di applicabilità degli accordi aziendali?

Cass. 16/03/2021, n. 7359

I contratti e gli accordi collettivi aziendali sono applicabili a tutti i lavoratori dell'azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, con l'unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa, ne condividono l'esplicito dissenso dall'accordo medesimo e potrebbero addirittura essere vincolati ad un accordo sindacale separato e diverso.

lunedì 22 marzo 2021

 Che requisiti deve il patto di non concorrenza? 


Cass. 01/03/2021, n. 5540

Il patto di non concorrenza anche se stipulato contestualmente al contratto di lavoro subordinato rimane autonomo da questo sotto il profilo causale per cui il corrispettivo con esso stabilito, essendo diverso e distinto dalla retribuzione, deve possedere i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c. e quindi deve essere "determinato o determinabile" ma anche, per giurisprudenza costante, i requisiti evincibili dall'art. 2125 c.c. In particolare il corrispettivo deve essere proporzionato al sacrificio imposto al lavoratore e quindi non simbolico e manifestamente iniquo. La necessaria sussistenza di tali requisiti prescinde dalla circostanza che le parti abbiano pattuito, in caso di cessazione anticipata del rapporto, la corresponsione della parte maturata in ragione d'anno o frazione d'anno.

sabato 20 marzo 2021

 Tra la data di licenziamento e la data di reintegra il lavoratore matura le ferie?



Cass. 08/03/2021, n. 6319

In linea con l'interpretazione della Corte di Giustizia (Cgue 25.6.2020, C-762/18, C-37/19), le ferie maturano anche nel periodo di tempo intercorrente tra il licenziamento illegittimo e la reintegrazione del lavoratore giacché, come stabilito dai giudici di Lussemburgo, il periodo compreso tra la data del licenziamento illegittimo e la data della reintegrazione del lavoratore nel suo impiego deve essere assimilato ad un periodo di lavoro effettivo ai fini della determinazione dei diritti alle ferie annuali.

giovedì 18 marzo 2021

Quando la reperibilità costituisce orario di lavoro per la Corte di Giustizia Europea?

Corte giustizia Unione Europea Grande Sez., 09/03/2021, n. 344/19
L'articolo 2, dir. 2003/88/CE deve essere interpretato nel senso che un periodo d reperibilità, nel corso del quale un lavoratore debba unicamente essere raggiungibile per telefono ed essere in grado di raggiungere il proprio luogo di lavoro, in caso di necessità, entro un termine di un'ora, avendo la possibilità di soggiornare in un alloggio di servizio messo a sua disposizione dal datore sul luogo di lavoro, senza essere tenuto a restarvi, costituisce, nella sua interezza, orario di lavoro, soltanto qualora risulti da una valutazione globale dell'insieme delle circostanze del caso di specie che i vincoli imposti a tale lavoratore sono di natura tale da pregiudicare in modo oggettivo e assai significativo la facoltà per quest'ultimo di gestire liberamente, nel corso dello stesso periodo, il tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di dedicare questo tempo ai propri interessi.

mercoledì 17 marzo 2021

 Come deve essere valutata la giusta causa nell'agenzia?



Cass. 11/03/2021, n. 6915

L'istituto del recesso per giusta causa, previsto dall'art. 2119, comma 1, c.c. in relazione al contratto di lavoro subordinato, è applicabile anche al contratto di agenzia, dovendosi tuttavia tener conto, per la valutazione della gravità della condotta, che in quest'ultimo ambito il rapporto di fiducia - in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell'attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali - assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato. Ne consegue che, ai fini della legittimità del recesso, è sufficiente un fatto di minore consistenza, secondo una valutazione rimessa al giudice di merito insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente e correttamente motivata.

lunedì 15 marzo 2021

 In caso di richiesta stragiudiziale dei lavoratori verso  il committente questo può pagare l'appaltatore?


Cass. 19-04-2006, n. 9048

Riguardo alla questione posta con il secondo profilo di censura, secondo autorevole dottrina, e come pure ha avuto occasione di rilevare la giurisprudenza di questa Corte (cfr. sentenza 10 marzo 2001 n. 3559), se gli ausiliari dell'appaltatore si rivolgano, anche in via stragiudiziale, al committente per ottenere il pagamento di quanto ad essi dovuto, per l'attività lavorativa da essi svolta nella esecuzione dell'opera appaltata o per la prestazione dei servizi, il committente, il quale in base all'art. 1676 cod. civ. diviene diretto debitore nei confronti degli ausiliari dell'appaltatore ed è tenuto solidalmente con costui fino alla concorrenza del debito per il prezzo dell'appalto, non può più pagare all'appaltatore e se paga, non è liberato dall'obbligazione verso gli ausiliari dell'appaltatore.

sabato 13 marzo 2021

Il domicilio del lavoratore può essere "la dipendenza alla quale è addetto il lavoratore" ai fini della competenza territoriale?



Cass. Ord., 03/03/2021, n. 5726

Ai fini dell'individuazione del giudice territorialmente competente per le controversie di lavoro, la nozione di "dipendenza alla quale è addetto il lavoratore", di cui all'art. 413 cod. proc. civ., deve interpretarsi estensivamente, come articolazione della organizzazione aziendale nella quale il dipendente lavora, potendo coincidere anche con l'abitazione privata del lavoratore, se dotata di strumenti di supporto dell'attività lavorativa. (Nel caso di specie, relativo ad un giudizio di impugnazione del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto nei confronti di un informatore scientifico del farmaco, la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi in merito ad un'istanza di regolamento di competenza sollevata d'ufficio dal giudice, ha affermato, in via alternativa, anche la competenza territoriale determinata in ragione della "dipendenza alla quale è addetto il lavoratore", individuandola presso la stessa abitazione del lavoratore, risultando ivi custoditi i beni aziendali e gli strumenti di lavoro, quali computer, tablet, cellulare e campione dei farmaci.)

giovedì 11 marzo 2021

In caso di inabilità il lavoratore può essere assegnato a mansioni inferiori? 


Cass. 09/03/2021, n. 6497

In materia di lavoro subordinato, il lavoratore divenuto inabile alle mansioni specifiche può essere assegnato, ai sensi dell'art. 42, d.lgs. n. 81 del 2008, anche a mansioni equivalenti o inferiori; nell'inciso "ove possibile" si contempera "il conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro e quello al libero esercizio dell'impresa, ponendo a carico del datore di lavoro l'obbligo di ricercare - anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto - le soluzioni che, nell'ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore e lo grava, inoltre, dell'onere processuale di dimostrare di avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l'attuazione dei detti diritti.

mercoledì 10 marzo 2021

Quali requisiti sono necessari per la validità del licenziamento per gmo?


Ai fini del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l'art. 3 della legge n. 604 del 1966 richiede: a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso; b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali - insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati - diretti ad incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività; c) l'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore. L'onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili. (Nel caso di specie, relativo ad una controversia insorta a seguito del licenziamento intimato ad un medico da parte di una società esercente una casa di cura privata, la Suprema Corte, rigettando il ricorso, ha ritenuto incensurabile la sentenza impugnata, avendo il giudice di appello applicato correttamente i suddetti principi, individuando nella crisi economica in cui versava la predetta società l'esigenza di procedere ad una riorganizzazione realizzata attraverso la soppressione del posto di lavoro del ricorrente, unico medico rimasto privo di specializzazione al quale era precluso l'esercizio di attività operatoria in sala oramai sola rimasta attiva per effetto di una modifica della convenzione intervenuta con l'amministrazione regionale.)

martedì 9 marzo 2021



Su chi incombe l'onere di provare i fatti posti alla base della contestazione disciplnare?




Cass. 05/03/2021, n. 6221

L'onere che incombe sul datore di lavoro di provare l'effettiva realizzazione, da parte del lavoratore, delle condotte oggetto di contestazione disciplinare, attiene non alla procedura disciplinare ma a quella della, eventuale, fase di impugnativa giudiziale del licenziamento da parte del lavoratore e che, ferma l'immutabilità della contestazione disciplinare, non è impedito al datore di lavoro di richiedere nel giudizio l'acquisizione di prove che non siano emerse nel corso del procedimento disciplinare, integrando, ad esempio, la produzione documentale o richiedendo la escussione di testimoni le cui dichiarazioni non siano state acquisite già nel corso del procedimento stesso.

lunedì 8 marzo 2021

Per i pubblici dipendenti vanno esclusi dal computo del comporto i giorni di ricovero ospedaliero o di day-hospital e quelli di assenza dovuti alle conseguenze certificate delle terapie per il caso di gravi patologie che richiedano terapie temporaneamente e/o parzialmente invalidanti?

Corte cost., 03/03/2021, n. 28

E' fondata la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 68, comma 3, del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), sollevata in riferimento agli artt. 3 e 32 della Cost., nella parte in cui, per il caso di gravi patologie che richiedano terapie temporaneamente e/o parzialmente invalidanti, non esclude dal computo dei consentiti diciotto mesi di assenza per malattia, i giorni di ricovero ospedaliero o di day-hospital e quelli di assenza dovuti alle conseguenze certificate delle terapie. Va premesso che per i dipendenti pubblici, così come per i lavoratori del settore privato, la malattia come causa di sospensione del rapporto di lavoro è regolata dall'art. 2110 c.c., il quale, nell'affermare in via di principio la conservazione del posto di lavoro ed il relativo trattamento economico, rinvia per gli aspetti quantitativi e temporali alla legge o al contratto collettivo di riferimento. In linea generale i due tipi di rapporto di lavoro presentano caratteristiche strutturali che con l'andare del tempo si sono sempre più differenziate, e ciò lungi dal potersi considerare un'anomalia, suscettibile di censura ai sensi del principio di uguaglianza, risponde alle obiettive differenze di status, legate al carattere privatizzato o meno del rapporto. Il mancato riconoscimento del periodo di comporto manifesta una intrinseca irrazionalità che lo rende costituzionalmente illegittimo per violazione, sotto questo diverso profilo, dell'art. 3 Cost., con assorbimento del residuo parametro (art. 32 Cost.). Esso infatti è la manifestazione di un ritardo storico del legislatore rispetto alla contrattazione collettiva. Quest'ultima, con la sua naturale dinamicità, è stata in grado di tener conto del progressivo sviluppo dei protocolli di cura per le gravi patologie e in particolare delle cosiddette terapie salvavita con i loro pesanti effetti invalidanti; ciò al contrario non è avvenuto per la disciplina normativa, che, risalente ad anni ormai lontani, non è più adeguata al contesto attuale, caratterizzato dalla profonda evoluzione delle terapie.

venerdì 5 marzo 2021

 Che definizione da la Corte di Giustizia Europea della  subordinazione?



Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 25/02/2021, n. 804/19

La nozione di «contratto individuale di lavoro, di cui all'articolo 20 del regolamento n. 1215/2012, deve essere interpretata in modo autonomo al fine di garantire l'applicazione uniforme delle norme sulla competenza stabilite da tale regolamento in tutti gli Stati membri. Tale nozione presuppone un vincolo di subordinazione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, dato che la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona sia obbligata a svolgere, per un certo periodo di tempo, a favore di un'altra e sotto la sua direzione, prestazioni in contropartita delle quali ha il diritto di percepire una retribuzione.

giovedì 4 marzo 2021

Entro quale ambito opera l'art. 2087 cc?

Cass. 25/02/2021, n. 5255


La responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori.

mercoledì 3 marzo 2021

Il mancato rinnovo del contratto a termine di lavoratrice in maternità può costituire discriminazione?



Cass. 26-02-2021, n. 5476

6. Occorre premettere che, come si evince dalla puntuale ricostruzione delle vicende di causa operata dalla ricorrente, la questione sottoposta dalla C. ai giudici di merito non è mai stata la sussistenza di un diritto soggettivo al rinnovo di un contratto a termine in essere tra le parti ma la sussistenza di una discriminazione per avere l'Istituto convenuto concesso il rinnovo dei contratti a tutti i colleghi nelle medesime condizioni contrattuali della C. e per non averlo riconosciuto a quest'ultima a causa del suo stato di gravidanza.

Non vale, allora, invocare l'esercizio di un potere discrezionale circa l'opportunità di disporre il rinnovo di un contratto in scadenza e dedurre, come fa il controricorrente, che, nella specie, poteva solo sussistere una mera aspettativa di per sè non giuridicamente tutelata.

Pur nell'ambito dell'esercizio di un potere discrezionale è, infatti, possibile verificare se sia stato riservato un trattamento meno favorevole, a parità di situazioni, ad una lavoratrice in ragione del suo stato di gravidanza.

7. Occorre, perciò, innanzitutto, esaminare la questione della discriminazione posta dalla ricorrente alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.

7.1. La discriminazione collegata alla gravidanza e alla maternità costituisce una forma particolare di discriminazione di genere.

Per proteggere la gravidanza, la maternità e la genitorialità, l'UE ha gradualmente sviluppato un complesso corpus di legislazione primaria e derivata.

7.2. L'art. 157 TFUE sancisce l'obbligo della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile e stabilisce un fondamento giuridico generale per l'adozione di misure riguardanti l'uguaglianza di genere, incluse la parità e la lotta alla discriminazione sulla base della gravidanza o della maternità sul luogo di lavoro.

7.3. L'art. 33, paragrafo 2, della Carta dell'UE afferma che: "Al fine di poter conciliare vita familiare e vita professionale, ogni individuo ha il diritto di essere tutelato contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità e il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l'adozione di un figlio".

7.4. Le direttive Europee contro la discriminazione vietano la differenza di trattamento fondata su taluni motivi oggetto di protezione - secondo un elenco circoscritto, che corrisponde alla elencazione contenuta nell'art. 10 TFUE - e, tra essi, il genere. Trattasi della direttiva sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di accesso ai beni e ai servizi (direttiva 2004/113/CE) e, per quanto più specificamente rileva in causa, la direttiva sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego 2006/54(CE (cd. di rifusione, che ha riunito e modificato le direttive riguardanti l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego: la direttiva 76/207/CEE relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro; la direttiva 86/378/CEE relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale; la direttiva 75/117/CEE per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all'applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile; la direttiva 97/80/CE riguardante l'onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso).

Il quadro delle tutele in relazione alla genitorialità è stato completato dalla direttiva 92/85/CE concernente l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento e dalla direttiva 2010/18/UE che attua l'accordo quadro riveduto in materia di congedo parentale.

7.5. Anche la CGUE ha contribuito notevolmente allo sviluppo di questo settore del diritto, offrendo ulteriori chiarimenti, applicando i principi espressi nella legislazione e fornendo ampie interpretazioni dei relativi diritti. Secondo la CGUE, la tutela dei diritti alla maternità e alla gravidanza non si traduce solo nella promozione di una sostanziale parità di genere, bensì anche della salute della madre dopo il parto e del legame tra madre e neonato. Nelle decisioni CGUE, C177/88, Dekker del 14 novembre 1989 e CGUE, C-179/88, Hoejesteret dell'8 novembre 1990; la Corte di Giustizia ha stabilito che, poichè soltanto le donne possono rimanere incinte, il rifiuto di assumere o il licenziamento di una donna incinta per il suo stato di gravidanza o maternità costituiscono una discriminazione diretta fondata sul sesso che non può essere giustificata da alcun interesse, compreso quello economico del datore di lavoro. Nella decisione CGUE, C-438/99, Jimenez Melgar del 4 ottobre 2001 la Corte ha dichiarato che "qualora il mancato rinnovo di un contratto di lavoro a tempo determinato sia motivato dallo stato di gravidanza della lavoratrice, esso costituisce una discriminazione diretta basata sul sesso" incompatibile con il diritto dell'UE. Inoltre, una donna non è tenuta a comunicare la sua gravidanza al datore di lavoro nel processo di assunzione o in qualsiasi altra fase del rapporto di lavoro (CGUE, C-32/93, Webb, 14 luglio 1994; CGUE, C-320/01, Busch, 27 febbraio 2003.). La CGUE ha inoltre decretato che qualsiasi trattamento sfavorevole direttamente o indirettamente connesso alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso (CGUE, C-32/93, Webb cit.; CGUE, C-421/92, Habermann-Beltermann, 5 maggio 1994; si veda anche CGUE C- 531/2015 Otero Ramos, 19 ottobre 2017 secondo cui, punto 55:"in base all'art. 2, par. 2, lett. c), della direttiva 2006/54, la discriminazione comprende, in particolare, qualsiasi trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della direttiva" e, punto 61: "per quanto riguarda la protezione della gravidanza e della maternità, la Corte ha ripetutamente affermato che, riservando agli Stati membri il diritto di mantenere in vigore o di istituire norme destinate ad assicurare tale protezione, l'art. 2, par. 2, della direttiva 2006/54 riconosce la legittimità, in relazione al principio della parità di trattamento tra i sessi, in primo luogo, della protezione della condizione biologica della donna durante e dopo la gravidanza, e, in secondo luogo, della protezione delle particolari relazioni tra la donna e il bambino, durante il periodo successivo al parto (sentenza del 30 settembre 2010, Roca Alvarez, C-104/09, EU:C:2010:561, punto 27 e giurisprudenza ivi citata)".

7.6. Anche nell'ambito della Cedu, la protezione contro la discriminazione fondata sul sesso è ben sviluppata. La Cedu ha dichiarato che l'uguaglianza di genere è uno dei principali obiettivi perseguiti dagli Stati del Consiglio d'Europa (Cedu, Konstantin Markin c. Russia (GC), n. 30078/06, 22 marzo 2012, punto 127). Il principio di uguaglianza tra uomini e donne ha portato, ad esempio, la Cedu a riscontrare una violazione nel contesto dell'occupazione e del congedo parentale (v. Cedu, Emel Boyraz c. Turchia, n. 61960/08, 2 dicembre 2014).

7.7. Nel nostro ordinamento il D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) si è specificamente occupato del comportamento discriminatorio fondato sul sesso ed ha promosso, sul piano sostanziale, le pari opportunità di carriera e di lavoro tra i sessi, lasciando all'attore la scelta tra il rito "ordinario" del lavoro e un rito speciale appositamente delineato.

Il D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5 ha, poi, dato attuazione alla direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione).

Il D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150 ha, quindi, ricondotto il procedimento contro le discriminazioni al modello del rito sommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c. e ss..

Il D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25, comma 1, come modificato dal già citato D.L. n. 59 del 2008, art. 8-quater, comma 1, lett. a), convertito con modificazioni dalla L. n. 101 del 2008 e successivamente dal D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5, art. 1, comma 1, lett. p), n. 1), prevede che: "Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonchè l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga". Il comma 2 della medesima disposizione stabilisce, poi, che: "Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purchè l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari". Il successivo comma 2-bis, aggiunto dal D.Lgs. n. 5 del 2010, art. 1, comma 1, lett. p), n. 2), stabilisce che: "Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonchè di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti".

8. Quel che rileva, dunque, è che, in presenza di situazioni analoghe, sia stato posto in essere un atto o un comportamento pregiudizievole e comunque sia stato attribuito un trattamento meno favorevole ad una lavoratrice in ragione del suo stato di gravidanza.

Così il mancato rinnovo di un contratto a termine ad una lavoratrice che si trovava in stato di gravidanza ben può integrare una discriminazione basata sul sesso, atteso che a parità della situazione lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori e delle esigenze di rinnovo da parte della p.a. anche con riguardo alla prestazione del contratto in scadenza della suddetta lavoratrice, esigenze manifestate attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi, ben può essere significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza.

Nella sopra citata sentenza della Corte di Giustizia CE del 4 ottobre 2001 C-438/99 è stato precisato, punti 45 e 46: "E' altrettanto evidente che il mancato rinnovo di un contratto di lavoro a tempo determinato, quando questo è arrivato alla sua normale scadenza, non può essere equiparato ad un licenziamento e, di per sè, non è in contrasto con l'art. 10 della direttiva 92/85. Tuttavia (....), in determinate circostanze il mancato rinnovo di un contratto a tempo determinato può essere considerato alla stregua di un rifiuto di assunzione. Ora, secondo una giurisprudenza costante, un rifiuto d'assunzione per motivo di gravidanza di una lavoratrice pur giudicata idonea a svolgere l'attività di cui trattasi rappresenta una discriminazione diretta basata sul sesso in contrasto con l'art. 2, n. 1 e art. 3, n. 1, della direttiva 76/207" (si vedano anche la già citata sentenza 8 novembre 1990, causa C-177/88, Dekker, punto 12 nonchè la sentenza 3 febbraio 2000, causa C-207/98, Mahlburg, punti 27-30).

9. Quanto alla concreta dimostrazione di una situazione di tal genere, si osserva che il D.Lgs. 5 aprile 2006, n. 198, art. 40 (il cui contenuto corrisponde a quanto già previsto dalla L. 10 aprile 1991, n. 125, art. 4, comma 5, "Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro" ed è stato, poi, riprodotto dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, comma 4) prevede che: "Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione".

La disposizione, fonda la propria ratio nell'art. 4 della direttiva 97/80/CE riguardante l'onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso ("1. Gli Stati membri, secondo i loro sistemi giudiziari, adottano i provvedimenti necessari affinchè spetti alla parte convenuta provare l'insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta. 2. La presente direttiva non osta a che gli Stati membri impongano un regime probatorio più favorevole alla parte attrice").

Tale direttiva è stata oggetto di interpretazione da parte della Corte di Giustizia UE, C-104/10 sentenza del 21 luglio 2011, Kelly, punto 29 "La direttiva 97/80 enuncia, all'art. 4, n. 1, che gli Stati membri adottano i provvedimenti necessari affinchè spetti alla parte convenuta provare l'insussistenza della violazione del suddetto principio ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta": v. anche sentenza Corte di Giustizia UE 10 marzo 2005, causa C-196/02, Nikoloudi, punto 68, e più di recente Corte di Giustizia 19 ottobre 2017 in causa C-531/15 Otero Ramos cit..

10. Circa l'operatività dell'art. 40 del D.Lgs. n. 198 del 2006, questa Corte ha già da tempo affermato che, nei giudizi antidiscriminatori (sia proposti con le forme del procedimento speciale sia con quelle dell'azione ordinaria - v. Cass. 5 giugno 2013, n. 14206 -), i criteri di riparto dell'onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all'art. 2729 c.c. (finendosi altrimenti per porre a carico di chi agisce l'onere di una prova piena del fatto discriminatorio, ancorchè raggiunta per via presuntiva), bensì quelli speciali, che non stabiliscono un'inversione dell'onere probatorio, ma solo un'agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente; ne consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro, in linea con quanto disposto dall'art. 19 della direttiva n. 2006/54/CE - che ha riprodotto il testo dell'art. 4 della direttiva 97/80/CE citata -, le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione (v. in tal senso, tra le più recenti, Cass. 2 gennaio 2020, n. 1; Cass. 12 ottobre 2018, n. 25543).

11. Nella specie, per quanto si evince dal ricorso per cassazione - che trascrive puntualmente i passaggi della pronuncia del Tribunale - e dalla stessa sentenza qui impugnata, le circostanze addotte dalla C. con riguardo alla domanda di accertamento della natura discriminatoria della mancata proroga del contratto di lavoro a tempo determinato (e cioè lo stato di gravidanza, la sospensione del rapporto dal 22/12/2003 al 24/9/2004 - che evidentemente le aveva dato diritto alla conservazione del posto ai sensi del D.Lgs. n. 26 marzo 2001, n. 151, art. 56 -, l'avvenuta concessione del rinnovo del contratto a tutti i suoi colleghi che si erano trovati nella medesima situazione contrattuale e ciò sulla base delle possibilità riconosciute dalle finanziarie del 2004 e 2005) non erano state contestate dall'ISPRA. Quest'ultimo, del resto, in sede di appello si era limitato a prospettare la questione della sussistenza di una diversità tra proroga e rinnovo del contratto della C. ed a sostenere che non vi era stata alcuna proroga successiva al 1 aprile 2004.

12. Ed allora se, da un lato, questa Corte condivide l'impostazione dei giudici d'appello secondo cui non ha carattere decisivo parlare di proroga o di rinnovo, visto che il petitum sostanziale è chiaro e consiste nella denuncia di un trattamento discriminatorio per la negata permanenza nel lavoro della C., derivante dal congedo per maternità, a fronte del mantenimento in servizio di tutti i suoi colleghi nelle medesime condizioni contrattuali, dall'altro, deve evidenziare che detti giudici hanno errato laddove hanno ritenuto che, nel caso in esame, la lavoratrice avesse omesso ogni allegazione di specifiche circostanze di fatto essenziali per ottenere l'attenuazione del regime probatorio ordinario rimarcando che la medesima avrebbe dovuto fornire elementi circa i contratti prorogati e/o rinnovati agli altri suoi colleghi per poterne dedurre che le causali apposte agli stessi erano completamente sovrapponibili al contratto stipulato dalla prima.

Con tale ragionamento, in sostanza, la Corte territoriale ha finito per porre a carico della ricorrente una prova piena di tutti gli elementi significativi di una discriminazione laddove, come detto, il legislatore ha posto a carico della stessa solo la dimostrazione di una ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio, dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare una presunzione di discriminazione, restando, per il resto, a carico del datore di lavoro l'onere di dimostrare che non vi sia stata violazione del principio di non discriminazione.

13. Si aggiunga che l'onere della prova attenuato riferito al fattore di rischio nei termini di cui si è detto va anche coordinato con il principio di vicinanza della prova che porta a ritenere che, nella specie, i contratti rinnovati ovvero prorogati fossero nella materiale disponibilità dell'ISPRA (che, si ribadisce, non ha mai contestato che, con le proroghe ovvero con i rinnovi, di fatto, i colleghi della C., come quest'ultima legati all'Istituto da contratti a termine, avessero proseguito nei rapporti di lavoro).

Tale principio (v. Cass., Sez. Un., Cass. 30 ottobre 2001, n. 13533), come è noto, muove dalla considerazione che spesso una parte può incontrare difficoltà, spesso insuperabili, per soddisfare l'onere della prova che perciò, in concreto, viene ripartito tenendo conto della possibilità per l'uno o per l'altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione e risponde ad una finalità di agevolare e rendere efficace ed effettivo il processo, supplendo alla carenza probatoria mediante criteri indiziari e presuntivi, di cui può avvalersi il soggetto debole del rapporto nei confronti della parte prossima alla fonte prova e in posizione strategicamente privilegiata, nell'intento di recuperare l'equilibrio di posizioni tra le parti in causa, al fine di assicurare un giusto processo in condizioni di parità tra i contendenti, secondo il dettato dell'art. 111 Cost. e dell'art. 47 Carta di Nizza.

14. Nel caso in esame, dunque, considerata l'agevolazione probatoria di cui al D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 40 a fronte dell'avvenuta deduzione delle circostanze minime essenziali da cui presuntivamente inferire la lamentata discriminazione, l'onere di provare, all'interno di esse, i fatti negativi gravava sul datore di lavoro, fermo restando il potere d'ufficio del giudice di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti, in ragione dei rispetti oneri, per colmare eventuali lacune delle risultanze di causa.

15. In conclusione, il ricorso va accolto per le ragioni sopra evidenziate e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte d'appello di Roma che, in diversa composizione, procederà ad un nuovo esame attenendosi agli indicati principi e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

martedì 2 marzo 2021

 Come è ripartita la competenza tra giudice fallimentare e giudice del lavoro?

Cass. 08/02/2021, n. 2964

Nel riparto di competenza tra giudice del lavoro e fallimentare, il rispettivo "discrimen" si individua nelle differenti speciali prerogative, spettando al primo, quale giudice del rapporto, le controversie riguardanti lo "status" del lavoratore, in riferimento ai diritti di corretta instaurazione, vigenza e cessazione del rapporto, della sua qualificazione e qualità, volte ad ottenere pronunce di mero accertamento oppure costitutive, come quelle di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro; al secondo spetta invece, al fine di garantire la parità tra i creditori, la cognizione delle controversie relative all’accertamento ed alla qualificazione dei diritti di credito dipendenti dal rapporto di lavoro in funzione della partecipazione al concorso e con effetti esclusivamente endoconcorsuali, ovvero destinate comunque ad incidere nella procedura concorsuale (Nel caso di specie, accogliendo il ricorso, la Suprema Corte ha cassato con rinvio il decreto impugnato con cui il giudice fallimentare aveva negato la propria competenza rispetto alla domanda proposta da un dirigente licenziato per il riconoscimento nel concorso fallimentare del credito vantato a titolo di indennità supplementare ed aumento automatico quali specifiche voci previste dalla disciplina collettiva).

lunedì 1 marzo 2021



La direttiva 1999/70/CE del Consiglio impone agli stati la trasformazione del contratto a termine illegittimo in contratto a tempo indeterminato?

Corte giustizia Unione Europea Sez. VII, 11/02/2021, n. 760/18

La clausola 5 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, non sancisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratto a tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato. L'ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve tuttavia prevedere un'altra misura effettiva per prevenire e, se del caso, sanzionare l'utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Quando si sia verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato deve potersi applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori, al fine di sanzionare debitamente tale abuso e di rimuovere le conseguenze della violazione del diritto dell'Unione. Infatti, secondo i termini stessi dell'articolo 2, primo comma, della direttiva 1999/70, gli Stati membri devono «prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti da [tale] direttiva».