mercoledì 31 luglio 2019

Quando il rapporto a tempo determinato può essere risolto prima dello scadere?





Corte d'Appello Bologna Sez. lavoro Sent., 06/07/2010

 La disciplina della risoluzione dei rapporti di lavoro a tempo determinato, o per i quali sia assicurata una temporanea stabilita per mezzo di una clausola di durata minima, va individuata tenendo conto non solo della norma specifica di cui all'art. 2119 c.c., ma anche delle norme generali sulla risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive. In particolare è rilevante, così come in genere nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, l'impossibilità della prestazione (anche se non può operare il raccordo, per altre ipotesi delineato, tra impossibilità sopravvenuta e giustificato motivo oggettivo di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966), e in relazione ad essa la legittimità del recesso del datore di lavoro va stabilita in base all'esistenza o meno di un suo interesse apprezzabile alla future prestazioni lavorative, da valutarsi obiettivamente, avendo riguardo sia alle caratteristiche, anche dimensionali, dell'azienda, sia al tipo di mansioni affidate al dipendente.




Corte d'Appello Bologna Sez. lavoro Sent., 25/03/2010


La disciplina della risoluzione dei rapporti di lavoro a tempo determinato, o per i quali sia assicurata una temporanea stabilità per mezzo di una clausola di durata minima, va individuata tenendo conto non solo della norma specifica di cui all'art. 2119 c.c., ma anche delle norme generali sulla risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive. In particolare è rilevante, così come in genere nei rapporti di lavoro a tempoindeterminato, l'impossibilità della prestazione e in relazione ad essa la legittimità del recesso del datore di lavoro va stabilita in base all'esistenza o meno di un suo interesse apprezzabile alla future prestazioni lavorative, da valutarsi obiettivamente, avendo riguardo sia alle caratteristiche, anche dimensionali, dell'azienda, sia al tipo di mansioni affidate al dipendente.





Cass. civ. Sez. lavoro, 03/08/2004, n. 14871

La disciplina della risoluzione dei rapporti di lavoro a tempo determinato, o per i quali sia assicurata una temporanea stabilità per mezzo di una clausola di durata minima, va individuata tenendo conto non solo della norma specifica di cui all'art. 2119 c.c., ma anche delle norme generali sulla risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive. In particolare, è rilevante, così come in genere nei rapporti di lavoro a tempoindeterminato, l'impossibilità della prestazione (anche se non può operare il raccordo, per altre ipotesi delineato, tra impossibilità sopravvenuta e giustificato motivo oggettivo di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966), e in relazione ad essa la legittimità del recesso del datore di lavoro va stabilita in base all'esistenza o meno di un interesse apprezzabile alla future prestazioni lavorative, da valutarsi obiettivamente, avendo riguardo sia alle caratteristiche, anche dimensionali, dell'azienda, sia al tipo di mansioni affidate al dipendente, mentre non rileva la imprevedibilità del fatto sopravvenuto, che può essere causa di risoluzione del contratto anche se prevedibile, purché l'evento non fosse comunque evitabile. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto la legittimità del licenziamento di un direttore generale di una società costituita tra quattro istituti bancari con il fine di realizzare una gestione unificata delle partecipazioni e dei servizi delle società anche in vista di una futura possibile fusione, a fronte del fatto sopravvenuto, costituito dalla uscita dalla società del più importante degli istituti bancari coinvolti, che aveva impedito la realizzazione del piano industriale).




Cass. civ. Sez. lavoro, 20/04/1995, n. 4437

La disciplina della risoluzione dei rapporti di lavoro a tempo determinato, o per i quali sia assicurata una temporanea stabilità per mezzo di una clausola di durata minima, va individuata tenendo conto non solo della norma specifica di cui all'art. 2119 c.c., ma anche delle norme generali sulla risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive. In particolare è rilevante, così come in genere nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, l'impossibilità della prestazione (anche se non può operare il raccordo, per altre ipotesi delineato, tra impossibilità sopravvenuta e giustificato motivo oggettivo di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966), e in relazione ad essa la legittimità del recesso del datore di lavoro va stabilita in base all'esistenza o meno di un suo interesse apprezzabile alle future prestazioni lavorative, da valutarsi obiettivamente, avendo riguardo sia alle caratteristiche, anche dimensionali, dell'azienda, sia al tipo di mansioni affidate al dipendente. (Nella specie, la S.C. ha annullato la sentenza del giudice di merito che aveva escluso la rilevanza ai fini in esame di circostanze determinanti la non proficua utilizzabilità della prestazione del lavoratore.







martedì 30 luglio 2019


Quando il trasferimento permette di dimettersi ed accedere alla Naspi?


INPS – Mess. n. 369 del 26.01.2018: Naspi per dimissioni o risoluzione consensuale in caso di  trasferimento.



Istituto Nazionale Previdenza Sociale Messaggio 26 gennaio 2018, n. 369 Oggetto: Accesso alla indennità di disoccupazione NASpi nelle ipotesi di risoluzione consensuale in seguito al rifiuto da parte del lavoratore al proprio trasferimento ad altra sede della stessa azienda distante oltre 50 chilometri dalla residenza del lavoratore e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o oltre con i mezzi di trasporto pubblico e nella ipotesi di dimissioni per giusta causa a seguito del trasferimento del lavoratore. Sono pervenute da parte di diverse strutture territoriali richieste volte alla definizione di casi concreti aventi quale tematica la possibilità di accedere alla prestazione NASpI nelle ipotesi di risoluzione consensuale in seguito al rifiuto da parte del lavoratore al proprio trasferimento ad altra sede della stessa azienda distante oltre 50 chilometri dalla residenza del lavoratore e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o oltre con i mezzi di trasporto pubblico e nella ipotesi di dimissioni per giusta causa a seguito del trasferimento del lavoratore. Con il presente messaggio si riepilogano le istruzioni già impartite nel corso degli anni sulla tematica in oggetto attraverso le circolari INPS n. 97 del 2003, n. 163 del 2003, n. 108 del 2006 ed il messaggio Hermes n. 016410 del 20/7/2009 in materia di indennità di disoccupazione ordinaria, agricola e non agricola, con requisiti normali o con requisiti ridotti, nonché con la circolare INPS n. 142 del 2012 in materia di indennità di disoccupazione ASpI e mini-ASpi, ed infine con le circolari INPS n. 94 e n. 142 del 2015 in materia di indennità NASpI. L’art. 2 comma 4 della legge n. 92 del 2012 e l’art.3 del d.lgs. n. 22 del 2015, riconoscono rispettivamente il diritto all’indennità di disoccupazione in ambito ASpI e all’indennità NASpI ai lavoratori dipendenti che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione e che presentino congiuntamente gli ulteriori requisiti legislativamente previsti. In ordine al requisito della involontarietà dello stato di disoccupazione, ai sensi dell’art.2 comma 5 della citata legge n. 92 e dell’art. 3 comma 2 del citato decreto n.22 le predette indennità di disoccupazione sono riconosciute anche nelle ipotesi di dimissioni per giusta causa e di risoluzione consensuale intervenuta nell’ambito della procedura di conciliazione di cui all’art. 7 della legge n.604 del 1966 come modificato dall’art. 1, comma 40, della legge n. 92 del 2012. Alla luce delle richiamate disposizioni, in talune ipotesi in cui la cessazione del rapporto di lavoro non consegue ad un atto unilaterale del datore di lavoro è consentito l’accesso al trattamento di disoccupazione. In particolare nelle ipotesi di dimissioni per giusta causa e cioè in presenza di una condizione di improseguibilità del rapporto di lavoro, la cui ricorrenza deve essere valutata dal giudice, l’atto di dimissioni del lavoratore è comunque da ascrivere al comportamento di un altro soggetto e il conseguente stato di disoccupazione non può che ritenersi involontario. Analogamente lo stato di disoccupazione può ritenersi involontario nelle ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro in cui le parti addivengono alla risoluzione consensuale del rapporto medesimo, sia in esito alla procedura di conciliazione di cui all’art. 7 della legge n.604 del 1966 come modificato dall’art. 1, comma 40, della legge n.92 del 2012 sia in esito al rifiuto del lavoratore al trasferimento ad altra sede della stessa azienda distante oltre 50 km dalla residenza del lavoratore o mediamente raggiungibile in oltre 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblico. Su tale ultima ipotesi di risoluzione consensuale in esito al rifiuto al trasferimento, come precisato nella circolare INPS n. 108 del 2006, la volontà del lavoratore può essere stata indotta dalle notevoli variazioni delle condizioni di lavoro conseguenti al trasferimento ad altra sede dell’azienda distante più di 50 km dalla residenza del lavoratore e/o raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici. Pertanto, in tale caso si può riconoscere l’indennità di disoccupazione. Il riconoscimento all’indennità in detta ipotesi è stato confermato anche con le circolari INPS n. 142 del 2012 in materia di ASpI e n. 142 del 2015 in materia di NASpI. Si verifica, inoltre, di frequente che nei suddetti casi di risoluzione a seguito di rifiuto del trasferimento da parte del lavoratore le parti (datore di lavoro e lavoratore), in sede di conciliazione, convengono sulla corresponsione a vario titolo, spesso a titolo di incentivo, di somme, talvolta consistenti, diverse da quelle spettanti in relazione al pregresso rapporto di lavoro. Anche in tali fattispecie - acquisito sulla materia il parere favorevole dell’Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - è possibile quindi accedere alla indennità di disoccupazione NASpI, in presenza di tutti i requisiti legislativamente previsti, anche laddove il lavoratore ed il datore di lavoro pattuiscano la corresponsione, a favore del lavoratore, di somme a vario titolo e di qualunque importo esse siano. Per quanto attiene alla ipotesi di dimissioni a seguito del trasferimento del lavoratore ad altra sede della stessa azienda, si precisa che in tale circostanza - come anche affermato dall’Ufficio del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nel parere reso sulla materia - ricorre la giusta causa delle dimissioni qualora il trasferimento non sia sorretto da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive e ciò indipendentemente dalla distanza tra la residenza del lavoratore e la nuova sede di lavoro. In ragione di quanto sopra, in presenza di dimissioni che il lavoratore asserisce avvenute per giusta causa, a seguito di trasferimento ad altra sede dell’azienda è ammesso l’accesso alla prestazione NASpI a condizione che il trasferimento non sia sorretto da “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” previste dall’art. 2103 c.c. Qualora, pertanto, ricorra tale fattispecie, come già precisato con la circolare INPS n. 163 del 2003 - che si richiama integralmente per la parte di interesse - se il lavoratore dichiara che si è dimesso per giusta causa dovrà corredare la domanda con una documentazione (dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui agli articoli 38 e 47 del D.P.R n. 445/2000) da cui risulti almeno la sua volontà di “difendersi in giudizio” nei confronti del comportamento illecito del datore di lavoro (allegazione di diffide, esposti, denunce, citazioni, ricorsi d’urgenza ex articolo 700 c.p.c., sentenze ecc. contro il datore di lavoro, nonché ogni altro documento idoneo), impegnandosi a comunicare l’esito della controversia giudiziale o extragiudiziale. Laddove l’esito della lite dovesse escludere la ricorrenza della giusta causa di dimissioni, si dovrà procedere al recupero di quanto pagato a titolo di indennità di disoccupazione, così come avviene nel caso di reintegra del lavoratore nel posto di lavoro successiva a un licenziamento illegittimo che ha dato luogo al pagamento dell’indennità di disoccupazione.

lunedì 29 luglio 2019

Come sono  disciplinati i permessi per donatori di sangue?

In forza dell'art. 1 della legge 1967 n. 584:





I donatori di sangue e di emocomponenti con rapporto di lavoro dipendente hanno diritto ad astenersi dal lavoro per l'intera giornata in cui effettuano la donazione, conservando la normale retribuzione per l'intera giornata lavorativa. I relativi contributi previdenziali sono accreditati ai sensi dell'articolo 8 della legge 23 aprile 1981, n. 155

sabato 27 luglio 2019

Come si determina il danno da demansionamento?

Cass. 23/07/2019, n. 19923




Nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore, in violazione dell'art. 2103 c.c., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione, se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno, avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, e determinarne l'entità, anche in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità dell'esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.

giovedì 25 luglio 2019

Quando il giudice in appello può ammettere prove d'ufficio?


Cass.22/07/2019, n. 19661

Nel rito del lavoro, stante l'esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorché le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, anche in grado di appello, ex art. 437 c.p.c., ove reputi insufficienti le prove già acquisite, può, in via eccezionale, ammettere, anche d'ufficio, le prove indispensabili per la dimostrazione o la negazione di fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati o contestati e sussistano altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti e già acquisiti, meritevoli di approfondimento.

mercoledì 24 luglio 2019


Su chi incombe l'onere della prova della giustificata assenza dalla visita di controllo?




cass. 22/07/2019, n. 19668

L'ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo, per la quale l'art. 5, comma quattordicesimo, del D.L. 12 settembre 1983 n. 463, prevede la decadenza (in varia misura) del lavoratore medesimo dal diritto al trattamento economico di malattia, non coincide necessariamente con l'assenza del lavoratore dalla propria abitazione, potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore, pur presente in casa, che sia valsa ad impedire l'esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale. La prova dell'osservanza del dovere di diligenza incombe al lavoratore.

martedì 23 luglio 2019

In cosa deve sostanziarsi il giustificato motivo oggettivo?



cass. 18/07/2019, n. 19302




Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento si sostanzia in ogni modifica della struttura organizzativa dell'impresa che abbia quale suo effetto la soppressione di una determinata posizione lavorativa, indipendentemente dall'obiettivo perseguito dall'imprenditore e, dunque, sia esso una migliore efficienza, un incremento della produttività, e quindi del profitto, ovvero la necessità di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese straordinarie. Va, pertanto, riformata la pronuncia giudiziale che accolga l'impugnazione del licenziamento in conseguenza della mancata prova, da parte del datore di lavoro, di una congiuntura sfavorevole non meramente contingente e influente in modo decisivo sull'andamento della attività, tanto da imporre la risoluzione del rapporto di lavoro.

lunedì 22 luglio 2019

Quando è necessario iscriversi alla gestione commercianti se si esercitano attività assicurative?





Cass. 12/07/2019, n. 18824




Ai fini dell'inquadramento previdenziale dei produttori assicurativi diretti, rilevano le concrete modalità di esercizio dell'attività di ricerca del cliente assicurativo, con la conseguenza che l'iscrizione va effettuata presso la gestione commercianti ordinaria ove tale attività sia svolta dal produttore in forma di impresa e presso la Gestione separata di cui all'art. 2, comma 26, legge n. 335 del 1995, ove l'attività in questione sia esercitata mediante apporto personale, coordinato e continuativo, privo di carattere imprenditoriale, o in forma autonoma occasionale da cui derivi un reddito annuo superiore ad euro 5.000,00.

venerdì 19 luglio 2019

L'anticipazione del TFR al di fuori dei casi in cui è obbligatoria va sottoposta a contribuzione?

Cass. 22-02-2007, n. 4133

1. Con il primo motivo di impugnazione l'Inps deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. n. 297 del 1982, art. 1 dell'art. 2120 c.c., comma ultimo, e della L. n. 153 del 1969, art. 12, nonchè il vizio di motivazione.

L'Istituto ricorrente premette che l'oggetto della controversia era la sotto posizione a contribuzione previdenziale di somme anticipate a titolo di trattamento di fine rapporto dal datore di lavoro al dipendente B.R. per far fronte a spese di natura personale, e sostiene che le condizioni di miglior favore che le parti potevano introdurre (con contratti collettivi o con patti individuali) rispetto al trattamento legale previsto per le anticipazioni non riguardavano l'esercizio del diritto al trattamento di fine rapporto ma soltanto le modalità di erogazione dell'anticipazione, e che, ad esempio l'autonomia negoziale o collettiva avrebbe potuto prevedere la corresponsione reiterata o periodica di anticipazioni nel corso del rapporto di lavoro.

Non sarebbe ammissibile, invece, una libera disposizione da parte dei lavoratori di un credito retributivo in linea di principio inesigibile.

Il ragionamento del giudice d'appello sarebbe viziato là dove aveva escluso il carattere tassativo delle fattispecie di anticipazione previste dalla legge sulla base di pattuizioni derogative, non solo collettive, ma anche individuali, o addirittura non scritte.

Le anticipazioni erano ammesse soltanto nei casi espressamente indicati, perchè finalizzate al soddisfacimento di esigenze di carattere eccezionale.

2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta il vizio di motivazione.

Argomenta che, anche ammettendo, in ipotesi, la non tassatività dell'elenco contenuto nell'ottavo comma dell'art. 2120 c.c. ugualmente la sentenza impugnata sarebbe stata viziata là dove affermava che la concessione del trattamento di fine rapporto per il motivo addotto in quel caso al dipendente signor B. avrebbe costituito una condizione di miglior favore.

3. Il ricorso non è fondato e non può trovare accoglimento. E' infondato, innanzi tutto, il primo motivo di impugnazione. La L. 29 maggio 1982, n. 297, all'art. 1, ha sostituito l'art. 2120 c.c., ed istituito il nuovo istituto del trattamento di fine rapporto.

L'art. 4 di questa legge dispone, infatti, ai commi 10 ed 11, che "sono abrogate tutte le altre norme di legge o aventi forza di legge che disciplinano le forme di indennità di anzianità, di fine rapporto e di buonuscita, comunque denominate", e che "sono nulle e vengono sostituite di diritto dalle norme della presente legge tutte le clausole dei contratti collettivi regolanti la materia del trattamento di fune rapporto." Le clausole contrattuali difforme sono nulle, le norme precedenti di contenuto differenze restano abrogate; in questo modo è esclusa la stessa possibilità di un assetto diverso, ed il meccanismo stabilito dalla legge di calcolo del trattamento di fine rapporto non è derogabile nè a favore nè in danno dei lavoratori.

Come sottolineato da questa Corte, "la nuova disciplina del trattamento di fine rapporto, introdotta dalla L. n. 297 del 1982, non soltanto si applica a tutte le indennità di fine rapporto comunque denominate e da "qualunque fonte disciplinate" (e quindi anche agli accordi individuali), ma è dotata di efficacia assolutamente inderogabile, sia "in melius" che "in peius". Ciò vale non soltanto nell'ambito dell'autonomia collettiva - alla quale è lasciata ampia discrezionalità solo nella determinazione della retribuzione utile ai fini del calcolo del T.F.R. - ma anche in quello dell'autonomia individuale. Conseguentemente tutti i patti e condizioni che prevedono indennità delle quali non risulta un'autonoma causa che possa consentire il riconoscimento di una funzione diversa dal T.F.R. restano comunque travolti dalla nullità disposta in via generale dalla L. n. 297, art. 4". (Cass. civ., 28 maggio 2003, n. 8480).

4. Il fatto però che non possano essere ammessi patti diversi sulle modalità di calcolo del trattamento di fine rapporto non significa però che il divieto si estenda alla materia diversa delle anticipazioni sul trattamento di fine rapporto che il nuovo testo dell'art. 2120 prevede, ai commi da 6 ad 11, che in taluni casi ed a certe condizioni, il dipendente possa ottenere dal datore di lavoro.

La disciplina inderogabile concerne le modalità di determinazione del trattamento di fine rapporto, la misura di esso, ed esse soltanto, ma non le anticipazioni.

In questa materia sono ammissibili, sia a livello collettivo che a livello individuale, condizioni di miglior favore in favore dei lavoratori.

L'ultimo comma dell'art. 2120 c.c. dispone, infatti, espressamente che "condizioni di miglior favore possono essere previste dai contratti collettivi o da patti individuali. I contratti collettivi possono altresì stabilire criteri di priorità per l'accoglimento delle richieste di anticipazione." Come risulta anche dal riferimento ai criteri di priorità nell'accoglimento delle richieste, questa norma di ampliamento si riferisce proprio alle anticipazioni, nè si vede a che cosa altro potrebbe essere applicata.

Questa Corte ha sottolineato a questo proposito che "l'ultimo comma dell'art. 2120 c.c., per il suo contenuto e la sua collocazione, si riferisce esclusivamente al regime generale delle anticipazioni che il prestatore di lavoro può ottenere sul trattamento di fine rapporto, della cui disciplina costituisce una sorta di norma di chiusura", ma che "non può essere interpretata come assenso alla derogabilità in melius del trattamento di fine rapporto." (Cass. civ., primo agosto 1998, n. 7546).

5. Anche l'analisi degli atti parlamentari conferma che quella generale del trattamento di fine rapporto e delle sue modalità di calcolo e quella, invece, dell'anticipazione del trattamento di fine rapporto, costituiscano discipline separate che regolano questioni differenti, anche se collegate, e che non vi sono ragioni perchè il carattere inderogabile della prima si estenda anche alla seconda.

I diversi progetti di legge che hanno preceduto la L. 29 maggio 1982, n. 297, e che ne hanno anticipato nelle linee generali, ed in gran parte, quello che sarebbe divenuto il suo testo definitivo, sono suddivisi in articoli distinti per i vari istituti (o, se si vuole, per i diversi profili dei singoli istituti), e prevedevano l'istituto dell'anticipazione in un apposito separato articolo.

Il disegno di legge governativo n. 1830 presentato alla Presidenza del Senato della Repubblica il 17 marzo 1982, regolava nell'articolo 4 il nuovo istituto dell'anticipazione, di cui prefigurava la medesima disciplina che è stata trasfusa, con lievi modifiche migliorative di carattere non strutturale, in quella definitiva, nei commi da 6 ad 11 del testo dell'art. 2120 c.c., e; per quanto ora interessa era previsto fin da allora che "condizioni di miglior favore possono essere previste dai contratti collettivi o da patti individuali." Nella relazione governativa che accompagnava il progetto di legge veniva sottolineato che "viene infine previsto che i contratti collettivi e i patti individuali possano prevedere limiti più ampi nella corresponsione delle anticipazioni. Tale norma tende in primo luogo a consentire un'eventuale evoluzione dell'istituto in base al consenso delle parti sociali e in secondo luogo a non porre impedimenti legali (come esistono invece nelle vigente normativa dell'indennità di anzianità) alla disponibilità volontaria con il consenso dell'imprenditore. " La medesima suddivisione in articoli del progetto originario, come pure la collocazione dell'istituto dell'anticipazione nell'art. 4 ed il testo di questo ultimo, rimanevano invariati nella successiva proposta della prima commissione permanente (affari costituzionali) del Senato della Repubblica.

A sua volta anche il disegno di L. n. 1701, di iniziativa dei senatori A. ed altri, assegnava un articolo specifico, questa volta il 6, alle anticipazioni, di cui dettava una disciplina dettagliata, prevedendo, per quel concerne la problematica ora in esame, che "i prestatori di lavoro (...) possono chiedere anticipazioni sulle indennità di anzianità. I termini, le modalità e la quantità delle anticipazioni sono disciplinate dai contratti collettivi di lavoro. "Il disegno di L. n. 1830 veniva approvato dal Senato della Repubblica, con lievi modifiche, come n. 1830-B, nella seduta del 24 aprile 1982 (1830) e modificato dalla Camera dei deputati nella seduta del 25 maggio 1982 (3365). La Camera dei deputati effettuava alcune modifiche, e, in particolare, trasfondeva gli articoli 1, 2, 3, 4, 5 e 7 del testo trasmesso dal Senato in un unico articolo, il primo, in cui inseriva i nuovi testi di ben tre articoli del codice civile, gli artt. 2120, 2121 e il 2776 c.p.c..

Nell'ambito del nuovo testo dell'art. 2120 c.c. venivano riportati, con modifiche, i primi quattro articoli del testo del Senato, compreso l'art. 4 sulle anticipazioni, la cui disciplina rimaneva però invariata salvo la precisazione che "i contratti collettivi possono altresì stabilire criteri di priorità per l'accoglimento delle richieste di anticipazione." In questo modo sono state riunite in un solo articolo, il primo, tutte le modificazioni da apportare al codice civile (ed esse soltanto).

La diversa tecnica legislativa così adottata, di trasfusione di norme e di profili all'interno di un unico articolo, non ha modificato però, nè poteva modificare, l'autonomia che i singoli istituti avevano, e continuano ad avere, sia dal punto di vista logico che dal punto vista strettamente giuridico: quella delle anticipazioni sul trattamento di fine rapporto costituisce una disciplina distinta rispetto a quella più generale del trattamento di fine rapporto con la determinazione delle sue modalità di calcolo, e, di conseguenza, l'inderogabilità di questa ultima non incide sulla disciplina delle anticipazioni che, invece, è derogabile per accordo tra le parti, adottato a livello collettivo oppure a livello individuale.

6. Per quanto concerne la ampiezza e la portata della previsione delle "condizioni di miglior favore", giova ricordare la sentenza 5 aprile 1991, n. 142, della Corte Costituzionale (dichiarativa di parziale illegittimità della norma), là dove si osserva come la norma in questione "ponga soltanto le condizioni minime per l'accesso dei lavoratori al beneficio dell'anticipazione, condizioni che possono essere derogate con clausole di miglior favore poste dalla contrattazione collettiva". Di conseguenza possono essere derogati anche dai patti individuali, stante la esplicita indicazione normativa contenuta nell'ultimo comma dell'art. 2120 c.c.. In questo stesso senso - trattarsi cioè di condizioni "minime" - si è pure espressa autorevole dottrina, facendo riferimento alla discussione in aula, nel corso dei lavori parlamentari, sul punto di un accordo, sul medesimo significato dell'espressione, intervenuto tra i membri del Comitato ristretto della Commissione Lavoro, incaricato della redazione del testo unificato della nuova normativa.

Tale interpretazione, che il Collegio condivide, consente dunque di comprendere tra le "condizioni di miglior favore" anche quella oggetto del patto individuale per cui è causa. Non può, poi, trovare ingresso nel presente giudizio - siccome non prospettata da alcuna delle parti e, del resto, nemmeno accompagnata da idonei accertamenti - la questione, da accennarsi soltanto in via teorica presentando sotto tale profilo una qualche rilevanza, se le anzidette condizioni di miglior favore possano trovare un limite, per il singolo lavoratore, nell'analogo contestuale diritto alle anticipazioni che pure spetta agli altri dipendenti; e ciò in considerazione della previsione del settimo comma (dello stesso art. 2120 c.c.) che stabilisce una limitazione annuale delle anticipazioni accoglibili alle aliquote del dieci per cento degli aventi titolo e, comunque, del quattro per cento del numero totale dei dipendenti.

7. Va rilevato, infine, per completezza, che se, in ipotesi, non avesse costituito un'anticipazione sul trattamento di Fine rapporto, una specifica erogazione come quella di che trattasi - effettuata da parte della ditta Il Servizio s.r.l. al dipendente B.R. per le spese funerarie a seguito del decesso della moglie - non essendo corrisposta a fronte di una prestazione o di una specifica previsione negoziale non poteva ragionevolmente costituire una posta contributiva da assoggettare a contribuzione previdenziale, ma piuttosto un prestito di carattere personale erogato a fronte della garanzia del (futuro) trattamento di fine rapporto.

8. Il secondo motivo di impugnazione è anch'esso infondato.

L'Istituito assicuratore lamenta, in sostanza, che la sentenza non avrebbe motivato sulle ragioni per le quali la concessione dell'anticipazione sul trattamento di fine rapporto per il motivo addotto dal signor B. avrebbe costituito una condizione di miglior favore.

Il dato però è di immediata evidenza, e perciò non richiedeva una motivazione particolare.

In sostanza la motivazione è implicita nella sentenza, nel senso che la concessione dell'anticipo anche per la ragione specifica per la quale il dipendente l'aveva richiesta costituiva una oggettiva condizione di miglior favore proprio perchè ampliava a beneficio del lavoratore la previsione della legge.

9. Il ricorso perciò deve essere rigettato perchè infondato.

Le spese seguono la soccombenza in danno dell'Inps e vengono liquidate nella misura indicata in dispositivo.

giovedì 18 luglio 2019

Quali sono le categorie dei lavoratori dello spettacolo?


In forza dell'art. 3 comma 1 del DLTCPS 16/07/1947, n. 708 


Sono obbligatoriamente iscritti all'Ente tutti gli appartenenti alle seguenti categorie di qualsiasi nazionalità: 

1) artisti lirici;
2) attori di prosa, operetta, rivista, varietà ed attrazioni, cantanti di musica leggera, presentatori, disc-jockey ed animatori in strutture ricettive connesse all'attività turistica; (10)
3) attori e generici cinematografici, attori di doppiaggio cinematografico;
4) registi e sceneggiatori teatrali e cinematografici, aiuto registi, dialoghisti ed adattatori cinetelevisivi; 
5) organizzatori generali, direttori, ispettori, segretari di produzione cinematografica, cassieri, segretari di edizione; 
6) direttori di scena e doppiaggio;
7) direttori d'orchestra e sostituti;
8) concertisti e professori d'orchestra, orchestrali e bandisti; 
9) tersicorei, coristi, ballerini, figuranti, indossatori e tecnici addetti alle manifestazioni di moda; 
10) amministratori di formazioni artistiche;
11) tecnici del montaggio, del suono, dello sviluppo e stampa;
12) operatori di ripresa cinematografica e televisiva, aiuto operatori e maestranze cinematografiche, teatrali e radio televisive; 
13) arredatori, architetti, scenografi, figurinisti teatrali e cinematografici;
14) truccatori e parrucchieri;
15) macchinisti pontaroli, elettricisti, attrezzisti, falegnami e tappezzieri;
16) sarti;
17) pittori, stuccatori e formatori;
18) artieri ippici;
19) operatori di cabine, di sale cinematografiche;
20) impiegati amministrativi e tecnici dipendenti dagli enti e imprese esercenti pubblici spettacoli, dalle imprese radiofoniche e televisive, dalle imprese della produzione cinematografica, del doppiaggio e dello sviluppo e stampa; maschere, custodi e personale di pulizia dipendente dagli enti ed imprese soprannominati; 
21) impiegati ed operai dipendenti dalle case da gioco, dagli ippodromi e dalle scuderie dei cavalli da corsa e dai cinodromi; prestatori d'opera addetti ai totalizzatori, o alla ricezione delle scommesse, presso gli ippodromi e cinodromi, nonché presso le sale da corsa e le agenzie ippiche; addetti agli impianti sportivi; dipendenti dalle imprese di spettacoli viaggianti; 
22) calciatori ed allenatori di calcio; 
23) lavoratori dipendenti dalle imprese esercenti il noleggio e la distribuzione dei films; 
23-bis) lavoratori autonomi esercenti attività musicali




In forza dell'adeguamento del DM 15 marzo 2005




Le categorie dei lavoratori assicurati obbligatoriamente presso l'Ente nazionale di previdenza e assistenza dei lavoratori dello spettacolo sono adeguate secondo la seguente elencazione:

1) artisti lirici, cantanti di musica leggera, coristi, vocalisti e suggeritori del coro, maestri del coro, assistenti e aiuti del coro;

2) attori di prosa, allievi attori, mimi, attori cinematografici o di audiovisivi, attori di doppiaggio, attori di operetta, rivista, fotoromanzi, varietà ed attrazioni, imitatori, contorsionisti, artisti del circo, marionettisti e burattinai, acrobati e stunt man, ipnotizzatori, illusionisti e prestigiatori, suggeritori teatrali, cinematografici e di audiovisivi, generici e figuranti;

3) presentatori, disc-jockey, animatori in strutture turistiche e di spettacolo;

4) registi teatrali, cinematografici o di audiovisivi, aiuto-registi teatrali, cinematografici o di audiovisivi, casting director, sceneggiatori teatrali, cinematografici o di audiovisivi, soggettisti, dialogisti ed adattatori cinetelevisivi o di audiovisivi;

5) direttori della fotografia e light designer;

6) direttori, ispettori, amministratori e segretari di produzione, responsabili di edizione della produzione cinematografica e televisiva, segretari di edizione, cassieri di produzione, organizzatori generali, amministratori di produzione cinematografica e audiovisiva;

7) direttori di scena, direttori di doppiaggio, assistenti di scena e di doppiaggio, location manager;

8) compositori, direttori d'orchestra, sostituti direttori d'orchestra, maestri collaboratori, maestri di banda, professori d'orchestra, consulenti assistenti musicali, concertisti e solisti, orchestrali anche di musica leggera, bandisti;

9) coreografi e assistenti coreografi, ballerini e tersicorei, figuranti lirici, cubisti, spogliarellisti, figuranti di sala, indossatori, fotomodelli;

10) amministratori di formazioni artistiche, organizzatori teatrali, amministratori e segretari di compagnie teatrali;

11) tecnici del montaggio e del suono, tecnici di sviluppo, stampa, luci, scena, altri tecnici della produzione cinematografica del teatro di audiovisivi e di fotoromanzi, tecnici addetti alle manifestazioni di moda, sound designer, tecnici addetti agli effetti speciali, maestri d'armi, operatori di ripresa cinematografica o audiovisiva, aiuto operatori di ripresa cinematografica o audiovisiva, video-assist, fotografi di scena, documentalisti audiovisivi;

12) scenografi, story board artist, bozzettisti, creatori di fumetti, illustrazioni e disegni animati;

13) arredatori, architetti;

14) costumisti, modisti e figurinisti teatrali cinematografici o di audiovisivi, sarti, truccatori, parrucchieri;

15) maestranze cinematografiche, teatrali o di imprese audiovisive (macchinisti, pontaroli, elettricisti, attrezzisti, falegnami, tappezzieri, pittori, decoratori, stuccatori, formatori e autisti scritturati per produzione, gruppisti);

16) operatori di cabina di sale cinematografiche;

17) impiegati amministrativi e tecnici dipendenti dagli enti ed imprese esercenti pubblici spettacoli, dalle imprese radiofoniche, televisive o di audiovisivi, dalle imprese della produzione cinematografica, del doppiaggio e dello sviluppo e stampa, maschere, custodi, guardarobieri, addetti alle pulizie e al facchinaggio dipendenti dagli enti ed imprese sopra nominati, autisti alle dipendenze di imprese dello spettacolo;

18) artieri ippici;

19) impiegati e operai dipendenti dalle case da gioco, sale scommesse, sale giochi, ippodromi, scuderie di cavalli da corsa e cinodromi, prestatori d'opera addetti ai totalizzatori o alla ricezione delle scommesse, presso gli ippodromi e cinodromi, nonché presso le sale da corsa e le agenzie ippiche;

20) impiegati, operai, istruttori e addetti agli impianti e circoli sportivi di qualsiasi genere, palestre, sale fitness, stadi, sferisteri, campi sportivi, autodromi;

21) impiegati e operai dipendenti delle imprese di spettacoli viaggianti;

22) direttori tecnici, massaggiatori, istruttori e i dipendenti delle società sportive;

23) atleti, allenatori, direttori tecnico-sportivi e preparatori atletici delle società del calcio professionistico e delle società sportive professionistiche;

24) lavoratori dipendenti dalle imprese esercenti il noleggio e la distribuzione dei films;

25) lavoratori autonomi esercenti attività musicali.

mercoledì 17 luglio 2019



Come è disciplinato il certificato di agibilità dei lavoratori ex Enpals?




Art. 10 DLCPS 708 del 1947




L'Ente rilascerà all'impresa un certificato contenente le indicazioni comprese nelle denunzie di cui al precedente articolo.


Il rilascio del certificato sarà subordinato all'adempimento da parte dell'impresa degli obblighi posti dalla legge a suo carico. 


[Nel caso in cui, all'atto della richiesta del certificato di agibilità, l'impresa risulti inadempiente agli obblighi come sopra, e nel caso in cui l'impresa presenti, per la prima volta, la denuncia di cui all'art. 9, il rilascio del certificato di agibilità sarà subordinato alla presentazione di una garanzia, nella forma e nell'ammontare che saranno determinati dal Comitato esecutivo dell'Ente. ]

[Il pagamento delle sovvenzioni, contributi e premi, disposti dallo Stato a favore di imprese o enti pubblici e privati che esercitino attività nel campo dello spettacolo, sarà effettuato dietro esibizione di una apposita dichiarazione dell'ente in cui si attesti che le imprese e gli enti non si siano resi inadempienti nei confronti dell'ente stesso. ]

Il certificato dovrà essere esibito ad ogni richiesta dei funzionari incaricati dell'accertamento e della esazione dei tributi.

martedì 16 luglio 2019

Cosa succede se trovo una nuova occupazione mentre percepisco la Naspi?

In forza della circolare 94 del 2015 dell'Inps:


2.10      Nuova attività lavorativa in corso di prestazione

2.10.a Nuovo rapporto di lavoro subordinato

2.10.a.1 In caso di nuova occupazione con contratto di lavoro subordinato del soggetto percettore di NASpI dalla quale derivi un reddito annuale superiore al reddito minimo escluso da imposizione si produce la decadenza dalla prestazione, salvo il caso in cui la durata del rapporto di lavoro non sia superiore a sei mesi. In tale caso  l'indennità è sospesa d'ufficio, sulla base delle comunicazioni obbligatorie, per la durata del rapporto di lavoro. Al termine del periodo di sospensione l'indennità riprende ad essere corrisposta per il periodo residuo spettante al momento in cui l’indennità stessa era stata sospesa.

La contribuzione versata durante il periodo di sospensione è utile ai fini di cui agli articoli 3 e 5 del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 22 ossia, tanto ai fini dei requisiti per l’accesso che ai fini della determinazione della durata di una nuova prestazione di disoccupazione NASpI.

Per l’individuazione del periodo di sospensione si considera la durata di calendario del rapporto di lavoro, prescindendo da ogni riferimento alle giornate effettivamente lavorate.  

Si precisa che la sospensione e la ripresa della prestazione avvengono d’ufficio e che a tal fine è ininfluente l’eventuale cessazione anticipata per dimissioni del lavoratore.

Si precisa infine che la sospensione dell’indennità e la sua ripresa avvengono anche nel caso di un lavoro a tempo determinato della durata massima di sei mesi intrapreso in uno stato estero, sia si tratti di Stati appartenenti all’UE sia si tratti di Stati extracomunitari.

2.10.a.2  In caso di nuova occupazione con contratto di lavoro subordinato del soggetto percettore di NASpI il cui reddito annuale sia inferiore al reddito minimo escluso da imposizione si mantiene la prestazione ridotta alle seguenti condizioni:  

 - il percettore deve comunicare all'INPS, entro un mese dall'inizio dell'attività, il reddito annuo previsto.  
- il datore di lavoro o - qualora il lavoratore sia impiegato con contratto di somministrazione - l’utilizzatore, devono essere diversi dal datore di lavoro o dall’utilizzatore per i quali il lavoratore prestava la sua attività quando è cessato il rapporto di lavoro che ha determinato il diritto alla NASpI e non devono presentare rispetto ad essi rapporti di collegamento o di controllo ovvero assetti proprietari sostanzialmente coincidenti.

Ricorrendo tali condizioni l’indennità NASpI è ridotta di un importo pari all'80 per cento del reddito previsto, rapportato al periodo di tempo intercorrente tra la data di inizio del contratto di lavoro subordinato e la data in cui termina il periodo di godimento dell’indennità o, se antecedente, la fine dell'anno. La riduzione di cui al periodo precedente è ricalcolata d'ufficio al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi.

In caso di mancata comunicazione del reddito, laddove il rapporto di lavoro sia di durata pari o inferiore a sei mesi si applica l’istituto della sospensione di cui all’art. 9 comma 1 del d. lgs. n. 22 del 2015 ; laddove il rapporto sia di durata superiore a sei mesi o a tempo indeterminato si applica l’istituto della decadenza.

La contribuzione versata durante il periodo di mantenimento della NASpI è utile tanto ai fini dei requisiti per l’accesso che ai fini della determinazione della durata di una nuova prestazione di disoccupazione.

2.10.a.3  Il lavoratore titolare di due o più rapporti di lavoro subordinato a tempo parziale che cessi da uno dei detti rapporti a seguito di licenziamento, dimissioni per giusta causa, o di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 40 dell'articolo 1 della legge n. 92 del 2012, e il cui reddito sia inferiore al limite utile ai fini della conservazione dello stato di disoccupazione, ha diritto, ricorrendo tutti gli altri requisiti previsti e a condizione che comunichi all'INPS entro un mese dalla domanda di prestazione il reddito annuo previsto derivante dal o dai rapporti rimasti in essere, di percepire la NASpI, ridotta di un importo pari all'80 per cento del reddito previsto, rapportato al periodo di tempo intercorrente tra la data di inizio del contratto di lavoro subordinato e la data in cui termina il periodo di godimento dell’indennità o, se antecedente, la fine dell'anno. La riduzione di cui al periodo precedente è ricalcolata d'ufficio al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi.
La contribuzione versata durante il periodo di mantenimento della NASpI è utile tanto ai fini dei requisiti per l’accesso che ai fini della determinazione della durata di una nuova prestazione di disoccupazione.

Nelle suddette ipotesi di nuova occupazione con contratto di lavoro subordinato del soggetto percettore di NASpI, la contribuzione relativa all'assicurazione    generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i  superstiti  versata in  relazione  all'attività  di lavoro subordinato non da' luogo ad accrediti contributivi ed  è  riversata integralmente alla  Gestione  prestazioni  temporanee  ai  lavoratori dipendenti, di cui all'articolo 24 della legge n. 88 del 1989.


2.10.b Lavoro autonomo

In caso di svolgimento di attività lavorativa in forma autonoma, di impresa individuale o parasubordinata, dalla quale derivi un reddito inferiore al limite utile ai fini della conservazione dello stato di disoccupazione, il soggetto beneficiario deve informare l'INPS entro un mese dall'inizio dell’attività, o entro un mese dalla domanda di NASpI se l’attività era preesistente, dichiarando il reddito annuo che prevede di trarre da tale attività.

In tal caso l'indennità NASpI è ridotta di un importo pari all'80 per cento dei del reddito previsto, rapportato al periodo di tempo intercorrente tra la data di inizio dell'attività e la data di fine dell'indennità o, se antecedente, la fine dell'anno. La riduzione di cui al periodo precedente è ricalcolata d'ufficio al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi. Nei casi di esenzione dall'obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi, il beneficiario è tenuto a presentare all’INPS un'apposita autodichiarazione concernente il reddito ricavato dall'attività lavorativa entro il 31 marzo dell’anno successivo. Nel caso di mancata presentazione dell'autodichiarazione il lavoratore è tenuto  a  restituire  la  NASpI  percepita  dalla  data  di inizio dell'attività lavorativa in argomento.

Qualora nel corso del periodo di godimento delle indennità il lavoratore, per qualsiasi motivo, ritenesse di dover modificare il reddito dichiarato, dovrà presentare una nuova dichiarazione “a montante” cioè comprensiva del reddito precedentemente dichiarato e delle variazioni a maggiorazione o a diminuzione. In tal caso si procederà a rideterminare, dalla data della nuova dichiarazione, l’importo della trattenuta sull’intero reddito diminuito delle quote già eventualmente recuperate.

La   contribuzione   relativa    all'assicurazione    generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i  superstiti  versata in  relazione  all'attività  lavorativa  autonoma   o   di   impresa individuale non da' luogo ad accrediti contributivi ed  e'  riversata integralmente alla  Gestione  prestazioni  temporanee  ai  lavoratori dipendenti, di cui all'articolo 24 della legge n. 88 del 1989.

2.11  Comunicazione dei redditi presunti in occasione di nuovo anno. Svolgimento di più attività lavorative in concomitanza di percezione della NASpI.

Si precisa che nei casi di svolgimento delle attività lavorative autonome, parasubordinate, subordinate, occasionali in concomitanza di percezione dell’indennità NASpI, qualora quest’ultima coinvolga più anni solari, stante la necessità di disporre di dati necessari per procedere alla riduzione dell’80 per cento della prestazione in funzione del reddito previsto, si rende necessario  quanto segue. All’inizio di ogni nuovo anno di percezione della prestazione successivo al primo il percettore della prestazione dovrà fornire una nuova comunicazione del reddito presunto tramite modello NASpI Com entro il 31 gennaio. La mancata comunicazione del reddito per gli anni di prestazione successivi al primo non determina tuttavia la decadenza dalla prestazione ma la sua sospensione fino all’acquisizione della nuova comunicazione. Sarà cura delle strutture territoriali sollecitare l’adempimento al percettore di NASpI che non vi abbia provveduto.

Si precisa inoltre che, in caso di svolgimento durante la percezione dell’indennità NASpI di più attività lavorative di diversa tipologia (autonome, parasubordinate, subordinate, occasionali) che non superino in ciascuno dei predetti settori i rispettivi limiti di reddito imposti per il mantenimento dello stato di disoccupazione, si dovrà verificare il reddito complessivo previsto derivante dal complesso delle attività e ridurre conseguentemente la prestazione NASpI in misura pari all’ottanta per cento di detto reddito complessivo. Qualora la verifica accerti la presenza di un reddito complessivo proveniente dalla somma dalle attività svolte in vari settori superiore a quello massimo consentito dalle  norme vigenti per il mantenimento dello stato di disoccupazione (euro 8.000), la prestazione NASpI dovrà essere posta in decadenza.


lunedì 15 luglio 2019



Come è disciplinato il lavoro domenicale nel ccnl turismo Confcommercio parte generale?




Articolo 126 – Lavoro domenicale (1) A partire dal 1° gennaio 1991, ai lavoratori che, ai sensi della legge 22 febbraio 1934, n. 370, godano del riposo settimanale in giornata diversa dalla domenica, verrà corrisposta una indennità in cifra fissa pari al dieci per cento della quota oraria della paga base e della contingenza per ciascuna ora di lavoro ordinario effettivamente prestato di domenica.




(2) Relativamente al periodo precedente all'entrata in vigore del trattamento di cui al primo comma del presente articolo, le parti si danno nuovamente reciproco atto di avere tenuto conto di dette prestazioni lavorative domenicali nella determinazione dei trattamenti economici e normativi complessivamente definiti dalla contrattazione collettiva. (3) Sino al 31 dicembre 1990 si conferma la disciplina di cui all'articolo 44 del CCNL 16 febbraio 1987, di seguito riportato. "In relazione a quanto stabilito dalla legge 22 febbraio 1934, n. 370 circa la legittimità del godimento del riposo settimanale in giornata diversa dalla domenica per le attività per le quali il funzionamento domenicale corrisponda a ragioni di pubblica utilità o ad esigenze tecniche quali, appunto, quelle del settore turistico, le parti si danno atto che delle prestazioni lavorative effettuate di domenica se ne è tenuto adeguatamente conto nella determinazione dei trattamenti economici e normativi complessivamente previsti dalla contrattazione collettiva. Le parti, pertanto, riconfermano, sulla base della disciplina contrattuale, la esclusione del riconoscimento ai lavoratori del settore turismo di una ulteriore specifica maggiorazione per il lavoro domenicale".

sabato 13 luglio 2019

Possono essere ripresentate istanze istruttorie in appello?

Cass. 09/07/2019, n. 18410

Nel giudizio di appello la parte può chiedere l'ammissione di prove nuove, ai sensi dell'art. 345 c.p.c. ma non anche riproporre istanze istruttorie espressamente o implicitamente disattese dal giudice di primo grado, senza espressamente censurare, con motivo di gravame, le ragioni per le quali la sua istanza è stata respinta, ovvero dolersi della omessa pronuncia al riguardo.

giovedì 11 luglio 2019

Come deve essere valutata la prevedibilità del danno ex art. 1225 cc?



Cass. 08-07-2019, n. 18282




In tema di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, l'imprevedibilità, alla quale fa riferimento l'art. 1225 c.c., costituisce un limite non all'esistenza del danno, ma alla misura del suo ammontare, che resta limitato a quello astrattamente prevedibile in relazione ad una determinata categoria di rapporti, sulla scorta delle regole ordinarie di comportamento dei soggetti economici e, quindi, secondo un criterio di normalità in presenza delle circostanze di fatto conosciute (Cass. n. 17460 del 2014; v. pure Cass. n. 16763 del 2011). Considerato che l'illegittimo licenziamento è fonte di responsabilità contrattuale e non extracontrattuale (cfr. Cass. n. 8720 del 2004 e Cass. n. 17460 del 2014, cit.), deve aversi riguardo alla prevedibilità dei danni conseguenti all'illegittimità del recesso, costituendo quello della prevedibilità un parametro di legge, in quanto tale oggetto di valutazione da parte del giudice del merito.

7.2. Nello specifico, la motivazione del giudice del gravame è corretta in relazione alla valutazione delle conseguenze dell'inadempimento datoriale, in quanto coerente con i principi di diritto in tema di responsabilità contrattuale, che sicuramente genera una presunzione di imputabilità al debitore, ma non ne determina una responsabilità per danni al di là di quelli prevedibili dal punto di vista della sussistenza di un nesso causale secondo un criterio di ragionevole derivazione dal comportamento inadempiente. Come già precisato, non si tratta di riduzione della misura risarcitoria di legge, ma di determinazione delle conseguenze pregiudizievoli connesse all'illegittimità del licenziamento, sicuramente sussistenti in relazione al perdurante stato di disoccupazione, ma in misura, ritenuta dalla Corte del merito, in modo corretto e conforme ai principi richiamati, congruamente determinata nei limiti di un quadriennio successivo alla risoluzione del rapporto di lavoro.

7.3. La prevedibilità di cui all'art. 1225 c.c. costituisce uno dei criteri di determinazione dell'ambito del danno risarcibile, consistente in un giudizio di probabilità del verificarsi di un futuro danno espresso in astratto, secondo l'apprezzamento della normale diligenza del soggetto responsabile, che deve tenere peraltro conto di circostanze di fatto concretamente conosciute, attenendo la stessa non già al giudizio di responsabilità, bensì al danno considerato nel suo concreto ammontare, nonchè identificandosi con il criterio della regolarità causale, che attribuisce significato giuridico alle conseguenze che possono verificarsi quando lo svolgimento causale ha andamento regolare (v. in tal senso la già citata Cass. n. 17460 del 2014; cfr., tra le altre, Cass. 28.11.2003 n. 18239).

mercoledì 10 luglio 2019

Quando non vi è obbligo di versare l'Irap?





Cass. 04/07/2019, n. 17958




In tema di imposta regionale sulle attività produttive, il presupposto dell'autonoma organizzazione, richiesto dall'art. 2 del D. Lgs. 15 dicembre 1997 n. 446 non ricorre quando il contribuente, responsabile dell'organizzazione, impieghi beni strumentali non eccedenti il minimo indispensabile all'esercizio dell'attività e si avvalga di lavoro altrui non eccedente l'impiego di un dipendente con mansioni esecutive.

martedì 9 luglio 2019

Quando il tempo tuta non deve essere retribuito?


Cass. 13/09/2018, n. 22382

Laddove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo ed il luogo ove indossare la divisa – anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro – la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre solo se tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito.

lunedì 8 luglio 2019

Cosa determina l'intermediazione di manodopera?





Cass. civ. Sez. Unite Sent., 07/02/2018, n. 2990




La declaratoria di nullità dell'interposizione di manodopera per violazione di norme imperative e la conseguente esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato determina, nell'ipotesi in cui per fatto imputabile al datore di lavoro non sia possibile ripristinare il predetto rapporto, l'obbligo per quest'ultimo di corrispondere le retribuzioni al lavoratore a partire dalla messa in mora decorrente dal momento dell'offerta della prestazione lavorativa, in virtù dell'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 29 del d.lgs n. 276 del 2003, che non contiene alcuna previsione in ordine alle conseguenze del mancato ripristino del rapporto di lavoro per rifiuto illegittimo del datore di lavoro e della regola sinallagmatica della corrispettività, in relazione agli artt. 3,36 e 41 Cost.

sabato 6 luglio 2019



In caso di cessione di ramo d'azienda poi ritenuta illegittima e contestuale messa in mora del cedente le retribuzioni erogate dal cessionario liberano il cedente?




Cass. 03/07/2019, n. 17785




In caso di cessione di ramo d'azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all'art. 2112 c.c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell'alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa.




1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2126 e 1223 c.c., per erronea esclusione di detraibilità dell'aliunde perceptum, operante soltanto per le obbligazioni risarcitorie, a fronte della natura retributiva del credito ingiunto in pagamento alla società datrice, per effetto del ripristino del rapporto di lavoro unilateralmente e illegittimamente da questa interrotto (per accertata nullità della cessione del ramo di azienda nel quale egli aveva lavorato) e del suo ingiustificato rifiuto della prestazione lavorativa offerta; essendo poi inconfigurabile un danno risarcibile, avendo egli prestato di fatto la propria attività lavorativa in favore della cessionaria del ramo, comunque meritevole di retribuzione.

2. Con il secondo, egli deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1206 e 1217 c.c., per la costituzione della società datrice in mora credendi, per effetto dell'offerta della prestazione lavorativa, rifiutata illegittimamente senza con ciò incidere sulla natura della prestazione, comunque lavorativa.

3. Con il terzo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 431 c.p.c., per erroneo assorbimento della dedotta esecutività della sentenza, legittimante, in quanto per una parte di natura accertativa (dell'illegittimità del trasferimento di ramo d'azienda), ma per altra di condanna (al ripristino del rapporto di lavoro), la richiesta di decreto ingiuntivo per retribuzioni successivamente maturate.

4. I primi due motivi possono essere congiuntamente esaminati, per evidenti ragioni di stretta connessione.

4.1. Le questioni devolute a questa Corte riguardano: a) la natura, se retributiva ovvero risarcitoria, dei crediti che il lavoratore ha ingiunto in pagamento a Telecom Italia s.p.a. a titolo di emolumenti dovutigli per effetto del mancato ripristino del rapporto da parte della società predetta, nonostante l'emissione di un tale ordine del Tribunale con la sentenza di accertamento della illegittimità della cessione del ramo d'azienda (cui egli era addetto) a HP DCS s.r.l., con decorrenza dalla messa in mora operata dal lavoratore medesimo; b) la detraibilità o meno, una volta tanto accertato, di quanto percepito dal lavoratore a titolo di retribuzione per l'attività prestata alle dipendenze della predetta società, già cessionaria del ramo d'azienda.

5. La prima questione trova soluzione nel senso della natura retributiva e non più risarcitoria (come invece secondo un indirizzo precedente: Cass. 17 luglio 2008 n. 19740; Cass. 9 settembre 2014 n. 18955; Cass. 25 giugno 2018, n. 16694) sulla scorta dell'insegnamento posto recentemente dalle Sezioni unite civili di questa Corte (sent. 7 febbraio 2018, n. 2990).

5.1. Come noto, detta pronuncia ha sancito il seguente testuale principio di diritto:

"in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l'illegittimità e dichiarata l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l'omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera dei committente determina l'obbligo di quest'ultimo di corrispondere le retribuzioni,..., a decorrere dalla messa in mora".

A tale indirizzo è stato riconosciuto valore di diritto vivente sopravvenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza 28 febbraio 20:19, n. 29, anche avuto riguardo alla fattispecie della cessione del ramo d'azienda. Infatti la Corte d'Appello di Roma, sezione lavoro, con ordinanza di rimessione del 2 ottobre 2017, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale del "combinato disposto" degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c., in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU, censurando le citate disposizioni sulla mora del creditore, sul presupposto che limitassero la tutela del lavoratore ceduto - secondo l'interpretazione giurisprudenziale all'epoca accreditata - al risarcimento del danno, anche dopo la sentenza che avesse accertato l'illegittimità o l'inefficacia del trasferimento d'azienda. La Corte costituzionale ha preso atto (al p.to 6.3. del Considerato in diritto) "che l'indirizzo interpretativo, indicato come diritto vivente allorchè sono state proposte le questioni di legittimità costituzionale, risulta disatteso dalla suddetta pronuncia delle Sezioni unite, successiva all'ordinanza di rimessione. Tale pronuncia mira a ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro e consente di risolvere in via interpretativa i dubbi di costituzionalità prospettati". Dalla "qualificazione retributiva dell'obbligazione del datore di lavoro moroso" il Giudice delle leggi ha tratto la conseguenza di "privare di fondamento,..., le questioni di legittimità costituzionale insorte sulla base di un'interpretazione di segno antitetico", spettando "alla Corte rimettente rivalutare la questione interpretativa dibattuta nel giudizio principale, che investe il diritto del lavoratore ceduto, già retribuito dal cessionario, di rivendicare la retribuzione anche nei confronti del cedente".

6. Da tali esiti interpretativi, costituenti premesse che il Collegio non intende rimettere in discussione, occorre necessariamente muovere per la soluzione della seconda questione devoluta a questa Corte. Ovvero se dalle retribuzioni spettanti al lavoratore dal datore di lavoro, che abbia operato un trasferimento di (ramo di) azienda dichiarato illegittimo e che abbia rifiutato il ripristino del rapporto senza una giustificazione, sia detraibile quanto il lavoratore medesimo nello stesso periodo abbia percepito, pure a titolo di retribuzione, per l'attività prestata alle dipendenze dell'imprenditore già cessionario, ma non più tale, una volta dichiarata giudizialmente la non opponibilità della cessione al dipendente ceduto. Infatti, una volta escluso che la richiesta di pagamento del lavoratore abbia titolo risarcitorio, non trova applicazione il principio della compensatio lucri cum damno su cui si fonda la detraibilità dell'aliunde perceptum dal risarcimento.

Si tratta di questione che impegna evidentemente l'esercizio della funzione nomofilattica di questa Corte, a norma dell'art. 375 c.p.c., u.c., come anche richiamato dall'art. 380bis c.p.c., u.c..

6.1. La sua soluzione richiede un'attenta disamina degli effetti realizzati dalla suddetta qualificazione di retribuzione di quanto spettante al lavoratore dal proprio originario datore di lavoro sul corrispettivo ricevuto per l'attività prestata dal soggetto alle dipendenze del quale, pure avendo offerto la propria prestazione al primo, abbia tuttavia continuato a lavorare. E ciò anche per dare conto di un'istintiva perplessità, in realtà frutto di un'equivoca suggestione, in ordine ad una presunta duplicazione indebita di retribuzione a fronte di un'unica attività prestata dal lavoratore, che così conseguirebbe una locupletazione non dovuta.

6.2. Giova allora chiarire subito come soltanto un legittimo trasferimento d'azienda comporti la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all'art. 2112 c.c. che, in deroga all'art. 1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza consenso del ceduto. Ed è evidente che l'unicità del rapporto venga meno, qualora, come appunto nel caso di specie, il trasferimento sia dichiarato invalido, stante l'instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore "continui" di fatto a lavorare.

D'altro canto, è insegnamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità che l'unicità del rapporto presupponga la legittimità della vicenda traslativa regolata dall'art. 2112 c.c.. Sicchè, accertatane l'invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l'illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale). In sintesi, il trasferimento del medesimo rapporto si determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall'art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell'originario cedente (cfr. da ultimo: Cass. 28 febbraio 2019, n. 5998; in senso conforme, tra le altre: Cass. 18 febbraio 2014, n. 13485; Cass. 7 settembre 2016, n. 17736; Cass. 30 gennaio 2018, n. 2281, le quali hanno pure ribadito il consolidato orientamento circa l'interesse ad agire del lavoratore ceduto nonostante la prestazione di lavoro resa in favore del cessionario).

6.3. Si potrebbe però obiettare come, a fronte di una duplicità di rapporti (uno, de iure, ripristinato nei confronti dell'originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l'altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa), questa resti (apparentemente) unica.

In proposito occorre invece osservare come, accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d'azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve ne sia un'altra giuridicamente resa in favore dell'originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto.

Ed infatti, al dipendente la retribuzione spetta tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (Cass. 23 novembre 2006, n. 24886; Cass. 23 luglio 2008, n. 20316). Una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l'obbligo di pagare la controprestazione retributiva. Non si dubita, ad esempio, che in base agli artt. 1218 e 1256 c.c. la "sospensione unilaterale" del rapporto da parte del datore di lavoro sia giustificata ed esoneri il medesimo datore dall'obbligazione retributiva solo quando non sia imputabile a fatto dello stesso (Cass. 22 ottobre 1999, n. 11916; Cass. 10 aprile 2002, n. 5101; Cass. 16 aprile 2004, n. 7300; Cass. 9 agosto 2004, n. 15372).

A tale proposito vale la pena rammentare pure il tradizionale orientamento (formatosi antecedentemente alla modifica della L. n. 300 del 1970, art. 18 con la L. n. 108 del 1990) secondo il quale la pronuncia che dichiarava l'illegittimità del licenziamento e ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro faceva insorgere l'obbligo del datore, che non ottemperasse a tale ordine, di corrispondere la retribuzione dovuta, in ragione della riaffermata vigenza della lex contractus e della ininterrotta continuità del rapporto di lavoro, con la correlativa equiparazione, alla effettiva utilizzazione delle energie lavorative del dipendente, della mera utilizzabilità di esse, in relazione alla disponibilità del lavoratore a riprendere servizio (Cass. S.U. 13 aprile 1988, n. 2925).

6.4. La conseguenza che si è tratta è pure coerente con il diritto generale delle obbligazioni, che, non a caso, ha collocato, nel capo (II del Titolo I del libro IV) "Dell'adempimento delle obbligazioni", la disciplina della mora del creditore (sezione III). Per comprensibili ragioni di diversa coercibilità, essa differenzia le obbligazioni aventi ad oggetto prestazioni fungibili da quelle relative a prestazioni infungibili (cui evidentemente appartengono quelle inerenti la prestazione di lavoro).

Sicchè, per le prime la costituzione in mora credendi (e la conseguente offerta di restituzione) vale unicamente a stabilire il momento di decorrenza degli effetti della mora, specificamente indicati dall'art. 1207 c.c., ma non anche a determinare la liberazione del debitore, che la legge subordina (art. 1210 c.c.) all'esecuzione del deposito accettato dal creditore o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato (Cass. 29 aprile 2014, n. 8711). Per le seconde, dovendo l'adempimento della prestazione di fare essere preceduto da atti preparatori, la cui esecuzione richiede la collaborazione del creditore, basta invece che il debitore, che intenda conseguire la liberazione dal vincolo, costituisca il primo in mora mediante l'intimazione prevista dall'art. 1217 c.c.: integrando insindacabile valutazione di merito l'accertamento della necessità della collaborazione del creditore, affinchè il debitore possa adempiere la propria obbligazione di fare (Cass. 12 luglio 1968, n. 2474).

Dai principi di diritto suenunciati discende allora, siccome coerente precipitato logico-giuridico, che, mediante l'intimazione del lavoratore all'impresa cedente di ricevere la prestazione con modalità valida ai fini della costituzione in mora credendi del medesimo datore (il quale la rifiuti senza giustificazione), il debitore del facere infungibile abbia posto in essere quanto è necessario, secondo il diritto comune, per far nascere il suo diritto alla controprestazione del pagamento della retribuzione, equiparandosi la prestazione rifiutata alla prestazione effettivamente resa per tutto il tempo in cui il creditore l'abbia resa impossibile non compiendo gli atti di cooperazione necessari.

Sicchè da quel momento l'attività lavorativa subordinata resa in favore del non più cessionario equivale a quella che il lavoratore, bisognoso di occupazione, renda in favore di qualsiasi altro soggetto terzo: così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di lavoro presso il quale il lavoratore impiegasse le sue energie lavorative si andrebbe a cumulare con quella dovuta dall'azienda cedente, parimenti anche quella corrisposta da chi non è più da considerare cessionario, e che compensa un'attività resa nell'interesse e nell'organizzazione di questi, non va detratta dall'importo della retribuzione cui il cedente è obbligato.

Nè tale prestazione lavorativa in fatto resa per un terzo esclude una valida offerta di prestazione all'originario datore (Cass. 8 aprile 2019, n. 9747), considerato che, una volta che l'impresa cedente, costituita in mora, manifestasse la volontà di accettare la prestazione, il lavoratore potrebbe scegliere di rendere la prestazione non più soltanto giuridicamente, ma anche effettivamente, in favore di essa e, ove ciò non facesse, verrebbero automaticamente meno gli effetti della mora credendi.

7. Acclarato che dopo la sentenza che ha dichiarato insussistenti i presupposti per il trasferimento del ramo d'azienda, in uno alla messa in mora operata del lavoratore, vi è l'obbligo dell'impresa (già) cedente di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno, non vi è norma di diritto positivo che consenta di ritenere che tale obbligazione pecuniaria possa considerarsi, in tutto o in parte, estinta per il pagamento della retribuzione da parte dell'impresa originaria destinataria della cessione.

7.1. Invero la più approfondita disamina giuridica qui svolta induce al superamento di un primo orientamento di ritenuta detraibilità,, dal credito retributivo spettante al lavoratore validamente offerente all'originario datore la propria prestazione ingiustificatamente rifiutata, della retribuzione percepita dal datore (già cessionario), sul presupposto dell'unicità di prestazione lavorativa e di obbligazione, con la qualificazione del relativo pagamento alla stregua di un adempimento del terzo, a norma dell'art. 1180 c.c. (Cass., sez. VI, 31 maggio 2018, n. 14019; Cass., sez. VI, 1 giugno 2018, n. 14136: p.to 6 in motivazione).

Già si sono illustrate le ragioni di un'effettiva duplicità dei rapporti in essere: il nuovo datore di lavoro (già cessionario nel trasferimento dichiarato illegittimo) è l'utilizzatore effettivo (e non meramente apparente come nelle fattispecie, di certo differenti, di interposizione nelle prestazioni di lavoro) dell'attività del lavoratore cui in via corrispettiva corrisponde la retribuzione dovuta e così adempie ad un'obbligazione propria, non sicuramente estinguendo un debito altrui (come nel caso di interposizioni fittizie: Cass. 3 settembre 2015, n. 17516; Cass. 31 luglio 2017, n. 19030). Sicchè l'esistenza di un debito proprio, generato dall'obbligo di retribuire le prestazioni del lavoratore ceduto di cui ha concretamente fruito, esclude in radice la possibilità di configurare un adempimento in qualità di terzo da parte del destinatario dell'originaria cessione; in relazione all'adempimento del terzo ex art. 1180 c.c., infatti, si è ritenuto che deve mancare nello schema causale tipico la controprestazione in favore di chi adempie, pagando il terzo per definizione un debito non proprio e non prevedendo la struttura del negozio alcuna attribuzione patrimoniale a suo favore (Cass. s.u. 18 marzo 2010, n. 6538; Cass. 7 marzo 2016, n. 4454; Cass. 6 ottobre 2017, n. 23439), mentre nella specie il non più cessionario compensa un'attività lavorativa direttamente resa a vantaggio dell'impresa di cui è titolare.

7.2. Parimenti non sono applicabili le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 276 del 2003 laddove all'art. 27, comma 2 (previsto in materia di somministrazione irregolare ma richiamato anche dall'art. 29, comma 3bis, in tema di appalto illecito) stabilisce che "tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata".

Il meccanismo che consente l'incidenza liberatoria degli adempimenti comunque posti in essere dal somministratore o dall'appaltatore è stato richiamato dalla sentenza n. 2990 del 2018 delle Sezioni unite limitatamente ai "pagamenti effettuati a vantaggio del soggetto che ha utilizzato effettivamente la prestazione" (Cass. 31 ottobre 2018, n. 27976).

Il testo delle disposizioni, che espressamente si riferisce alle fattispecie della somministrazione e dell'appalto, non ne consente l'applicazione diretta alla diversa ipotesi del trasferimento d'azienda.

Il dato testuale che connette l'effetto liberatorio del pagamento esclusivamente in favore del soggetto che "ha effettivamente utilizzato la prestazione" esclude altresì ogni interpretazione estensiva (men che meno analogica) che consenta l'applicazione al caso della cessione di ramo d'azienda, ove l'impresa cedente, che dovrebbe beneficiare del pagamento altrui, non utilizza affatto la prestazione del lavoratore ceduto. E' che i fenomeni interpositori rappresentati dalla somministrazione irregolare o dall'appalto illecito risultano strutturalmente incomparabili con le cessioni di ramo d'azienda dichiarate illegittime nei confronti del lavoratore ceduto. Nel primo caso il soggetto che ha utilizzato le prestazioni è il datore di lavoro reale al quale è imputabile la titolarità dell'unico rapporto, mentre nel secondo caso l'impresa cedente non è il soggetto che utilizza la prestazione, invece effettuata a vantaggio di una diversa organizzazione d'impresa che diventa titolare di un altro rapporto e che paga un debito proprio.

8. La conclusione raggiunta è coerente con l'interpretazione costituzionalmente orientata propugnata dalla sentenza della Corte Cost. 11 novembre 2011, n. 303, posta a fondamento del revirement giurisprudenziale operato da Cass. S.U. n. 2990/18 cit.. La Consulta, scrutinando la legittimità costituzionale della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7 ha tra l'altro affermato: "il danno forfettizzato dall'indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto "intermedio", quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto"; sicchè, "a partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva. Diversamente opinando, la tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato sarebbe completamente svuotata. Se, infatti, il datore di lavoro, anche dopo l'accertamento giudiziale del rapporto a tempo indeterminato, potesse limitarsi al versamento di una somma compresa tra 2,5 e 12 mensilità di retribuzione, non subirebbe alcun deterrente idoneo ad indurlo a riprendere il prestatore a lavorare con sè. E lo stesso riconoscimento della durata indeterminata del rapporto da parte del giudice sarebbe posto nel nulla" (sub 3.3 del Considerato in diritto).

E questa interpretazione, che fa perno sull'esigenza di effettività della giurisdizione come valore costituzionalmente tutelato, è con altrettanto vigore ribadita dalla sentenza di questa Corte a sezioni unite n. 2990/2018 più volte citata, che ha trovato autorevole conferma nella Corte costituzionale che, con la sentenza n. 29 del 2019, in proposito ha affermato: "Secondo le Sezioni unite, una prospettiva costituzionalmente orientata impone di rimeditare la regola della corrispettività nell'ipotesi di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa regolarmente offerta. Il riconoscimento di una tutela esclusivamente risarcitoria diminuirebbe, difatti, l'efficacia dei rimedi che l'ordinamento appresta per il lavoratore. Sul datore di lavoro che persista nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dopo l'accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, continua dunque a gravare l'obbligo di corrispondere la retribuzione.

Nella ricostruzione delle Sezioni unite la disciplina del licenziamento illegittimo, che ascrive all'area del risarcimento del danno le indennità dovute dal datore di lavoro, si configura in termini derogatori e peculiari. Acquistano per contro valenza generale le affermazioni contenute nella sentenza n. 303 del 2011 di questa Corte, relative alle conseguenze dell'illegittima apposizione del termine (L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5,...). Infatti, come precisato nella suddetta pronuncia, per effetto della sentenza che rileva il vizio della pattuizione del termine e instaura un contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore, "in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in caso di mancata riammissione effettiva" (sentenza n. 303 del 2011, punto 3.3.1. del Considerato in diritto). Da tali principi le Sezioni unite evincono, con portata tendenzialmente generale, l'obbligo del datore di lavoro moroso di corrispondere le retribuzioni al lavoratore che non sia stato riammesso in servizio, neppure dopo la pronuncia del giudice che abbia ripristinato la vigenza dell'originario rapporto di lavoro. In questa prospettiva, riveste un ruolo primario l'accertamento del giudice, che ristabilisce la lex contractus, accertamento che non può essere sminuito nella sua forza cogente dal protrarsi dell'inosservanza" (sub 5 del Considerato in diritto).

Al termine del percorso argomentativo svolto, si comprende allora come la soluzione della questione devoluta sia l'inevitabile approdo di un coerente percorso logico-giuridico di effettività del dictum giurisdizionale, nella sua soggezione esclusivamente alla legge (art. 101 Cost., comma 2), che non ammette svuotamenti di tutela per la mancanza di ogni deterrente idoneo ad indurre il datore di lavoro a riprendere il prestatore a lavorare ovvero affievolimenti della forza cogente della pronuncia giudiziale che risulterebbe in concreto priva di efficacia per il protrarsi dell'inosservanza senza reali conseguenze. Ciò senza avallare alcuna indebita duplicazione di retribuzione, nè tanto meno veicolare strumenti di coercizione indiretta (neppure applicandosi, per espressa previsione, alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato ed ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, regolati dall'art. 409 c.p.c., l'art. 614bis c.p.c., come novellato dal D.L. n. 83 del 2015, art. 13 conv. con modif. dalla L. n. 132 del 2005, che ne ha mutato la rubrica originaria con quella di "Misure di coercizione indiretta", ampliandone l'ambito applicativo, ricomprendendovi oltre agli obblighi di fare infungibile, anche gli obblighi di fare, non fare e di dare, diversi dal pagamento di somme di denaro) finalizzati ad una tutela satisfattoria a fronte di un esercizio improprio delle prerogative datoriali.

9. Conclusivamente deve essere affermato il seguente principio di diritto:

"In caso di cessione di ramo d'azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all'art. 2112 c.c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell'alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa".