giovedì 29 novembre 2018

In caso di azione di accertamento della legittimità di licenziamento promossa dal datore di lavoro occorre utilizzare il cd rito Fornero?


Cass. 23/11/2018, n. 30433

In tema di rito del lavoro, tutte le controversie aventi ad oggetto i licenziamenti che ricadono nell'ambito di tutela dell'art. 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300, anche se su impulso di parte datoriale, sono assoggettate alla disciplina dell'art. 1, commi 48 e ss. della L. 28 giugno 2012, n. 92, "ratione temporis" applicabile. In caso di azione del datore di lavoro di accertamento della legittimità del recesso intimato, il lavoratore, nella fase sommaria, può proporre, con la memoria di costituzione, domanda di tutela ai sensi dell'art. 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300; in tale evenienza, spetta al giudice di merito garantire l'effettività del contraddittorio.

mercoledì 28 novembre 2018

Il licenziamento per mancato superamento del patto di prova deve essere effettuato in forma scritta?

Cass. civ. Sez. lavoro, 12/12/2017, n. 29753

Per il licenziamento durante il periodo di prova non è richiesto per legge l'atto scritto. L'art. 10 della legge n. 604 del 1966, n. 604 prevede che le garanzie di cui alla stessa legge per il caso di licenziamento si applichino ai lavoratori in prova soltanto dal momento in cui l'assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro e, perciò, esclude che durante il periodo di prova il licenziamento del lavoratore debba avvenire con la forma scritta, come è disposto, invece, dalla regola generale di cui ai precedente articolo 2 della medesima legge.

martedì 27 novembre 2018

L'attività libero professionale intra moenia svolta dai medici è assoggettabile ad Irap?


CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 giugno 2017, n. 15898.

Ritenuto in fatto

Nella controversia concernente l’impugnazione da parte di P.C., medico ospedaliero, del silenzio rifiuto opposto ad istanza di rimborso dell’IRAP, versata negli anni dal 2005 al 2008,

la C.T.R. del Piemonte, con la sentenza indicata in epigrafe, riformava la decisione di primo grado che aveva accolto il ricorso limitatamente alle annualità dal 2006 al 2008, e dichiarava inammissibile il ricorso del contribuente in quanto l’attività libero-professionale intramuraria… era attività sanitaria svolta dalle aziende sanitarie locali ..per cui soggetto passivo era PA.S.L. e non il medico operante in regime intramoenia.

Avverso la sentenza ricorre, con due motivi, il contribuente.

L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

A seguito di deposito di relazione ex art. 380 bis c.p.c. e di fissazione dell’adunanza della Corte in camera di consiglio, ritualmente comunicate, il ricorrente ha depositato memoria.

Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della presente motivazione in forma semplificata.

Considerato in diritto
Con il primo motivo il ricorrente – premesso di avere svolto l’attività di lavoratore dipendente presso l’Azienda ospedaliera Città della Salute e della Scienza di Torino nonché attività di medico in regime intra moenia e che dai compensi percepiti in ragione di tale ultima attività l’Azienda ospedaliera aveva operato ritenute IRAP – deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 50, 1^ c., lett. E) e dell’art. 88, 2^ c., Dpr 917/1986 nonché dell’art. 2 del d.lgs. 446/1997 e dell’art. 38 2^ c., Dpr 602/1973.

In particolare, secondo la prospettazione difensiva (del contribuente ricorrente), la Commissione regionale aveva errato laddove aveva ritenuto che l’attività libero-professionale intramuraria sia attività sanitaria svolta dall’aziende sanitarie locali mentre era l’attività libero professionale svolta dal medico ad essere assoggettata, seppur illegittimamente, all’imposizione IRAP e non quella dell’azienda sanitaria.
Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, 1 comma, n.5, cpc, l’omesso esame da parte della C.T.R. del fatto, risultante dalle certificazioni rilasciate dall’Azienda ospedaliera, costituito dalle quote di IRAP trattenute sul compenso del medico in relazione all’attività libero professionale svolta.
Il primo motivo è infondato. Questa Corte (v. Cass. Sez.lav. n.199 del 11/01/2016) ha, infatti, già statuito che l’attività libero professionale svolta “intra moenia” dal medico ospedaliero (cd. ALPI) rientra nello schema generale della subordinazione, sicché è illegittima la trattenuta IRAP operata dall’ASL sui relativi onorari – comunque immodificabili unilateralmente perché concordati – restando l’onere dell’imposta a carico esclusivo dell’azienda che, quale sostituto di imposta, può trasferirlo sui pazienti, adeguando le tariffe su cui i medici, meri subordinati estranei al rapporto tributario, non hanno invece il potere di incidere.
In applicazione di tali principi questa stessa Sezione, in controversia analoga, con ordinanza n.23333/16 del 16 novembre 2016, ha statuito che <<il medico, in relazione all’attività libero professionale svolta in regime Mira moenia , rientrante comunque nello schema generale della subordinazione (Cass. nnr. 199 e 460/2016), risulta estraneo al rapporto tributario, in ordine all’IRAP, rapporto riguardante esclusivamente l’Azienda Sanitaria e l’A.F., cosicchè tra medico ed ASL non è neppure configurabile un rapporto sostituito/sostituto d’imposta, ai fini di legittimare il primo ad attivarsi per l’esercizio del diritto al rimborso direttamente nei confronti dell’A.F.>>.
Alla luce di detti principi, condivisi dal Collegio, il ricorso va rigettato, conseguendo dall’infondatezza del primo motivo di ricorso, l’inammissibilità del secondo per difetto di decisività del fatto rassegnato.

6.La peculiarità della fattispecie induce a compensare integralmente tra le parti le spese processuali.
Ai sensi dell’art.13 comma 1 quater del d.p.r. n.115 del 2002, si da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Compensa integralmente tra le parti le spese processuali.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.

9 febbraio 2018

lunedì 26 novembre 2018



In caso di sospensione cautelare che effetti ha l'esito del procedimento disciplinare?






Cass. civ. Sez. lavoro, 10/12/1986, n. 7350 
Sapio c. Banco Sicilia 

La sospensione del lavoratore subordinato perché sottoposto a procedimento penale o disciplinare non integra una sanzione, ma configura una misura cautelare e provvisoria, destinata ad essere travolta dall'esaurimento di tale procedimento e non priva il dipendente della retribuzione se non espressamente previsto dalla legge o dal contratto; pertanto, mentre il concludersi del suddetto procedimento in senso favorevole all'inquisito o all'imputato implica che il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui è stato sospeso con obbligo per il datore di lavoro di corrispondere al lavoratore le retribuzioni arretrate in ipotesi di condanna, la sospensione si tramuta ad ogni effetto in definitiva interruzione del rapporto che legittima il recesso del datore di lavoro retroattivamente con perdita ex tunc del diritto alle retribuzioni, come anche dell'eventuale diritto all'assegno alimentare previsto dalla contrattazione collettiva, salvo che nel caso di procedimento disciplinare questo si concluda con una sanzione conservativa e non già espulsiva; in tale ultima ipotesi il lavoratore riammesso in servizio ha diritto alle retribuzioni arretrate, essendo illegittima la norma contrattuale (nella specie: art. 110 del regolamento del banco di Sicilia) che condizioni il diritto del lavoratore alle retribuzioni arretrate all'ulteriore presupposto della sua esenzione da responsabilità in sede disciplinare trasformando indebitamente la misura cautelare, nella sua parte economica, in una sanzione disciplinare.

Cass. civ. Sez. lavoro, 22/03/1996, n. 2517 
Sicilcassa c. Aiello 


La sospensione cautelare dal servizio del lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare o penale legittima anche la sospensione della prestazione retributiva se ciò sia previsto dalla disciplina collettiva ; mentre la conclusione di detto procedimento in senso favorevole al lavoratore implica che il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui è stato sospeso, con obbligo per il datore di lavoro di corrispondere al dipendente le retribuzioni arretrate, nell'ipotesi di esito sfavorevole con adozione della sanzione del licenziamento, la sospensione si tramuta ad ogni effetto in definitiva interruzione del rapporto che legittima il recesso del datore di lavoro retroattivamente, con perdita ex tunc del diritto alle retribuzioni, non configurandosi quindi alcun limite alla durata della privazione della retribuzione con decorrenza dal momento della sospensione. 

Cass. civ. Sez. lavoro, 25/03/1997, n. 2633 
Corallini c. Centro it. studi superiori turismo 

La sospensione cautelare dal servizio del lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare (o, prima ancora, penale) legittima anche, ove ciò sia espressamente previsto dalla disciplina collettiva, la sospensione della controprestazione retributiva, la cui definitiva debenza, o meno, è condizionata all'esito del procedimento disciplinare secondo che si concluda, o meno, con l'irrogazione di una sanzione espulsiva, fermo restando che nel caso invece di irrogazione di sanzione conservativa la sospensione cautelare non può avere effetti più ampi di quelli previsti dall'art. 7, comma 4, stat. lav..

sabato 24 novembre 2018

Quali sono le caratteristiche che deve avere la subordinazione in caso di dirigente? 

Cass. 19/11/2018, n. 29761

Ai fini della qualificazione come lavoro subordinato del rapporto di lavoro del dirigente, quando questi sia titolare di cariche sociali che ne fanno un "alter ego" dell'imprenditore (preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale o di una branca o settore autonomo di essa), è necessario, ove non sussista alcuna formalizzazione di un contratto di lavoro subordinato di dirigente, verificare se il lavoro dallo stesso svolto possa comunque essere inquadrato all'interno della specifica organizzazione aziendale, individuando la caratterizzazione delle mansioni svolte, e se possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve od attenuata, alle direttive, agli ordini ed ai controlli del datore di lavoro, nonché al coordinamento dell'attività lavorativa in funzione dell'assetto organizzativo aziendale.

giovedì 22 novembre 2018

Il congedo matrimoniale spetta anche in caso di seconde nozze?

TAR del Lazio- sentenze del 1991 n. 11 

Tra tali cause, in particolare, non può essere annoverata la “reiterazione” del matrimonio, poiché la richiamata normativa (sia di legge che contrattuali) si riferisce a questo istituto senza alcuna limitazione ed è quindi arbitrario restringere il suo campo di applicazione ai soli casi prime nozze. Per quanto superfluo si fa rilevare che anche anteriormente all’introduzione del divorzio nell’ordinamento giuridico italiano effettuata con la … n. 89871970 (sulla disciplina del casi di scioglimento del matrimonio), il matrimonio poteva essere reiterato per intervenuto annullamento di quello precedente o per la morte del precedente coniuge. Anche in tale situazione normativa, pertanto, ove il legislatore avesse voluto limitare la concessione del congedo alla prime nozze, avrebbe dovuto farlo espressamente. Prevedendo invece il congedo straordinario “per contrarre matrimonio” non poteva che riferirsi a tutti i casi di matrimonio (e quindi anche all’ipotesi di nozze reiterate) (l’art. 37 del T.U. 10.1.57 N. 3 è, sul punto, conforme sostanzialmente all’articolo del precedente R.D.L. n. 1334/1937, riconoscendo all’impiegato il diritto al congedo straordinario quando “debba contrarre matrimonio”; di portata generale è anche la cit. disposizione contrattuale che prevede il congedo “per matrimonio”). In conclusione, l’interpretazione restrittiva suggerita dal patrocinatore dell’Amministrazione va ritenuta destituita di fondamento e non è idonea a sorreggere la legittimità dell’atto impugnato indipendentemente dalla considerazione che le argomentazioni svolte in sede difensiva non sono utili ad integrare la carente motivazione del provvedimento.

mercoledì 21 novembre 2018

Quando un rapporto qualificato dalle parti libero professionale può essere definito subordinato?

Cass. 16/11/2018, n. 29646

La qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo, data dalle parti, non può assumere valore dirimente di fronte ad elementi fattuali (quali la previsione di un compenso fisso, di un orario di lavoro stabile e continuativo, il carattere delle mansioni, nonché il collegamento tecnico, organizzativo e produttivo tra la prestazione svolta e le esigenze aziendali) che costituiscono indici rivelatori della natura subordinata del rapporto. Il potere gerarchico e direttivo, tuttavia, non può esplicarsi in semplici direttive di carattere generale, ma deve manifestarsi con ordini specifici reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa, mentre il potere organizzativo non può esplicarsi in un semplice coordinamento, ma deve manifestarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale. (Nel caso concreto nella sentenza oggetto di impugnazione si è adeguatamente valorizzata la mancanza di una prova rigorosa di deviazione dallo schema contrattuale di prestazione autonoma e di un divario dalle regole e principi del rapporto libero professionale, sul rilievo che anche in tale rapporto sussistono poteri di etero-conformazione e di controllo ed obblighi di diligenza e di osservanza delle istruzioni nella esecuzione delle prestazioni dedotte nel contratto.)

martedì 20 novembre 2018


Come definisce la cassazione il requisito di vivenza a  carico ai fini della pensione di reversibilità?



Cass. 08/11/2018, n. 28608

La "vivenza a carico", quale presupposto ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità, integra una situazione complessa che non si identifica con la mera coabitazione, né con una situazione di totale soggezione finanziaria del soggetto inabile, essendo intimamente compenetrata e connessa con lo stesso requisito sanitario e, quindi, con l'impossibilità a svolgere qualsiasi attività lavorativa. Di talché ai fini della relativa valutazione occorre prendere in considerazione tutti gli elementi di giudizio acquisiti al processo in base ai quali poter ricostruire la sussistenza o meno di una rilevante dipendenza economica del figlio inabile dal defunto genitore. (Nel caso in esame tale condizione risultava in fatto non solo dalla autodichiarazione prodotta dal ricorrente, mai specificamente contestata dall'Inps, ma dal contenuto delle perizie che avevano accertato, da una parte, l'invalidità totale e l'impossibilità per il ricorrente di svolgere qualsiasi attività lavorativa e, dall'altra, avevano attestato che le sue patologie di natura psichiatrica fossero risalenti e si fossero sviluppate ed aggravate proprio nell'ambito del contesto familiare all'interno del quale egli era inserito.)

lunedì 19 novembre 2018

Quando si ha la responsabilità civile del datore di lavoro in caso d'infortunio?



Cass. 15/11/2018, n. 29401

In tema di lavoro subordinato, l'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per infortunio sul lavoro o malattia professionale opera esclusivamente nei limiti posti dall'art. 10 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 e per i soli eventi coperti dall'assicurazione obbligatoria, mentre qualora eventi lesivi eccedenti tale copertura abbiano comunque a verificarsi in pregiudizio del lavoratore e siano casualmente ricollegabili alla nocività dell'ambiente di lavoro, viene in rilievo l'art. 2087 c.c., che come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l'integrità fisica del lavoratore assicurato

sabato 17 novembre 2018

Come è disciplinato l'assegno ordinario d'invalidità?

In base all'art. 1 della legge 1984 n. 222



Art. 1 Assegno ordinario di invalidità 

1. Si considera invalido, ai fini del conseguimento del diritto ad assegno nell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti ed autonomi gestita dall'Istituto nazionale della previdenza sociale, l'assicurato la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente a causa di infermità o difetto fisico o mentale a meno di un terzo.


2. Sussiste diritto ad assegno anche nei casi in cui la riduzione della capacità lavorativa, oltre i limiti stabiliti dal comma precedente, preesista al rapporto assicurativo, purché vi sia stato successivo aggravamento o siano sopraggiunte nuove infermità.


3. L'assegno di invalidità di cui al presente articolo è calcolato secondo le norme in vigore nell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, ovvero nelle gestioni speciali dei lavoratori autonomi. Qualora l'assegno risulti inferiore al trattamento minimo delle singole gestioni, è integrato, nel limite massimo del trattamento minimo, da un importo a carico del fondo sociale pari a quello della pensione sociale di cui all'art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, e successive modificazioni e integrazioni.


4. L'integrazione di cui al comma precedente non spetta ai soggetti che posseggono redditi propri assoggettabili all'imposta sul reddito delle persone fisiche per un importo superiore a due volte l'ammontare annuo della pensione sociale di cui all'art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, e successive modificazioni ed integrazioni. Per i soggetti coniugati e non separati legalmente, l'integrazione non spetta qualora il reddito, cumulato con quello del coniuge, sia superiore a tre volte l'importo della pensione sociale stessa. Dal computo dei redditi predetti è escluso il reddito della casa di abitazione.


5. Per l'accertamento del reddito di cui al precedente comma, gli interessati devono presentare alle gestioni previdenziali di competenza la dichiarazione di cui all'art. 24 della legge 13 aprile 1977, n. 114.


6. L'assegno di invalidità di cui al presente articolo non è reversibile ai superstiti. Agli stessi spetta la pensione di reversibilità, in base alle norme che, nelle gestioni previdenziali di competenza, disciplinano detta pensione in favore dei superstiti di assicurato. Ai fini del conseguimento dei requisiti di contribuzione di cui al secondo comma del successivo art. 4, si considerano utili i periodi di godimento dell'assegno di invalidità, nei quali non sia stata prestata attività lavorativa.


7. L'assegno è riconosciuto per un periodo di tre anni ed è confermabile per periodi della stessa durata, su domanda del titolare dell'assegno, qualora permangano le condizioni che diedero luogo alla liquidazione della prestazione stessa, tenuto conto anche dell'eventuale attività lavorativa svolta. La conferma dell'assegno ha effetto dalla data di scadenza, nel caso in cui la domanda sia presentata nel semestre antecedente tale data, oppure dal primo giorno del mese successivo a quello di presentazione della domanda, qualora la stessa venga inoltrata entro i centoventi giorni successivi alla scadenza suddetta.


8. Dopo tre riconoscimenti consecutivi, l'assegno di invalidità è confermato automaticamente, ferme restando le facoltà di revisione di cui al successivo art. 9.


9. I periodi di contribuzione effettiva, volontaria e figurativa, successivi alla decorrenza originaria dell'assegno, sono utili ai fini della liquidazione di supplementi secondo la disciplina di cui all'art. 7 della legge 23 aprile 1981, n. 155. In caso di nuova liquidazione dell'assegno di invalidità, l'ammontare dello stesso sarà determinato in misura non superiore all'assegno precedentemente liquidato, incrementato dagli aumenti di perequazione automatica e maggiorato per effetto della contribuzione successivamente intervenuta, valutata secondo la disciplina dell'art. 7sopra citato.


10. Al compimento dell'età stabilita per il diritto a pensione di vecchiaia, l'assegno di invalidità si trasforma, in presenza dei requisiti di assicurazione e di contribuzione, in pensione di vecchiaia. A tal fine i periodi di godimento dell'assegno nei quali non sia stata prestata attività lavorativa, si considerano utili ai fini del diritto e non anche della misura della pensione stessa. L'importo della pensione non potrà, comunque, essere inferiore a quello dell'assegno di invalidità in godimento al compimento dell'età pensionabile.


11. All'assegno di invalidità di cui al presente articolo si applica la disciplina del cumulo prevista dall'art. 20 della legge 30 aprile 1969, n. 153, e successive modificazioni ed integrazioni.


12. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, l'assegno mensile di cui all'art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118, è incompatibile con l'assegno di invalidità. 

giovedì 15 novembre 2018

Che natura ha la pensione di vecchiaia anticipata in caso d'invalidità?

Cass. 13/11/2018, n. 29191


In tema di pensione, la regolamentazione della pensione di vecchiaia "anticipata" comporta una anticipazione dei normali tempi di perfezionamento del diritto alla pensione, attuata attraverso un'integrazione "ex lege" del rapporto assicurativo e contributivo, che consente, in presenza di una situazione di invalidità, una deroga ai limiti di età per il normale pensionamento. Lo stato di invalidità costituisce, dunque, solo la condizione in presenza della quale è possibile acquisire il diritto al trattamento di vecchiaia sulla base del requisito di età vigente prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, ma non può comportare lo snaturamento della prestazione che rimane un trattamento diretto di vecchiaia, preordinato a coprire i rischi derivanti dalla vecchiaia, ontologicamente diverso dai trattamenti diretti di invalidità, preordinati a coprire i rischi derivanti, appunto, dall'invalidità, previsti dalla L. 12 giugno 1984, n. 222.

mercoledì 14 novembre 2018

Nel contratto a tutele crescenti il giudice deve fare riferimento solo all'anzianità in caso di licenziamento illegittimo?

Ecco il testo della sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 2018

1.− Il Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro); e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183).

1.1.− L’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014, al dichiarato «scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione», delegò il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi, «in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali», nel rispetto dei principi e criteri direttivi della «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».

Gli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 − adottato dal Governo nell’esercizio di tale delega − dettano il regime di tutela del lavoratore contro i licenziamenti, rispettivamente, «discriminatorio, nullo e intimato in forma orale» (art. 2), «per giustificato motivo e giusta causa» quando si accerti che non ricorrono gli estremi di tali causali (art. 3) e affetto da «[v]izi formali e procedurali» (art. 4).

Come previsto, in generale, per il regime di tutela contro i licenziamenti illegittimi introdotto dal d.lgs. n. 23 del 2015, anche i denunciati artt. 2, 3 e 4 si applicano ai lavoratori, con «qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del […] decreto» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015); quindi, ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato instaurati a decorrere dal 7 marzo 2015. Ai lavoratori assunti prima di tale data continua pertanto ad applicarsi il “precedente” regime dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).

1.2.− Ad avviso del rimettente, le disposizioni denunciate, prevedendo che, nei casi di licenziamento illegittimo, al lavoratore assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015 spetta un’indennità «in misura […] modesta», stabilita in modo «automati[co]» − con esclusione, quindi, di «qualsiasi discrezionalità valutativa del giudice» − e, in particolare, «crescente solo in base alla anzianità di servizio», contrastano con gli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione.

1.2.1.− Con riferimento all’art. 3 Cost., il giudice a quo prospetta quattro distinti profili di illegittimità costituzionale.

Con il primo, lamenta che le disposizioni denunciate violano il principio di eguaglianza perché tutelano i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 in modo ingiustificatamente deteriore rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale data − i quali continuano a godere del più favorevole regime di tutela previsto dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012 −, considerato che «la data di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo sostanziale».

Con il secondo profilo, deduce che le stesse disposizioni violano il principio di eguaglianza anche perché, nell’ambito degli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, tutelano i lavoratori privi di qualifica dirigenziale in modo ingiustificatamente deteriore rispetto ai dirigenti, i quali, «non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente».

Con il terzo profilo, viene dedotto che le disposizioni censurate violano, ancora una volta, il principio di eguaglianza perché il carattere «fiss[o] e crescente solo in base all’anzianità di servizio» dell’indennità da esse prevista comporta anche che «situazioni molto dissimili nella sostanza» (quanto, in particolare, alla gravità del pregiudizio subito dal lavoratore) vengano tutelate in modo ingiustificatamente identico.

Con il quarto profilo, è dedotta l’irragionevolezza delle disposizioni censurate perché l’indennità da esse prevista, in quanto «modesta, fissa e crescente solo in base all’anzianità di servizio», non costituisce né un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente, sicché «non [è] soddisfa[tto] il test del bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco».

1.2.2.− Con riferimento agli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., il giudice a quo deduce che la normativa denunciata non può ritenersi rispettosa del valore attribuito al lavoro da tali parametri costituzionali giacché «sostanzialmente “valuta” il diritto al lavoro […] con una quantificazione […] modesta ed evanescente […] ed oltretutto fissa e crescente in base al parametro della mera anzianità» e considerato anche che «[l]e tutele dei licenziamenti […] sostengono la forza contrattuale del lavoratore nella relazione quotidiana sul luogo di lavoro» e «protegg[ono] le libertà fondamentali di lavoratrici e lavoratori» in tale luogo.

1.2.3.− Con riferimento, infine, agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., il rimettente deduce che le disposizioni denunciate non rispettano, quanto all’art. 76 Cost., il criterio direttivo, dettato dall’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014, della «coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali» e, quanto all’art. 117, primo comma, Cost., i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», perché si pongono in contrasto con le norme dell’Unione europea e internazionali che sanciscono il diritto del lavoratore «a una tutela efficace nei confronti di un licenziamento […] ingiustificato».

I suddetti parametri costituzionali sarebbero violati, in particolare, per il tramite di tre norme interposte.

Anzitutto, per il tramite dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che, con lo stabilire che «[o]gni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali», «impone agli Stati membri di garantire una adeguata tutela in caso di licenziamento ingiustificato».

In secondo luogo, per il tramite dell’art. 10 della Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata a Ginevra dalla Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982 (e non ratificata dall’Italia), là dove stabilisce che se il giudice o l’organismo arbitrale competenti che abbiano reputato ingiustificato il licenziamento non hanno il potere di annullarlo, e/o di ordinare o di proporre la reintegrazione del lavoratore, o non ritengono che ciò sia possibile nella situazione data, «dovranno essere abilitati ad ordinare il versamento di un indennizzo adeguato o ogni altra forma di riparazione considerata come appropriata».

In terzo luogo, per il tramite dell’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30, secondo cui, «[p]er assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s’impegnano a riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione» (primo paragrafo).

2.− Per prima cosa, deve essere confermata la dichiarazione di inammissibilità dell’intervento spiegato dalla Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), per le ragioni esposte nell’ordinanza letta nel corso dell’udienza pubblica e allegata alla presente sentenza.

3.− In linea preliminare, occorre rilevare che, successivamente all’ordinanza di rimessione, è entrato in vigore il decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96. Tale decreto, all’art. 3, comma 1, ha modificato una delle disposizioni oggetto del presente giudizio, e cioè l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alla parte in cui stabilisce il limite minimo e il limite massimo entro cui è possibile determinare l’indennità da corrispondere al lavoratore ingiustamente licenziato. Il citato art. 3, comma 1, del d.l. n. 87 del 2018 ha innalzato tali limiti, rispettivamente, da quattro a sei mensilità (limite minimo) e da ventiquattro a trentasei mensilità (limite massimo) dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (TFR).

Il rimettente denuncia l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in quanto dispone che il giudice, una volta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, che deve essere di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, entro una soglia minima e una soglia massima.

Non è dunque il quantum delle soglie minima e massima entro cui può essere stabilita l’indennità al cuore delle doglianze, ma il meccanismo di determinazione dell’indennità, configurato dalla norma censurata. Il rimettente lamenta, infatti, che la norma in esame introduce un criterio rigido e automatico, basato sull’anzianità di servizio, tale da precludere qualsiasi «discrezionalità valutativa del giudice», in violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, in quanto in contrasto con l’esigenza di assicurare un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subìto dal lavoratore, nonché un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente.

Poiché il contenuto della novella legislativa è circoscrivibile entro questi confini, ben può questa Corte autonomamente valutare in che misura lo ius superveniens incida sul presente giudizio incidentale e se si spinga fino a modificare «la norma censurata quanto alla parte oggetto delle censure di legittimità costituzionale» (sentenza n. 125 del 2018). Nel caso in esame non è stato intaccato il meccanismo contestato, sicché non mutano i termini essenziali della questione posta dal giudice a quo.

Tanto basta per escludere la necessità di restituire gli atti al giudice rimettente perché valuti la permanenza o no dei dubbi di legittimità costituzionale espressi nell’ordinanza di rimessione.

4.− Prima di esaminare le questioni di legittimità costituzionale sollevate, va rilevato che, nel proprio atto di costituzione in giudizio, Francesca Santoro ha dedotto l’irragionevolezza delle disposizioni censurate sotto il profilo, ulteriore rispetto a quelli indicati nell’ordinanza di rimessione, che esse sarebbero inidonee a conseguire lo scopo dichiarato di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione».

Tale censura si traduce in una questione non sollevata dal giudice rimettente ed è, perciò, inammissibile.

Infatti, in base alla costante giurisprudenza di questa Corte, «”l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione. Pertanto, non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze” (ex plurimis, sentenze n. 251 del 2017, n. 214 del 2016, n. 231 e n. 83 del 2015)» (sentenza n. 4 del 2018, punto 2. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 29 del 2017).

5.− Sempre in via preliminare, devono essere esaminati, d’ufficio, alcuni profili che attengono all’ammissibilità delle questioni sollevate dal giudice rimettente.

5.1.− Anzitutto, è necessario verificare, alla luce di quanto risulta dall’ordinanza di rimessione, l’effettiva applicabilità nel giudizio a quo delle diverse disposizioni denunciate e, conseguentemente, l’effettiva rilevanza delle questioni di costituzionalità delle stesse.

Va osservato che, nel descrivere la fattispecie al suo esame, il giudice rimettente espone che la lavoratrice ricorrente era stata licenziata, il 15 dicembre 2015, «per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604» e aveva impugnato il licenziamento «invoca[ndo] la tutela di cui all’art. 3 del D.Lgs. 23/2015». Lo stesso rimettente afferma poi di ritenere che, «a fronte della estrema genericità della motivazione addotta e della assoluta mancanza di prova della fondatezza di alcune delle circostanze laconicamente accennate nell’espulsione, il vizio ravvisabile sia il più grave fra quelli indicati, vale a dire la “non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”» e che, poiché la lavoratrice ricorrente è stata assunta a decorrere dal 7 marzo 2015, «ha diritto soltanto a quattro mensilità».

Dall’esposizione del giudice a quo si evince in modo inequivocabile che il giudizio principale ha a oggetto un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che la lavoratrice ricorrente ha chiesto la tutela prevista dall’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 per i casi in cui non ricorrono gli estremi, tra le altre, di tale causale e che anche il rimettente ritiene che il caso sottoposto al suo esame sia inquadrabile in tale fattispecie e comporti la tutela («quattro mensilità») di cui all’art. 3 (comma 1) del d.lgs. n. 23 del 2015, nel testo originario.

5.1.1.− Alla luce di questi elementi, quali emergono dalla stessa ordinanza di rimessione, è del tutto evidente l’inapplicabilità nel giudizio a quo dell’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015.

Quest’ultimo, infatti, stabilisce la tutela per i casi di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale, completamente estranei allo stesso giudizio.

Da ciò l’irrilevanza delle questioni aventi a oggetto l’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015.

5.1.2.− Parimenti inapplicabile nel giudizio a quo è l’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015.

Questo articolo, infatti, stabilisce la tutela per le ipotesi, in esso indicate, di vizi formali e procedurali del recesso datoriale, anch’esse estranee al medesimo giudizio.

È lo stesso rimettente a considerare il vizio formale di motivazione del licenziamento in termini di mera ipotesi, ipotesi che egli stesso però scarta, in favore del vizio sostanziale della «non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».

Da ciò l’irrilevanza anche delle questioni aventi a oggetto l’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015.

5.1.3.− Passando all’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, nonostante il rimettente lo censuri nella sua interezza, risulta evidente che egli non deve fare applicazione né del comma 2 né del comma 3 di tale articolo. Comunque, egli non fornisce alcuna motivazione sul perché debba fare applicazione degli stessi.

5.1.3.1.− Quanto al comma 2, esso stabilisce la tutela per i casi di «licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore», cioè per fattispecie diverse da quella oggetto del giudizio a quo. Inoltre, il comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 prevede una tutela che consiste nell’annullamento del licenziamento e nella condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, oltre che al pagamento di un’indennità. Si tratta di una tutela completamente diversa da quella, meramente monetaria, che lo stesso rimettente afferma di dovere applicare, prevista non dal comma 2 ma dal comma 1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.

Da ciò l’irrilevanza delle questioni aventi a oggetto il comma 2 di tale articolo.

5.1.3.2.− Quanto al comma 3, esso stabilisce che al licenziamento dei lavoratori che, a norma dell’art. 1 del d.lgs. n. 23 del 2015, rientrano nel campo di applicazione di tale decreto, «non trova applicazione l’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni».

Questo articolo, come sostituito dall’art. 1, comma 40, della legge n. 92 del 2012, prevede che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto dai datori di lavoro che hanno i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, ottavo comma, della legge n. 300 del 1970, deve essere preceduto da una procedura preventiva conciliativa obbligatoria. Il comma 3 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 dispone dunque che tale procedura non si applica ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, rientranti nel campo di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015.

Sul perché debba fare applicazione di tale comma, il rimettente nulla dice.

Sotto altro profilo, non spiega neppure perché dubiti che esso contrasti con i parametri costituzionali invocati. Nulla si eccepisce, in effetti, a proposito dell’esclusione dell’applicazione dell’art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che rientrano nel campo di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015, prevista dal comma 3 dell’art. 3 di tale decreto.

Da ciò l’inammissibilità, per difetto di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, delle questioni aventi a oggetto il comma 3 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.

5.1.4.− Da quanto sin qui esposto risulta che, tra le disposizioni del d.lgs. n. 23 del 2015 denunciate, l’unica che il rimettente deve effettivamente applicare è l’art. 3, comma 1.

Esso stabilisce che «[s]alvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità».

Del resto, le censure e le relative argomentazioni dell’ordinanza di rimessione riguardano tutte il contrasto con gli invocati parametri costituzionali dell’indennità disciplinata da tale disposizione.

5.2.− Quest’ultimo rilievo consente di valutare un ulteriore profilo di inammissibilità che riguarda le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014.

L’unico specifico riferimento che l’ordinanza di rimessione fa all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014, quale oggetto del giudizio di legittimità costituzionale (nella stessa ordinanza, l’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 è anche, come si è visto, parametro interposto delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost.), è costituito dall’affermazione che le tutele previste dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 sono «frutto della delega contenuta nella legge n. 183/2014»

Questa laconica frase non fornisce, all’evidenza, un’argomentazione sufficiente del contrasto del denunciato art. 1, comma 7, lettera c), con i parametri costituzionali invocati.

Del resto, si deve osservare che, ancorché non intenda chiaramente censurare tutti i principi e criteri direttivi dettati dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 – si pensi, oltre a quello «generale», invocato come parametro interposto, della «coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali», all’«esclu[sione] per i licenziamenti economici [del]la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro», che nell’ordinanza di rimessione si nega espressamente di voler contestare – il giudice a quo omette finanche di specificare quali di essi ritenga possano recare un vulnus ai parametri costituzionali invocati.

Da ciò l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.

5.3.− Dalle argomentazioni che precedono consegue, pertanto, che le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 e degli artt. 2, 3, commi 2 e 3, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 devono essere dichiarate inammissibili per difetto, rispettivamente, di rilevanza (artt. 2, 3, comma 2, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015), di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza (art. 3, comma 3) e di motivazione sulla non manifesta infondatezza (art. 1, comma 7, lettera c, della legge n. 183 del 2014).

5.4.− Il giudizio di legittimità costituzionale resta, dunque, circoscritto al solo art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015.

Prima di scrutinare il merito delle questioni aventi a oggetto tale disposizione, occorre verificare l’ammissibilità di quella sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione allo specifico parametro interposto dell’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento.

Questa convenzione internazionale, che ha vocazione costituzionale, nello spirito dell’art. 35, terzo comma, Cost., non è stata ratificata dall’Italia, pertanto non è da ritenersi vincolante, né può integrare il parametro costituzionale evocato, poiché l’art. 117, primo comma, Cost., fa riferimento al rispetto dei «vincoli» derivanti dagli «obblighi internazionali».

Non si può pervenire a diversa conclusione neanche con riguardo alla possibile idoneità di tale Convenzione a integrare il parametro dell’art. 76 Cost. Se è vero, infatti, che l’alinea dell’art. 1, comma 7, della legge di delegazione n. 183 del 2014 fa riferimento, senza ulteriori specificazioni, alle «convenzioni internazionali», da tale generica dicitura non si può certamente far discendere l’obbligo per il legislatore delegato del rispetto di convenzioni cui l’Italia, non avendo inteso ratificarle, non è vincolata.

Dall’inidoneità della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento, in quanto non ratificata dall’Italia, a integrare i parametri degli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., discende l’inammissibilità della questione sollevata dal rimettente in relazione all’art. 10 della stessa.

Tale conclusione deve essere ribadita anche con riferimento a quanto sembrerebbe ritenere la parte costituita Francesca Santoro., secondo cui la Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 «assume diretta rilevanza come obbligo per lo Stato di non attuare, nelle more della ratifica, una legislazione in contrasto con l’obbligazione assunta a livello internazionale».

L’obbligo di buona fede stabilito dall’art. 18 della Convenzione sul diritto dei trattati, adottata a Vienna il 23 maggio 1969, ratificata e resa esecutiva con la legge 12 febbraio 1974, n. 112, che si sostanzia, tra l’altro, nell’astensione degli Stati dal compiere atti suscettibili di privare un trattato del suo oggetto e del suo scopo, non può spingersi fino a escludere la discrezionalità della ratifica e l’ineludibilità di essa ai fini dell’obbligatorietà del trattato − per l’Italia − sul piano internazionale. Si conferma, pertanto, l’inidoneità dell’invocata Convenzione OIL a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost.

6.− Si può ora passare allo scrutinio della prima delle questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., con la quale il rimettente deduce che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 viola il principio di eguaglianza, perché tutela i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 in modo ingiustificatamente deteriore rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale data.

La questione non è fondata.

Va anzitutto dato atto della correttezza del presupposto – da cui il rimettente muove nel sollevarla − secondo cui il regime di tutela dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, applicabile agli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, è meno favorevole di quello dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, applicabile ai lavoratori assunti prima di tale data. Infatti, quando sia accertata l’insussistenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, il censurato art. 3, comma 1, prevede, in ogni caso, la tutela solo economica costituita dall’indennità di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, col minimo di quattro (ora sei) e il massimo di ventiquattro (ora trentasei) mensilità. L’art. 18 della legge n. 300 del 1970 prevede invece la tutela specifica della reintegrazione nel posto di lavoro, oltre alla tutela per equivalente del risarcimento del danno fino a un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, nei casi di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo» (settimo comma, secondo periodo, prima frase, secondo cui il giudice «[p]uò» applicare tale disciplina), nonché, nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, nei casi di «insussistenza del fatto contestato» e nei casi in cui tale fatto «rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base […] dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» (quarto comma, primo periodo). Negli altri casi prevede la tutela per equivalente del risarcimento del danno tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (quinto comma, cui pure rinvia il settimo comma, secondo periodo, seconda frase).

Si deve osservare che, denunciando la disparità di trattamento tra nuovi assunti (cui si applica il meno favorevole regime di tutela del d.lgs. n. 23 del 2015) e vecchi assunti (cui si applica il più favorevole regime di tutela dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970), il rimettente, diversamente che nelle altre questioni sollevate, non censura la disciplina sostanziale del primo di tali regimi, ma il criterio di applicazione temporale della stessa, costituito dalla data di assunzione del lavoratore a decorrere dall’entrata in vigore del decreto. L’asserita irragionevolezza del deteriore trattamento dei nuovi assunti è infatti motivata censurando non tanto il regime di tutela per essi dettato dal d.lgs. n. 23 del 2015, quanto, piuttosto, il criterio di applicazione temporale di tale regime. Si afferma che «la data di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo sostanziale».

Se questo è il contenuto della censura in esame, occorre ricordare che, a proposito della delimitazione della sfera di applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel tempo, nella giurisprudenza di questa Corte è costante l’affermazione – nota anche al giudice rimettente – che «non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche (ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008)» (sentenza n. 254 del 2014, punto 3. del Considerato in diritto). Questa Corte ha al riguardo argomentato che «[s]petta difatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme […] (sentenze n. 273 del 2011, punto 4.2. del Considerato in diritto, e n. 94 del 2009, punto 7.2. del Considerato in diritto)» (sentenza n. 104 del 2018, punto 7.1. del Considerato in diritto).

È proprio tale «canone di ragionevolezza» che il rimettente mostra di ritenere violato, quando afferma che «la data di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo sostanziale».

La modulazione temporale dell’applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015, censurata dal rimettente, non contrasta con il «canone di ragionevolezza» e, quindi, con il principio di eguaglianza, se a essa si guarda alla luce della ragione giustificatrice – del tutto trascurata dal giudice rimettente – costituita dallo «scopo», dichiaratamente perseguito dal legislatore, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (alinea dell’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014).

Lo scopo dell’intervento, così esplicitato, mostra come la predeterminazione e l’alleggerimento delle conseguenze del licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato siano misure dirette a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro per chi di un lavoro fosse privo, e, in particolare, a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Il regime temporale di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 si rivela coerente con tale scopo. Poiché l’introduzione di tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo è diretta a incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, appare coerente limitare l’applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita.

Pertanto, l’applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 ai lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, in quanto conseguente allo scopo che il legislatore si è prefisso, non può ritenersi irragionevole. Di conseguenza, il deteriore trattamento di tali lavoratori rispetto a quelli assunti prima di tale data non viola il principio di eguaglianza.

Tanto chiarito circa la non irragionevolezza del contestato regime temporale, non spetta a questa Corte addentrarsi in valutazioni sui risultati che la politica occupazionale perseguita dal legislatore può aver conseguito.

7.− Con la seconda delle questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., il rimettente deduce che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 viola il principio di eguaglianza perché, nell’ambito degli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, tutela i lavoratori privi di qualifica dirigenziale in modo ingiustificatamente deteriore rispetto ai dirigenti, i quali, «non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente».

La questione non è fondata.

Questa Corte ha da tempo chiarito che il dirigente, pur rientrando, per espressa previsione dell’art. 2095, primo comma, del codice civile, tra i lavoratori subordinati, «si caratterizza per alcune significative diversità rispetto alle altre figure dei quadri, impiegati ed operai» (sentenza 228 del 2001, punto 2. del Considerato in diritto). Sicché «le due categorie non sono affatto omogenee ed i due rapporti di lavoro sono nettamente differenziati» (sentenza 309 del 1992, punto 3. del Considerato in diritto).

La diversità del lavoro dei dirigenti ha indotto questa Corte a più riprese a ribadire che non contrasta con l’art. 3 Cost. l’esclusione degli stessi dall’applicazione della generale disciplina legislativa sui licenziamenti individuali, compresa la regola della necessaria giustificazione del licenziamento (sentenze n. 228 del 2001, n. 309 del 1992 e n. 121 del 1972, ordinanza n. 404 del 1992; queste ultime due pronunce riguardano, in particolare, l’art. 10 della legge n. 604 del 1966, che esclude i dirigenti dall’applicazione, tra l’altro, dell’art. 1 di tale legge, cioè della disposizione che richiede l’esistenza di una «giusta causa» o di un «giustificato motivo» di licenziamento).

In ragione di questa perdurante esclusione si deve confermare che, anche nel sistema vigente, i dirigenti non sono comparabili alle altre categorie dei prestatori di lavoro di cui all’art. 2095, primo comma del codice civile.

8.− Del pari non fondata è la prima delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., con cui il giudice rimettente deduce che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 viola tali disposizioni costituzionali per il tramite del parametro interposto dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

A norma dell’art. 51 CDFUE, «[l]e disposizioni della presente Carta si applicano […] agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» (comma 1, primo periodo). Sulla base di tale disposizione, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha costantemente asserito che le disposizioni della CDFUE sono applicabili agli Stati membri «quando agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione» (ex plurimis, Grande sezione, sentenza 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Åklagaren contro Hans Åkerberg Fransson e, più recentemente, Ottava sezione, ordinanza 26 ottobre 2017, causa C-333/17, Caixa Económica Montepio Geral contro Carlos Samuel Pimenta Marinh e altri). Questa Corte ha perciò affermato che, «perché la Carta dei diritti UE sia invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale, occorre, dunque, che la fattispecie oggetto di legislazione interna “sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto” (sentenza n. 80 del 2011)» (sentenza n. 63 del 2016, punto 7. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 111 del 2017 e ordinanza n. 138 del 2011).

Nessun elemento consente di ritenere che la censurata disciplina dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sia stata adottata in attuazione del diritto dell’Unione, in particolare, per attuare disposizioni nella materia dei licenziamenti individuali.

Più nel dettaglio, ai fini dell’applicabilità della CDFUE, l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 dovrebbe rientrare nell’ambito di applicazione di una norma del diritto dell’Unione diversa da quelle della Carta stessa (ex plurimis, Corte di giustizia, terza sezione, sentenza 1° dicembre 2016, causa C-395/15, Mohamed Daouidi contro Bootes Plus SL e altri, punto 64; ottava sezione, ordinanze 8 dicembre 2016, causa C-27/16, Angel Marinkov contro Predsedatel na Darzhavna agentsia za balgarite v chuzhbina, punto 49, e 16 gennaio 2014, causa C-332/13, Ferenc Weigl contro Nemzeti Innovációs Hivatal, punto 14; terza sezione, ordinanza 12 luglio 2012, causa C-466/11, Gennaro Currà e altri contro Bundesrepublik Deutschland, punto 26).

Il solo fatto che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 ricada in un settore nel quale l’Unione è competente ai sensi dell’art. 153, paragrafo 2, lettera d), del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) non può comportare l’applicabilità della Carta dato che, riguardo alla disciplina dei licenziamenti individuali (e, tanto meno, nella situazione specificamente regolata dall’art. 3, comma 1), l’Unione non ha in concreto esercitato tale competenza, né ha adottato, mediante direttive, prescrizioni minime (ex plurimis, Corte di giustizia, decima sezione, sentenza 5 febbraio 2015, causa C-117/14, Grima Janet Nisttahuz Poclava contro Jose María Ariza Toledano, punto 41; quinta sezione, sentenza 10 luglio 2014, causa C-198/13, Víctor Manuel Julian Hernández e altri contro Regno di Spagna e altri, punti 36 e 46; settima sezione, ordinanza 16 gennaio 2008, causa C-361/07, Olivier Polier contro Najar EURL, punto 13).

Contrariamente a quanto mostra di reputare la difesa della parte costituita, non si può ritenere che la normativa censurata sia stata adottata in attuazione della direttiva 20 luglio 1998, n. 98/59/CE (Direttiva del Consiglio concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi), poiché, come è chiaro, l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 disciplina i licenziamenti individuali.

Al fine di sostenere la sussistenza, nelle disposizioni denunciate, di una «fattispecie europea», la parte costituita ha argomentato – in verità, in modo assai generico − che esse ricadrebbero nell’ambito della politica dell’occupazione dell’Unione e, in particolare, nell’ambito delle misure adottate in risposta alle raccomandazioni del Consiglio. Tali raccomandazioni, previste dall’art. 148, paragrafo 4, TFUE all’esito dell’esame annuale svolto dalle istituzioni europee circa la situazione dell’occupazione nell’Unione, rientrano nella discrezionalità del Consiglio e sono prive di forza vincolante.

Non vi sono dunque disposizioni del diritto dell’Unione che impongano specifici obblighi agli Stati membri – né all’Italia in particolare − nella materia disciplinata dal censurato art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015. Si deve pertanto escludere che la CDFUE sia applicabile alla fattispecie e che l’art. 30 della stessa Carta possa essere invocato, quale parametro interposto, nella presente questione di legittimità costituzionale. Da ciò la non fondatezza della stessa.

9.− Le ulteriori questioni, con cui il rimettente lamenta che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, prevedendo una tutela contro i licenziamenti ingiustificati rigida e inadeguata, viola gli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma, Cost. – questi ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea – sono fondate nei limiti che saranno ora indicati.

Prima di esaminarle singolarmente, è utile prendere le mosse dalla giurisprudenza di questa Corte che, sin da epoca risalente, si è soffermata sugli aspetti peculiari della disciplina dei licenziamenti per delineare i confini della giustificazione, da un lato, e della tutela avverso quelli illegittimi, dall’altro.

9.1.− Nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2118 cod. civ., sollevata in riferimento all’art. 4 Cost., questa Corte affermò che il diritto al lavoro, «fondamentale diritto di libertà della persona umana», pur non garantendo «il diritto alla conservazione del lavoro», tuttavia «esige che il legislatore […] adegui […] la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie […] e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti» (sentenza n. 45 del 1965, punti 3. e 4. del Considerato in diritto). Questa esortazione, come è noto, fu accolta con l’approvazione della legge n. 604 del 1966, che sancì, all’art. 1, il principio della necessaria giustificazione del licenziamento, da considerarsi illegittimo se non sorretto da una «giusta causa» o da un «giustificato motivo».

Si è in seguito affermato il «diritto [garantito dall’art. 4 Cost.] a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto 9. del Considerato in diritto) e si è poi ribadita la «garanzia costituzionale [del] diritto di non subire un licenziamento arbitrario» (sentenza n. 541 del 2000, punto 2. del Considerato in diritto e ordinanza n. 56 del 2006).

L’«indirizzo di progressiva garanzia del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 Cost., che ha portato, nel tempo, a introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro» (sentenza n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto), si riscontra in una successiva pronuncia, in cui si afferma che «la materia dei licenziamenti individuali è oggi regolata, in presenza degli artt. 4 e 35 della Costituzione, in base al principio della necessaria giustificazione del recesso» (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto).

L’affermazione sempre più netta del «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.), affiancata alla «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.), si sostanzia nel riconoscere, tra l’altro, che i limiti posti al potere di recesso del datore di lavoro correggono un disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro. Il forte coinvolgimento della persona umana – a differenza di quanto accade in altri rapporti di durata – qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele.

9.2.− Al percorso della giurisprudenza costituzionale ora evocato, si è affiancato quello – parallelo e qui più direttamente rilevante – concernente la tutela del lavoratore nel caso di licenziamento illegittimo.

Questa giurisprudenza ha valorizzato la discrezionalità del legislatore in materia.

Già la sentenza n. 194 del 1970, dopo avere affermato che i principi cui si ispira l’art. 4 della Costituzione «esprimono l’esigenza di un contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro, e quindi dell’ampliamento della tutela del lavoratore, quanto alla conservazione del posto di lavoro», precisò che «[l]’attuazione di questi principi resta tuttavia affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente alla situazione economica generale» (punto 4. del Considerato in diritto).

Nello stesso senso si sono successivamente espresse le sentenze n. 55 del 1974, n. 189 del 1975 e n. 2 del 1986.

Più di recente, questa Corte ha espressamente negato che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore, imponga un determinato regime di tutela (sentenza n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto).

Il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, «non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme» (sentenza n. 268 del 1994, punto 5. del Considerato in diritto).

10.− Questa breve disamina dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di licenziamenti serve a enucleare l’ambito delle tutele fondate sugli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., interpretati congiuntamente. Su questo sfondo si deve collocare l’analisi della tutela prevista dal censurato art. 3, comma 1.

Si tratta di una tutela non specifica dell’interesse del lavoratore all’adempimento del contratto di lavoro a tempo indeterminato – la reintegrazione è, infatti, preclusa – ma per equivalente e, quindi, soltanto economica.

È necessario fin da ora chiarire che questo meccanismo di tutela sorregge l’intero impianto della disciplina delineata dal legislatore, anche nei casi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa (salve le ipotesi, disciplinate dal comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, in cui «sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore»). Questa Corte non può dunque esimersi da uno scrutinio complessivo del denunciato art. 3, comma 1, entro cui rientra anche il caso in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, fattispecie quest’ultima che ricorre nel giudizio a quo.

La qualificazione come «indennità» dell’obbligazione prevista dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 non ne esclude la natura di rimedio risarcitorio, a fronte di un licenziamento. Quest’ultimo, anche se efficace, in quanto idoneo a estinguere il rapporto di lavoro, costituisce pur sempre un atto illecito, essendo adottato in violazione della preesistente non modificata norma imperativa secondo cui «il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo» (art. 1 della legge n. 604 del 1966).

Quanto alla misura della stessa indennità – e, quindi, del risarcimento riconosciuto al lavoratore per il danno causato dal licenziamento illegittimo, che specularmente incide nella sfera economica del datore di lavoro – essa è interamente prestabilita dal legislatore in due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio.

Il meccanismo di quantificazione indicato connota l’indennità come rigida, in quanto non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio, e la rende uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità. L’indennità assume così i connotati di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, proprio perché ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio, a fronte del danno derivante al lavoratore dall’illegittima estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.

Il meccanismo di quantificazione dell’indennità opera entro limiti predefiniti sia verso il basso sia verso l’alto. Verso il basso la previsione di una misura minima dell’indennità è pari a quattro (ora sei) mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, verso l’alto la previsione di una misura massima dell’indennità è pari a ventiquattro (ora trentasei) mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.

Una tale predeterminazione forfetizzata del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo non risulta incrementabile, pur volendone fornire la relativa prova. Nonostante il censurato art. 3, comma 1 – diversamente dal vigente art. 18, quinto comma, della legge n. 300 del 1970 – non definisca l’indennità «onnicomprensiva», è in effetti palese la volontà del legislatore di predeterminare compiutamente le conseguenze del licenziamento illegittimo, in conformità al principio e criterio direttivo dettato dalla legge di delegazione di prevedere un indennizzo economico «certo».

11.− Ricostruite le caratteristiche della tutela prevista dal denunciato art. 3, comma 1, tale disposizione, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», contrasta, anzitutto, con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse (terzo dei profili di violazione dell’art. 3 Cost. prospettati dal rimettente).

Come si è visto, nel prestabilirne interamente il quantum in relazione all’unico parametro dell’anzianità di servizio, la citata previsione connota l’indennità, oltre che come rigida, come uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità.

È un dato di comune esperienza, ampiamente comprovato dalla casistica giurisprudenziale, che il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori. L’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è dunque solo uno dei tanti.

Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 il legislatore ha ripetutamente percorso la strada che conduce all’individuazione di tali molteplici fattori.

L’art. 8 della legge n. 604 del 1966 (come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990), ad esempio, lascia al giudice determinare l’obbligazione alternativa indennitaria, sia pure all’interno di un minimo e un massimo di mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, «avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti». Inoltre, a conferma dell’esigenza di scrutinare in modo accurato l’entità della misura risarcitoria e di calarla nell’organizzazione aziendale, la stessa disposizione dà rilievo all’anzianità di servizio per ampliare ulteriormente la discrezionalità del giudice, relativamente ai datori di lavoro che occupano più di quindici prestatori di lavoro. L’anzianità di servizio superiore a dieci o a venti anni consente, infatti, la maggiorazione dell’indennità fino, rispettivamente, a dieci e a quattordici mensilità. Anche l’art. 18, quinto comma, della legge n. 300 del 1970 (come sostituito dall’art. 1, comma 42, lettera b, della legge n. 92 del 2012) prevede che l’indennità risarcitoria sia determinata dal giudice tra un minimo e un massimo di mensilità, seguendo criteri in larga parte analoghi a quelli indicati in precedenza, avuto riguardo anche alle «dimensioni dell’attività economica».

Il legislatore ha dunque, come appare evidente, sempre valorizzato la molteplicità dei fattori che incidono sull’entità del pregiudizio causato dall’ingiustificato licenziamento e conseguentemente sulla misura del risarcimento.

Da tale percorso si discosta la disposizione censurata. Ciò accade proprio quando viene meno la tutela reale, esclusa, come già detto, per i lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015, salvo che nei casi di cui al comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.

In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima.

All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza.

La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse.

12.− L’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», contrasta altresì con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente (quarto dei profili di violazione dell’art. 3 Cost. prospettati dal rimettente).

12.1.− Quanto al primo aspetto, si è detto che la previsione denunciata, nel prestabilire interamente la misura dell’indennità, la connota, oltre che come «certa», anche come rigida, perché non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio. Inoltre, l’impossibilità di incrementare l’indennità, fornendo la relativa prova, la configura come una liquidazione legale forfetizzata, in relazione, appunto, all’unico parametro prefissato dell’anzianità di servizio.

In occasione dell’esame di disposizioni introduttive di forfetizzazioni legali limitative del risarcimento del danno, questa Corte ha più volte affermato che «”la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale” (sentenza n. 148 del 1999), purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991)» (sentenza n. 303 del 2011, punto 3.3.1. del Considerato in diritto). Il risarcimento, dunque, ancorché non necessariamente riparatorio dell’intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere necessariamente equilibrato.

Dalle stesse pronunce emerge altresì che l’adeguatezza del risarcimento forfetizzato richiede che esso sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto (sentenze n. 235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000, n. 132 del 1985).

Non contrasta con tale nozione di adeguatezza il limite di ventiquattro (ora trentasei) mensilità, fissato dal legislatore quale soglia massima del risarcimento.

Si deve infine osservare che la rigida dipendenza dell’aumento dell’indennità dalla sola crescita dell’anzianità di servizio mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata, come nel giudizio a quo. In tali casi, appare ancor più inadeguato il ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo, senza che a ciò possa sempre ovviare la previsione della misura minima dell’indennità di quattro (e, ora, di sei) mensilità.

12.2.− Quanto al secondo aspetto, l’inadeguatezza dell’indennità forfetizzata stabilita dalla previsione denunciata rispetto alla sua primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato è suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l’equilibrio degli obblighi assunti nel contratto.

12.3.− Sulla base di quanto argomentato, si deve dunque concludere che il denunciato art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro. Con il prevedere una tutela economica che può non costituire un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, la disposizione censurata comprime l’interesse del lavoratore in misura eccessiva, al punto da risultare incompatibile con il principio di ragionevolezza.

Il legislatore finisce così per tradire la finalità primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato.

13.− Dalla ritenuta irragionevolezza del censurato art. 3, comma 1, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», discende anche il vulnus recato da tale previsione agli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost. (lesione che il rimettente prospetta, in effetti, come dipendente dal vizio, denunciato come principale, di violazione dell’art. 3 Cost.).

Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa degli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., che tale interesse, appunto, proteggono.

L’irragionevolezza del rimedio previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 assume, in realtà, un rilievo ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (artt. 1, primo comma, 4 e 35 Cost.), per realizzare un pieno sviluppo della personalità umana (sentenza n. 163 del 1983, punto 6. del Considerato in diritto).

Il «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.) e la «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai «principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa» (punto 4. del Considerato in diritto), oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, là dove si afferma che «il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti» (punto 3. del Considerato in diritto).

14.− L’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», viola anche gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea.

Tale articolo prevede che, per assicurare l’effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, le Parti contraenti si impegnano a riconoscere «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione» (primo comma, lettera b).

Nella decisione resa a seguito del reclamo collettivo n. 106/2014, proposto dalla Finnish Society of Social Rights contro la Finlandia, il Comitato europeo dei diritti sociali ha chiarito che l’indennizzo è congruo se è tale da assicurare un adeguato ristoro per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un valido motivo e da dissuadere il datore di lavoro dal licenziare ingiustificatamente.

Il filo argomentativo che guida il Comitato si snoda dunque attraverso l’apprezzamento del sistema risarcitorio in quanto dissuasivo e, al tempo stesso, congruo rispetto al danno subito (punto 45).

Questa Corte ha già affermato l’idoneità della Carta sociale europea a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost. e ha anche riconosciuto l’autorevolezza delle decisioni del Comitato, ancorché non vincolanti per i giudici nazionali (sentenza n. 120 del 2018).

A ben vedere, l’art. 24, che si ispira alla già citata Convenzione OIL n. 158 del 1982, specifica sul piano internazionale, in armonia con l’art. 35, terzo comma, Cost. e e con riguardo al licenziamento ingiustificato, l’obbligo di garantire l’adeguatezza del risarcimento, in linea con quanto affermato da questa Corte sulla base del parametro costituzionale interno dell’art. 3 Cost. Si realizza, in tal modo, un’integrazione tra fonti e – ciò che più rileva – tra le tutele da esse garantite (sentenza n. 317 del 2009, punto 7. del Considerato in diritto, secondo cui «[i]l risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo»).

Per il tramite dell’art. 24 della Carta Sociale Europea, risultano pertanto violati sia l’art. 76 – nel riferimento operato dalla legge di delegazione al rispetto delle convenzioni internazionali – sia l’art. 117, primo comma, Cost..

15.− In conclusione, in parziale accoglimento delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 (in relazione sia al principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse, sia al principio di ragionevolezza), 4, primo comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma, Cost. (questi ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea), il denunciato art. 3, comma 1, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,».

Le «mensilità», cui fa ora riferimento l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sono da intendersi relative all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, così come si evince dal d.lgs. n. 23 del 2015 nel suo complesso, con riguardo alla commisurazione dei risarcimenti.

Nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio – criterio che è prescritto dall’art. 1, comma 7, lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n.23 del 2015 – nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti).


per questi motivi



LA CORTE COSTITUZIONALE


1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183) – sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96 – limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,»;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3, commi 2 e 3, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione – questi ultimi due articoli in relazione all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata a Ginevra dalla Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982, e all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 –, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 30 CDFUE, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 settembre 2018.