lunedì 31 dicembre 2018


Quando ricorre l'ipotesi  prevista dal comma 5 dell'art. 18 legge 300 del 1970?

Cass. 14/12/2018, n. 32500

In riferimento all'art. 18, commi 4 e 5, della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori), come modificato dalla legge n. 92 del 2012, si rileva come la valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra nel quarto comma del citato art. 18 solo nell'ipotesi in cui lo scollamento tra la gravità della condotta realizzata e la sanzione adottata risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa. Al di fuori di tale caso, la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali il quinto comma dell'art. 18 prevede la tutela indennitaria cd. forte. Il giudice deve, dunque, accertare non solo se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, ma, nel caso in cui lo escluda, anche il grado di divergenza della condotta datoriale dal modello legale e contrattuale legittimante.




venerdì 28 dicembre 2018


Quale procedimento deve seguire il magistrato nella valutazione della sussistenza della giusta causa di licenziamento?

Cass. 20/12/2018, n. 33027

Il giudice di merito investito della domanda con cui si chieda la invalidazione di un licenziamento disciplinare, accertata la sussistenza in punto di fatto dell'infrazione contestata, deve verificare che la stessa sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso; in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto la gravita dell'addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell'elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell'adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all'adempimento dei suoi obblighi. A tal fine il giudice deve tener conto di tutti i connotati oggetti e soggettivi del fatto, vale a dire del danno arrecato, dell'intensità del dolo o del grado della colpa, dei precedenti disciplinari, nonché di ogni altra circostanza tale da incidere in concreto sulla valutazione del livello di lesione del rapporto fiduciario tra le parti. (Nel caso concreto, essendosi la corte del merito attenuta ai suddetti principi, la sentenza gravata non merita censure sul punto.)

giovedì 27 dicembre 2018

Quando le mansioni sono considerate equivalenti nel pubblico impiego?


Cass. Ord., 17/12/2018, n. 32592

In materia di pubblico impiego, non sussiste violazione dell'art. 52, D.Lgs. n. 165 del 2001 nell'ipotesi in cui le nuove mansioni assegnate al dipendente rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo. Condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti, invero, è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita. Tale nozione di equivalenza in senso formale comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili e l'assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell'oggetto del contratto di lavoro. (Nel caso concreto risulta positivamente accertato che la posizione organizzativa attribuita alla lavoratrice, al suo rientro dal congedo per maternità, con il riassetto organizzativo attuato dall'Ente, corrispondeva ala categoria di inquadramento dalla medesima posseduta.)

sabato 22 dicembre 2018

Quali sgravi per favorire l'occupazione giovanile sono stati introdotti dal DL 2018 n.87?


Art. 1-bis. Esonero contributivo per favorire l'occupazione giovanile 

1. Al fine di promuovere l'occupazione giovanile stabile, ai datori di lavoro privato che negli anni 2019 e 2020 assumono lavoratori che non hanno compiuto il trentacinquesimo anno di età, cui si applicano le disposizioni in materia di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a tutele crescenti di cui al decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, è riconosciuto, per un periodo massimo di trentasei mesi, l'esonero dal versamento del 50 per cento dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, con esclusione dei premi e contributi dovuti all'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, nel limite massimo di 3.000 euro su base annua, riparametrato e applicato su base mensile.


2. L'esonero di cui al comma 1 spetta con riferimento ai soggetti che alla data della prima assunzione per la quale si applica l'incentivo non hanno compiuto il trentacinquesimo anno di età e non sono stati occupati a tempo indeterminato con il medesimo o con altro datore di lavoro. Non ostano al riconoscimento dell'esonero gli eventuali periodi di apprendistato svolti presso un altro datore di lavoro e non proseguiti in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.


3. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono stabilite le modalità di fruizione dell'esonero di cui al comma 1.


4. Agli oneri derivanti dai commi 1 e 2, valutati in 31,83 milioni di euro per l'anno 2019, in 111,52 milioni di euro per l'anno 2020, in 162,62 milioni di euro per l'anno 2021, in 134,02 milioni di euro per l'anno 2022, in 54,32 milioni di euro per l'anno 2023 e in 3,23 milioni di euro per l'anno 2024, e a quelli derivanti dal comma 5, pari a 6,97 milioni di euro per l'anno 2019, a 0,48 milioni di euro per l'anno 2020, a 2,88 milioni di euro per l'anno 2021, a 16,38 milioni di euro per l'anno 2022, a 6,08 milioni di euro per l'anno 2023, a 44,37 milioni di euro per l'anno 2024 e a 46,8 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2025, si provvede:

a) quanto a 27,8 milioni di euro per l'anno 2020, a 48,5 milioni di euro per l'anno 2021, a 33,4 milioni di euro per l'anno 2022, a 13,6 milioni di euro per l'anno 2023 e a 0,8 milioni di euro per l'anno 2024, mediante le maggiori entrate di cui ai commi 1 e 2;
b) quanto a 38,8 milioni di euro per l'anno 2019, a 84,2 milioni di euro per l'anno 2020, a 117 milioni di euro per ciascuno degli anni 2021 e 2022 e a 46,8 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2023, mediante quota parte delle maggiori entrate di cui all'articolo 9, comma 6.



5. Il Fondo per interventi strutturali di politica economica, di cui all'articolo 10, comma 5, del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307, è incrementato di 6,97 milioni di euro per l'anno 2019, di 0,48 milioni di euro per l'anno 2020, di 2,88 milioni di euro per l'anno 2021, di 16,38 milioni di euro per l'anno 2022, di 6,08 milioni di euro per l'anno 2023, di 44,37 milioni di euro per l'anno 2024 e di 46,8 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2025.


6. Al fine di garantire la neutralità sui saldi di finanza pubblica, l'Istituto nazionale della previdenza sociale provvede al monitoraggio trimestrale degli oneri di cui ai commi 1 e 2 e comunica le relative risultanze al Ministero del lavoro e delle politiche sociali e al Ministero dell'economia e delle finanze entro il mese successivo al trimestre di riferimento, anche ai fini dell'adozione delle eventuali iniziative da intraprendere ai sensi dell'articolo 17 della legge 31 dicembre 2009, n. 196.

giovedì 20 dicembre 2018

Quali sono i limiti al ricorso al lavoro somministrato con contratto a tempo determinato stabiliti dal DL 87 del 2018 (decreto dignità) in modifica del Dlgs 81 dl 2015?

In base al comma 2 dell'art. 31 del Dlgs 81 del 2015:


2. Salva diversa previsione dei contratti collettivi applicati dall'utilizzatore e fermo restando il limite disposto dall'articolo 23, il numero dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato ovvero con contratto di somministrazione a tempo determinato non può eccedere complessivamente il 30 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l'utilizzatore al 1° gennaio dell'anno di stipulazione dei predetti contratti, con arrotondamento del decimale all'unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5. Nel caso di inizio dell'attività nel corso dell'anno, il limite percentuale si computa sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento della stipulazione del contratto di somministrazione di lavoro. E' in ogni caso esente da limiti quantitativi la somministrazione a tempo determinato di lavoratori di cui all'articolo 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991, n. 223, di soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali e di lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati ai sensi dei numeri 4) e 99) dell'articolo 2 del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, come individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali

mercoledì 19 dicembre 2018

Quali sanzioni sono state introdotte per la somministrazione fraudolenta dal dl 2018 n. 87 come modificato dalle legge 96 del 2018 che ha introdotto l'art. 38 bis nel dlgs 81 del 2015?

Art. 38-bis Dlgs 81 del 2015 Somministrazione fraudolenta 

1. Ferme restando le sanzioni di cui all'articolo 18 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, quando la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore, il somministratore e l'utilizzatore sono puniti con la pena dell'ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione.

Articolo inserito dall’art. 2, comma 1-bis, D.L. 12 luglio 2018, n. 87, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2018, n. 96

martedì 18 dicembre 2018


Come deve esprimere il proprio rifiuto al distacco il lavoratore?


Cass. 13-12-2018, n. 32330

Si deve, infatti, osservare che il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 30, si limita a prevedere, quale unico elemento costitutivo della fattispecie legale e sola condizione di legittimità del provvedimento, che l'ordine datoriale abbia il consenso del lavoratore distaccato, nel caso in cui esso "comporti un mutamento di mansioni" rispetto a quelle già svolte presso il soggetto distaccante, mutamento che può essere anche parziale, purchè effettivamente idoneo a ledere il patrimonio di professionalità acquisito.

8. Ne consegue che il lavoratore, il quale riceva la comunicazione di un provvedimento di distacco, ai sensi della norma richiamata, è gravato dall'onere di fare presente al datore di lavoro il proprio rifiuto ma non anche di rendere note le ragioni che lo sorreggono (o di tenere ferme quelle inizialmente prospettate, ove diverse da un mutamento di mansioni), l'art. 30, richiedendo il consenso del lavoratore nei casi (tutti) in cui il mutamento delle mansioni sia conseguenza oggettiva dell'attuazione dell'ordine, senza che possa rilevare la rappresentazione che di esso e dei suoi effetti abbia dato il datore di lavoro.

9. E', quindi, irrilevante che il datore, nella lettera di comunicazione del provvedimento, abbia affermato - come nella specie - che il lavoratore avrebbe continuato a svolgere le proprie mansioni presso la controllata (ciò che, secondo la tesi della società ricorrente, renderebbe non necessario il consenso del lavoratore e illegittimo il rifiuto del distacco, senza un accertamento giudiziale), posto che una tale interpretazione avrebbe l'effetto di far coesistere - in esclusiva dipendenza di una dichiarazione del datore di lavoro, di cui peraltro non vi è traccia nel dettato normativo - discipline diverse per casi identici.

lunedì 17 dicembre 2018

Come è disciplinata l'indennità di maternità per le lavoratrici autonome?


Art. 66. Indennità di maternità per le lavoratrici autonome e le imprenditrici agricole (legge 29 dicembre 1987, n. 546, art. 1)

1. Alle lavoratrici autonome, coltivatrici dirette, mezzadre e colone, artigiane ed esercenti attività commerciali di cui alle leggi 26 ottobre 1957, n. 1047, 4 luglio 1959, n. 463, e 22 luglio 1966, n. 613, alle imprenditrici agricole a titolo principale, nonché alle pescatrici autonome della piccola pesca marittima e delle acque interne, di cui alla legge 13 marzo 1958, n. 250, e successive modificazioni, è corrisposta una indennità giornaliera per il periodo di gravidanza e per quello successivo al parto calcolata ai sensi dell'articolo 68. 

1-bis. L'indennità di cui al comma 1 spetta al padre lavoratore autonomo, per il periodo in cui sarebbe spettata alla madre lavoratrice autonoma o per la parte residua, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre



Art. 67. Modalità di erogazione (legge 29 dicembre 1987, n. 546, art. 2)

1. L'indennità di cui all'articolo 66 viene erogata dall'INPS a seguito di apposita domanda in carta libera, corredata da un certificato medico rilasciato dall'azienda sanitaria locale competente per territorio, attestante la data di inizio della gravidanza e quella presunta del parto ovvero dell'interruzione della gravidanza spontanea o volontaria ai sensi della legge 22 maggio 1978, n. 194.


1-bis. L'indennità di cui all'articolo 66, comma 1-bis, è erogata previa domanda all'INPS, corredata dalla certificazione relativa alle condizioni ivi previste. In caso di abbandono il padre lavoratore autonomo ne rende dichiarazione ai sensi dell'articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. 


2. In caso di adozione o di affidamento, l'indennità di maternità di cui all'articolo 66 spetta, sulla base di idonea documentazione, per i periodi e secondo quanto previsto all'articolo 26. 


3. L'INPS provvede d'ufficio agli accertamenti amministrativi necessari



Art. 68. Misura dell'indennità(legge 29 dicembre 1987, n. 546, articoli 3, 4 e 5)


1. Alle coltivatrici dirette, colone e mezzadre e alle imprenditrici agricole è corrisposta, per i due mesi antecedenti la data del parto e per i tre mesi successivi alla stessa, una indennità giornaliera pari all'80 per cento della retribuzione minima giornaliera per gli operai agricoli a tempo indeterminato, come prevista dall'articolo 14, comma 7, del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 791, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1982, n. 54, in relazione all'anno precedente il parto.


2. Alle lavoratrici autonome, artigiane ed esercenti attività commerciali è corrisposta, per i due mesi antecedenti la data del parto e per i tre mesi successivi alla stessa data effettiva del parto, una indennità giornaliere pari all'80 per cento del salario minimo giornaliero stabilito dall'articolo 1 del decreto-legge 29 luglio 1981, n. 402, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 settembre 1981, n. 537, nella misura risultante, per la qualifica di impiegato, dalla tabella A e dai successivi decreti ministeriali di cui al secondo comma del medesimo articolo 1.


2-bis. Alle pescatrici autonome della piccola pesca marittima e delle acque interne è corrisposta, per i due mesi antecedenti la data del parto e per i tre mesi successivi alla stessa data effettiva del parto una indennità giornaliera pari all'80 per cento della massima giornaliera del salario convenzionale previsto per i pescatori della piccola pesca marittima e delle acque interne dall'articolo 10 della legge 13 marzo 1958, n. 250, come successivamente adeguato in base alle disposizioni vigenti. 


3. In caso di interruzione della gravidanza, spontanea o volontaria, nei casi previsti dagli articoli 4, 5 e 6 della legge 22 maggio 1978, n. 194, verificatasi non prima del terzo mese di gravidanza, su certificazione medica rilasciata dall'azienda sanitaria locale competente per territorio, è corrisposta una indennità giornaliera calcolata ai sensi dei commi 1 e 2 per un periodo di trenta giorni.




Art. 69. Congedo parentale (legge 30 dicembre 1971, n. 1204, art. 1, comma 4)

1. Alle lavoratrici di cui al presente Capo, madri di bambini nati a decorrere dal 1° gennaio 2000, è esteso il diritto al congedo parentale di cui all'articolo 32, compresi il relativo trattamento economico e il trattamento previdenziale di cui all'articolo 35, limitatamente ad un periodo di tre mesi, entro il primo anno di vita del bambino.

1-bis. Le disposizioni del presente articolo trovano applicazione anche nei confronti dei genitori adottivi o affidatari

venerdì 14 dicembre 2018

A quali lavoratori è circoscritta la legislazione che prevede benefici previdenziali per i lavoratori esposti ad amianto?



Cass.11/12/2018, n. 32003

In tema di previdenza, i benefici previdenziali per esposizione all'amianto si riferiscono a tutti i lavoratori dipendenti, a qualunque categoria essi appartengano, purché essi siano stati comunque esposti all'amianto. Infatti, ai fini del diritto a detti benefici, conta qualunque tipo di esposizione che raggiunga la soglia dettata dal D.Lgs. 15 agosto 1991 n. 277 per il periodo ultradecennale previsto dal legislatore, sia essa diretta o indiretta, atteso che il termine "esposizione" non può che essere inteso nel suo significato ampio, riferito a tutto l'ambiente di lavoro, in una palese logica del rischio ambientale, per cui è esposto al rischio non solo l'operaio che è addetto o a contatto con le lavorazioni che utilizzano amianto, ma anche chi, a qualunque categoria lavorativa appartenga, svolga la sua attività in ambienti nei quali vi sia comunque diffusione e concentrazione di amianto, addetto o meno a specifiche lavorazioni dello stesso.

giovedì 13 dicembre 2018


In caso di cessazione di azienda si può interrompere il rapporto con il lavoratore?

Tribunale di Torino 11 agosto 2000

Il divieto di licenziamento del lavoratore in malattia prima della cessazione della stessa o dello scadere del comporto ex art. 2110 comma 2 c.c., non opera in caso di integrale e definitiva cessazione dell'impresa.

martedì 11 dicembre 2018

Come si determina il danno  da demansionamento?


Cass. 07/12/2018, n. 31754

In tema di dequalificazione professionale, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno, di natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.

lunedì 10 dicembre 2018

Come si determina la retribuzione proporzionata e sufficiente?



Trib. Napoli 30-01-2018


Di conseguenza la disciplina collettiva può servire al giudice solo come parametro di determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente quale è dovuta ai sensi dell'art. 36 della Costituzione.

Nella determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente a norma dell'art. 36 cost. il giudice poi non ha necessariamente l'obbligo di assumere a parametro i minimi salariali previsti dalla contrattazione collettiva di diritto comune, non potendosi attribuire alla stessa, neppure indirettamente, efficacia erga omnes, e tenuto conto altresì della mancanza di alcun criterio legale di scelta nell'ipotesi di una pluralità di norme collettive contemporaneamente in vigore (Cass., sez. lav., 09-08-1996, 7383).

Ove il giudicante ritenga, per la determinazione della giusta retribuzione, di fare riferimento ai contratti collettivi postcorporativi, non direttamente applicabili al rapporto, detti possono essere utilizzati soltanto quale parametro e quindi con esclusione dell'automatica applicazione degli istituti convenzionati di c.d. retribuzione indiretta, quali le mensilità aggiuntive o gli scatti di anzianità, ovvero di altri istituti contrattuali quali la quattordicesima mensilità, le maggiorazioni per lavoro notturno, festivo e domenicale, la Cassa Edile, o anche di quegli istituti per i quali esiste una disciplina legale, come è per lo straordinario (cfr. Cass., sez. lav., 09-08-1996, 7379).

Nel caso in cui il lavoratore chieda l'adeguamento della sua retribuzione ai sensi dell'art. 36 cost., il giudice dunque deve preliminarmente valutare se sussiste l'asserito difetto di proporzionalità e di sufficienza della retribuzione rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato e le primarie esigenze di vita del lavoratore e della sua famiglia, prendendo in considerazione l'importo globale della retribuzione di fatto percepita e non già isolate componenti della stessa retribuzione (Cass., sez. lav., 18-09-1995, 9868).

sabato 8 dicembre 2018

Cosa deve verificare  il giudice nel controllo di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ? 


Cass. 04/12/2018, n. 31318 

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ricondotto a ragioni tecniche, organizzative e produttive, spetta al giudice (che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost.) il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro che, a sua volta, ha l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'effettività delle ragioni che giustificano l'operazione di riassetto.

giovedì 6 dicembre 2018

Quali sono i limiti del recesso durante il patto di prova?



Cass. 03/12/2018, n. 31159

Il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa dall'onere di provarne la giustificazione, diversamente da quanto accade nel licenziamento assoggettato alla legge n. 604 del 1966. L'esercizio del potere di recesso, tuttavia, deve essere coerente con la causa del patto di prova, da rinvenirsi nella tutela dell'interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e valutando quest'ultimo l'entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto. Consegue a quanto innanzi che non è configurabile un esito negativo della prova ed un valido recesso qualora le modalità dell'esperimento non risultino adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova. (Nel caso concreto la Corte di merito ha errato in diritto nel ritenere che l'accertata divergenza nell'esecuzione del patto valido abbia instaurato fra le parti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato non soggetto alla temporanea libera recedibilità delle parti, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria, per cui la sentenza impugnata va sul punto cassata, demandando ai giudice di rinvio di determinare le conseguenze della violazione del patto di prova da parte del datore di lavoro.)

mercoledì 5 dicembre 2018

Quando un pubblico dipendente può rifiutarsi di eseguire un ordine impartito?


Cass. 30/11/2018, n. 31086

Come si desume dalla norma - prevista dall'art. 17 del D.P.R. n. 3 del 1957 e dalla contrattazione collettiva di vari Comparti, che attribuisce al dipendente pubblico la facoltà di non eseguire un ordine, previa rimostranza a chi lo ha impartito, non sussiste un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse quelle derivanti da atti di organizzazione, impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, visto che il dovere di obbedienza incontra un limite nell'obiezione circa l'illegittimità dell'ordine ricevuto. Peraltro, deve trattarsi di un'obiezione ragionevole che si basi su una reale e oggettiva illegittimità dell'ordine e che può essere esternata e percepita anche soltanto dal destinatario dell'ordine medesimo, ma nel suo ruolo di “sentinella” e di collaboratore ad assicurare la legalità dell'Amministrazione, che gli deriva dall'art. 54, comma 2, Cost. e non per finalità, ragioni e percezioni meramente personali.

martedì 4 dicembre 2018

Gli accordi collettivi nell'ambito delle procedure ex art. 223 del 1991 possono essere sottoscritti anche solo da una parte dei sindacati?



Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 05/02/2018, n. 2694 

In tema di licenziamenti collettivi, la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (che si traduce in accordo sindacale che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, senza che occorra l'unanimità) adempie - come evidenziato dalla sentenza 22 giugno 1994, n. 268 della Corte Cost. - ad una funzione regolamentare delegata dalla legge e, pertanto, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, ex art. 15 della l. n. 300 del 1970, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell'obiettività e della generalità ed essere coerenti con il fine dell'istituto della mobilità dei lavoratori: il rispetto di tali criteri obiettivi - la prova della cui inosservanza grava sul lavoratore - esclude che possa discutersi di discriminazione 



Cass. 10001 del 2013 

Si e', inoltre, chiarito che "in materia di licenziamenti collettivi - come sottolineato nella sentenza della Corte costituzionale n. 268 del 1994 - la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare 4 Corte di Cassazione - copia non ufficiale (che si traduce in accordo sindacale che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, senza la necessità dell'approvazione dell'unanimità), poichè adempie ad una funzione regolamentare delegata dalla legge, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sanzionato dalla L. n. 300 del 1970, art. 15 ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell'obiettività e della generalità oltre a dover essere coerenti con il fine dell'istituto della mobilità dei lavoratori. 





Cass. 6959 del 2013 

Come sottolineato nella sentenza della Corte costituzionale n. 268 del 1994 - la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (che si traduce in un accordo sindacale che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, senza la necessità dell'approvazione dell'unanimità), poiché adempie ad una funzione regolamentare delegata dalla legge, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sanzionato dalla legge n. 300 del 1970, art. 15 ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell'obiettività e della generalità oltre a dover essere coerenti con il fine dell'istituto della mobilità dei lavoratori. 







Cass. Num. 5145 Anno 2013 

Si e', inoltre, chiarito che "in materia di licenziamenti collettivi - come sottolineato nella sentenza della Corte costituzionale n. 268 del 1994 - la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (che si traduce in accordo sindacale che ben puo' essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, senza la necessita' dell'approvazione dell'unanimita'), poiche' adempie ad una funzione regolamentare delegata dalla legge, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sanzionato dalla L. n. 300 del 1970, art. 15 ma anche il principio di razionalita', alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell'obiettivita' e della generalita' oltre a dover essere coerenti con il fine dell'istituto della mobilita' dei lavoratori. 



Cass. civ. Sez. lavoro, 24/04/2007, n. 9866 

In materia di licenziamenti collettivi - come sottolineato nella sentenza della Corte costituzionale n. 268 del 1994 - la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (che si traduce in accordo sindacale che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, senza la necessità dell'approvazione dell'unanimità), poiché adempie ad una funzione regolamentare delegata dalla legge, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sanzionato dall'art. 15 della legge n. 300 del 1970, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell'obiettività e della generalità oltre a dover essere coerenti con il fine dell'istituto della mobilità dei lavoratori. 



Cass. civ. Sez. lavoro, 02/03/1999, n. 1760 In materia di licenziamenti collettivi - come sottolineato nella sentenza della Corte cost. n. 268 del 1994 - la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (che si traduce in un accordo sindacale che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che la rappresentano, senza la necessità dell'approvazione dell'unanimità) poichè adempie ad una funzione regolamentare delegata dalla legge deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sanzionato dall'art. 15 della legge n. 300 del 1970, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell'obiettività e della generalità e devono essere coerenti col fine dell'istituto della mobilità dei lavoratori. 

lunedì 3 dicembre 2018

Quando gli insulti verso il superiore gerarchico possono costituire giusta causa di licenziamento?


Cass. 21/03/2016, n. 5523

Deve ritenersi legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che, con l'aggravante della recidiva, a seguito della richiesta della restituzione di una somma danaro, per errore rimborsata due volte a titolo di spese di carburante, insulti con epiteti ingiuriosi l'amministratore delegato al cospetto del cassiere e di altri dipendenti del datore di lavoro.

Nel caso, come anticipato nello storico di lite, la Corte d'appello ha desunto la gravità dell'addebito e la sua idoneità a costituire giusta causa di licenziamento da una serie di circostanze, quali in particolare la gravità dell'insulto rivolto al superiore gerarchico, la sostanziale assenza di giustificazioni in capo alla lavoratrice, che si stava finalmente conformando, alla seconda richiesta, ad adempiere ad una restituzione dovuta, la pronuncia "a freddo" delle parole di fronte ad un collega estraneo ad ogni ragione di malanimo ed infine la ricomprensione della fattispecie (non nell'ipotesi dell'insubordinazione di cui all'art. 229 del CCNL, ma) nella condotta prevista come giusta causa dall'art. 225, oltre alla recidiva reiterata formalmente contestata.

3.3. Tale valutazione non si pone in contrasto con i consolidati standars valutativi, considerato che questa Corte ha già affermato che l'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali, sebbene sia garantito dagli artt. 21 e 39 Cost., incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana, sicchè, ove tali limiti siano superati, con l'attribuzione all'impresa datoriale od ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione (Cass. n. 7091 del 24/05/2001). La stessa contrattazione collettiva applicabile inoltre ha ricompreso la condotta non conforme ai civici doveri tra le ipotesi di giusta causa di licenziamento e nel caso la valutazione di gravità è stata corroborata dalla valutazione della recidiva.

sabato 1 dicembre 2018

Se il ccnl prevede che un comportamento possa determinare una sanzione conservativa il datore di lavoro può irrogare il licenziamento solo per la gravità del fatto?

Cass. 27/11/2018, n. 30680

Il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione. Ciò significa che condotte pur astrattamente ed eventualmente suscettibili di integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo ai sensi di legge, non possono rientrare nel relativo novero se l'autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse sanzioni meramente conservative.