Nel contratto a tutele crescenti il giudice deve fare riferimento solo all'anzianità in caso di licenziamento illegittimo?
Ecco il testo della sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 2018
1.− Il Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro); e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183).
1.1.− L’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014, al dichiarato «scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione», delegò il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi, «in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali», nel rispetto dei principi e criteri direttivi della «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».
Gli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 − adottato dal Governo nell’esercizio di tale delega − dettano il regime di tutela del lavoratore contro i licenziamenti, rispettivamente, «discriminatorio, nullo e intimato in forma orale» (art. 2), «per giustificato motivo e giusta causa» quando si accerti che non ricorrono gli estremi di tali causali (art. 3) e affetto da «[v]izi formali e procedurali» (art. 4).
Come previsto, in generale, per il regime di tutela contro i licenziamenti illegittimi introdotto dal d.lgs. n. 23 del 2015, anche i denunciati artt. 2, 3 e 4 si applicano ai lavoratori, con «qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del […] decreto» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015); quindi, ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato instaurati a decorrere dal 7 marzo 2015. Ai lavoratori assunti prima di tale data continua pertanto ad applicarsi il “precedente” regime dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).
1.2.− Ad avviso del rimettente, le disposizioni denunciate, prevedendo che, nei casi di licenziamento illegittimo, al lavoratore assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015 spetta un’indennità «in misura […] modesta», stabilita in modo «automati[co]» − con esclusione, quindi, di «qualsiasi discrezionalità valutativa del giudice» − e, in particolare, «crescente solo in base alla anzianità di servizio», contrastano con gli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione.
1.2.1.− Con riferimento all’art. 3 Cost., il giudice a quo prospetta quattro distinti profili di illegittimità costituzionale.
Con il primo, lamenta che le disposizioni denunciate violano il principio di eguaglianza perché tutelano i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 in modo ingiustificatamente deteriore rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale data − i quali continuano a godere del più favorevole regime di tutela previsto dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012 −, considerato che «la data di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo sostanziale».
Con il secondo profilo, deduce che le stesse disposizioni violano il principio di eguaglianza anche perché, nell’ambito degli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, tutelano i lavoratori privi di qualifica dirigenziale in modo ingiustificatamente deteriore rispetto ai dirigenti, i quali, «non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente».
Con il terzo profilo, viene dedotto che le disposizioni censurate violano, ancora una volta, il principio di eguaglianza perché il carattere «fiss[o] e crescente solo in base all’anzianità di servizio» dell’indennità da esse prevista comporta anche che «situazioni molto dissimili nella sostanza» (quanto, in particolare, alla gravità del pregiudizio subito dal lavoratore) vengano tutelate in modo ingiustificatamente identico.
Con il quarto profilo, è dedotta l’irragionevolezza delle disposizioni censurate perché l’indennità da esse prevista, in quanto «modesta, fissa e crescente solo in base all’anzianità di servizio», non costituisce né un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente, sicché «non [è] soddisfa[tto] il test del bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco».
1.2.2.− Con riferimento agli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., il giudice a quo deduce che la normativa denunciata non può ritenersi rispettosa del valore attribuito al lavoro da tali parametri costituzionali giacché «sostanzialmente “valuta” il diritto al lavoro […] con una quantificazione […] modesta ed evanescente […] ed oltretutto fissa e crescente in base al parametro della mera anzianità» e considerato anche che «[l]e tutele dei licenziamenti […] sostengono la forza contrattuale del lavoratore nella relazione quotidiana sul luogo di lavoro» e «protegg[ono] le libertà fondamentali di lavoratrici e lavoratori» in tale luogo.
1.2.3.− Con riferimento, infine, agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., il rimettente deduce che le disposizioni denunciate non rispettano, quanto all’art. 76 Cost., il criterio direttivo, dettato dall’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014, della «coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali» e, quanto all’art. 117, primo comma, Cost., i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», perché si pongono in contrasto con le norme dell’Unione europea e internazionali che sanciscono il diritto del lavoratore «a una tutela efficace nei confronti di un licenziamento […] ingiustificato».
I suddetti parametri costituzionali sarebbero violati, in particolare, per il tramite di tre norme interposte.
Anzitutto, per il tramite dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che, con lo stabilire che «[o]gni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali», «impone agli Stati membri di garantire una adeguata tutela in caso di licenziamento ingiustificato».
In secondo luogo, per il tramite dell’art. 10 della Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata a Ginevra dalla Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982 (e non ratificata dall’Italia), là dove stabilisce che se il giudice o l’organismo arbitrale competenti che abbiano reputato ingiustificato il licenziamento non hanno il potere di annullarlo, e/o di ordinare o di proporre la reintegrazione del lavoratore, o non ritengono che ciò sia possibile nella situazione data, «dovranno essere abilitati ad ordinare il versamento di un indennizzo adeguato o ogni altra forma di riparazione considerata come appropriata».
In terzo luogo, per il tramite dell’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30, secondo cui, «[p]er assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s’impegnano a riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione» (primo paragrafo).
2.− Per prima cosa, deve essere confermata la dichiarazione di inammissibilità dell’intervento spiegato dalla Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), per le ragioni esposte nell’ordinanza letta nel corso dell’udienza pubblica e allegata alla presente sentenza.
3.− In linea preliminare, occorre rilevare che, successivamente all’ordinanza di rimessione, è entrato in vigore il decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96. Tale decreto, all’art. 3, comma 1, ha modificato una delle disposizioni oggetto del presente giudizio, e cioè l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alla parte in cui stabilisce il limite minimo e il limite massimo entro cui è possibile determinare l’indennità da corrispondere al lavoratore ingiustamente licenziato. Il citato art. 3, comma 1, del d.l. n. 87 del 2018 ha innalzato tali limiti, rispettivamente, da quattro a sei mensilità (limite minimo) e da ventiquattro a trentasei mensilità (limite massimo) dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (TFR).
Il rimettente denuncia l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in quanto dispone che il giudice, una volta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, che deve essere di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, entro una soglia minima e una soglia massima.
Non è dunque il quantum delle soglie minima e massima entro cui può essere stabilita l’indennità al cuore delle doglianze, ma il meccanismo di determinazione dell’indennità, configurato dalla norma censurata. Il rimettente lamenta, infatti, che la norma in esame introduce un criterio rigido e automatico, basato sull’anzianità di servizio, tale da precludere qualsiasi «discrezionalità valutativa del giudice», in violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, in quanto in contrasto con l’esigenza di assicurare un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subìto dal lavoratore, nonché un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente.
Poiché il contenuto della novella legislativa è circoscrivibile entro questi confini, ben può questa Corte autonomamente valutare in che misura lo ius superveniens incida sul presente giudizio incidentale e se si spinga fino a modificare «la norma censurata quanto alla parte oggetto delle censure di legittimità costituzionale» (sentenza n. 125 del 2018). Nel caso in esame non è stato intaccato il meccanismo contestato, sicché non mutano i termini essenziali della questione posta dal giudice a quo.
Tanto basta per escludere la necessità di restituire gli atti al giudice rimettente perché valuti la permanenza o no dei dubbi di legittimità costituzionale espressi nell’ordinanza di rimessione.
4.− Prima di esaminare le questioni di legittimità costituzionale sollevate, va rilevato che, nel proprio atto di costituzione in giudizio, Francesca Santoro ha dedotto l’irragionevolezza delle disposizioni censurate sotto il profilo, ulteriore rispetto a quelli indicati nell’ordinanza di rimessione, che esse sarebbero inidonee a conseguire lo scopo dichiarato di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione».
Tale censura si traduce in una questione non sollevata dal giudice rimettente ed è, perciò, inammissibile.
Infatti, in base alla costante giurisprudenza di questa Corte, «”l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione. Pertanto, non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze” (ex plurimis, sentenze n. 251 del 2017, n. 214 del 2016, n. 231 e n. 83 del 2015)» (sentenza n. 4 del 2018, punto 2. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 29 del 2017).
5.− Sempre in via preliminare, devono essere esaminati, d’ufficio, alcuni profili che attengono all’ammissibilità delle questioni sollevate dal giudice rimettente.
5.1.− Anzitutto, è necessario verificare, alla luce di quanto risulta dall’ordinanza di rimessione, l’effettiva applicabilità nel giudizio a quo delle diverse disposizioni denunciate e, conseguentemente, l’effettiva rilevanza delle questioni di costituzionalità delle stesse.
Va osservato che, nel descrivere la fattispecie al suo esame, il giudice rimettente espone che la lavoratrice ricorrente era stata licenziata, il 15 dicembre 2015, «per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604» e aveva impugnato il licenziamento «invoca[ndo] la tutela di cui all’art. 3 del D.Lgs. 23/2015». Lo stesso rimettente afferma poi di ritenere che, «a fronte della estrema genericità della motivazione addotta e della assoluta mancanza di prova della fondatezza di alcune delle circostanze laconicamente accennate nell’espulsione, il vizio ravvisabile sia il più grave fra quelli indicati, vale a dire la “non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”» e che, poiché la lavoratrice ricorrente è stata assunta a decorrere dal 7 marzo 2015, «ha diritto soltanto a quattro mensilità».
Dall’esposizione del giudice a quo si evince in modo inequivocabile che il giudizio principale ha a oggetto un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che la lavoratrice ricorrente ha chiesto la tutela prevista dall’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 per i casi in cui non ricorrono gli estremi, tra le altre, di tale causale e che anche il rimettente ritiene che il caso sottoposto al suo esame sia inquadrabile in tale fattispecie e comporti la tutela («quattro mensilità») di cui all’art. 3 (comma 1) del d.lgs. n. 23 del 2015, nel testo originario.
5.1.1.− Alla luce di questi elementi, quali emergono dalla stessa ordinanza di rimessione, è del tutto evidente l’inapplicabilità nel giudizio a quo dell’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015.
Quest’ultimo, infatti, stabilisce la tutela per i casi di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale, completamente estranei allo stesso giudizio.
Da ciò l’irrilevanza delle questioni aventi a oggetto l’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015.
5.1.2.− Parimenti inapplicabile nel giudizio a quo è l’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015.
Questo articolo, infatti, stabilisce la tutela per le ipotesi, in esso indicate, di vizi formali e procedurali del recesso datoriale, anch’esse estranee al medesimo giudizio.
È lo stesso rimettente a considerare il vizio formale di motivazione del licenziamento in termini di mera ipotesi, ipotesi che egli stesso però scarta, in favore del vizio sostanziale della «non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».
Da ciò l’irrilevanza anche delle questioni aventi a oggetto l’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015.
5.1.3.− Passando all’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, nonostante il rimettente lo censuri nella sua interezza, risulta evidente che egli non deve fare applicazione né del comma 2 né del comma 3 di tale articolo. Comunque, egli non fornisce alcuna motivazione sul perché debba fare applicazione degli stessi.
5.1.3.1.− Quanto al comma 2, esso stabilisce la tutela per i casi di «licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore», cioè per fattispecie diverse da quella oggetto del giudizio a quo. Inoltre, il comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 prevede una tutela che consiste nell’annullamento del licenziamento e nella condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, oltre che al pagamento di un’indennità. Si tratta di una tutela completamente diversa da quella, meramente monetaria, che lo stesso rimettente afferma di dovere applicare, prevista non dal comma 2 ma dal comma 1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.
Da ciò l’irrilevanza delle questioni aventi a oggetto il comma 2 di tale articolo.
5.1.3.2.− Quanto al comma 3, esso stabilisce che al licenziamento dei lavoratori che, a norma dell’art. 1 del d.lgs. n. 23 del 2015, rientrano nel campo di applicazione di tale decreto, «non trova applicazione l’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni».
Questo articolo, come sostituito dall’art. 1, comma 40, della legge n. 92 del 2012, prevede che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto dai datori di lavoro che hanno i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, ottavo comma, della legge n. 300 del 1970, deve essere preceduto da una procedura preventiva conciliativa obbligatoria. Il comma 3 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 dispone dunque che tale procedura non si applica ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, rientranti nel campo di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015.
Sul perché debba fare applicazione di tale comma, il rimettente nulla dice.
Sotto altro profilo, non spiega neppure perché dubiti che esso contrasti con i parametri costituzionali invocati. Nulla si eccepisce, in effetti, a proposito dell’esclusione dell’applicazione dell’art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che rientrano nel campo di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015, prevista dal comma 3 dell’art. 3 di tale decreto.
Da ciò l’inammissibilità, per difetto di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, delle questioni aventi a oggetto il comma 3 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.
5.1.4.− Da quanto sin qui esposto risulta che, tra le disposizioni del d.lgs. n. 23 del 2015 denunciate, l’unica che il rimettente deve effettivamente applicare è l’art. 3, comma 1.
Esso stabilisce che «[s]alvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità».
Del resto, le censure e le relative argomentazioni dell’ordinanza di rimessione riguardano tutte il contrasto con gli invocati parametri costituzionali dell’indennità disciplinata da tale disposizione.
5.2.− Quest’ultimo rilievo consente di valutare un ulteriore profilo di inammissibilità che riguarda le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014.
L’unico specifico riferimento che l’ordinanza di rimessione fa all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014, quale oggetto del giudizio di legittimità costituzionale (nella stessa ordinanza, l’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 è anche, come si è visto, parametro interposto delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost.), è costituito dall’affermazione che le tutele previste dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 sono «frutto della delega contenuta nella legge n. 183/2014»
Questa laconica frase non fornisce, all’evidenza, un’argomentazione sufficiente del contrasto del denunciato art. 1, comma 7, lettera c), con i parametri costituzionali invocati.
Del resto, si deve osservare che, ancorché non intenda chiaramente censurare tutti i principi e criteri direttivi dettati dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 – si pensi, oltre a quello «generale», invocato come parametro interposto, della «coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali», all’«esclu[sione] per i licenziamenti economici [del]la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro», che nell’ordinanza di rimessione si nega espressamente di voler contestare – il giudice a quo omette finanche di specificare quali di essi ritenga possano recare un vulnus ai parametri costituzionali invocati.
Da ciò l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.
5.3.− Dalle argomentazioni che precedono consegue, pertanto, che le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 e degli artt. 2, 3, commi 2 e 3, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 devono essere dichiarate inammissibili per difetto, rispettivamente, di rilevanza (artt. 2, 3, comma 2, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015), di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza (art. 3, comma 3) e di motivazione sulla non manifesta infondatezza (art. 1, comma 7, lettera c, della legge n. 183 del 2014).
5.4.− Il giudizio di legittimità costituzionale resta, dunque, circoscritto al solo art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015.
Prima di scrutinare il merito delle questioni aventi a oggetto tale disposizione, occorre verificare l’ammissibilità di quella sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione allo specifico parametro interposto dell’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento.
Questa convenzione internazionale, che ha vocazione costituzionale, nello spirito dell’art. 35, terzo comma, Cost., non è stata ratificata dall’Italia, pertanto non è da ritenersi vincolante, né può integrare il parametro costituzionale evocato, poiché l’art. 117, primo comma, Cost., fa riferimento al rispetto dei «vincoli» derivanti dagli «obblighi internazionali».
Non si può pervenire a diversa conclusione neanche con riguardo alla possibile idoneità di tale Convenzione a integrare il parametro dell’art. 76 Cost. Se è vero, infatti, che l’alinea dell’art. 1, comma 7, della legge di delegazione n. 183 del 2014 fa riferimento, senza ulteriori specificazioni, alle «convenzioni internazionali», da tale generica dicitura non si può certamente far discendere l’obbligo per il legislatore delegato del rispetto di convenzioni cui l’Italia, non avendo inteso ratificarle, non è vincolata.
Dall’inidoneità della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento, in quanto non ratificata dall’Italia, a integrare i parametri degli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., discende l’inammissibilità della questione sollevata dal rimettente in relazione all’art. 10 della stessa.
Tale conclusione deve essere ribadita anche con riferimento a quanto sembrerebbe ritenere la parte costituita Francesca Santoro., secondo cui la Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 «assume diretta rilevanza come obbligo per lo Stato di non attuare, nelle more della ratifica, una legislazione in contrasto con l’obbligazione assunta a livello internazionale».
L’obbligo di buona fede stabilito dall’art. 18 della Convenzione sul diritto dei trattati, adottata a Vienna il 23 maggio 1969, ratificata e resa esecutiva con la legge 12 febbraio 1974, n. 112, che si sostanzia, tra l’altro, nell’astensione degli Stati dal compiere atti suscettibili di privare un trattato del suo oggetto e del suo scopo, non può spingersi fino a escludere la discrezionalità della ratifica e l’ineludibilità di essa ai fini dell’obbligatorietà del trattato − per l’Italia − sul piano internazionale. Si conferma, pertanto, l’inidoneità dell’invocata Convenzione OIL a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost.
6.− Si può ora passare allo scrutinio della prima delle questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., con la quale il rimettente deduce che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 viola il principio di eguaglianza, perché tutela i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 in modo ingiustificatamente deteriore rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale data.
La questione non è fondata.
Va anzitutto dato atto della correttezza del presupposto – da cui il rimettente muove nel sollevarla − secondo cui il regime di tutela dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, applicabile agli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, è meno favorevole di quello dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, applicabile ai lavoratori assunti prima di tale data. Infatti, quando sia accertata l’insussistenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, il censurato art. 3, comma 1, prevede, in ogni caso, la tutela solo economica costituita dall’indennità di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, col minimo di quattro (ora sei) e il massimo di ventiquattro (ora trentasei) mensilità. L’art. 18 della legge n. 300 del 1970 prevede invece la tutela specifica della reintegrazione nel posto di lavoro, oltre alla tutela per equivalente del risarcimento del danno fino a un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, nei casi di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo» (settimo comma, secondo periodo, prima frase, secondo cui il giudice «[p]uò» applicare tale disciplina), nonché, nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, nei casi di «insussistenza del fatto contestato» e nei casi in cui tale fatto «rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base […] dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» (quarto comma, primo periodo). Negli altri casi prevede la tutela per equivalente del risarcimento del danno tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (quinto comma, cui pure rinvia il settimo comma, secondo periodo, seconda frase).
Si deve osservare che, denunciando la disparità di trattamento tra nuovi assunti (cui si applica il meno favorevole regime di tutela del d.lgs. n. 23 del 2015) e vecchi assunti (cui si applica il più favorevole regime di tutela dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970), il rimettente, diversamente che nelle altre questioni sollevate, non censura la disciplina sostanziale del primo di tali regimi, ma il criterio di applicazione temporale della stessa, costituito dalla data di assunzione del lavoratore a decorrere dall’entrata in vigore del decreto. L’asserita irragionevolezza del deteriore trattamento dei nuovi assunti è infatti motivata censurando non tanto il regime di tutela per essi dettato dal d.lgs. n. 23 del 2015, quanto, piuttosto, il criterio di applicazione temporale di tale regime. Si afferma che «la data di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo sostanziale».
Se questo è il contenuto della censura in esame, occorre ricordare che, a proposito della delimitazione della sfera di applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel tempo, nella giurisprudenza di questa Corte è costante l’affermazione – nota anche al giudice rimettente – che «non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche (ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008)» (sentenza n. 254 del 2014, punto 3. del Considerato in diritto). Questa Corte ha al riguardo argomentato che «[s]petta difatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme […] (sentenze n. 273 del 2011, punto 4.2. del Considerato in diritto, e n. 94 del 2009, punto 7.2. del Considerato in diritto)» (sentenza n. 104 del 2018, punto 7.1. del Considerato in diritto).
È proprio tale «canone di ragionevolezza» che il rimettente mostra di ritenere violato, quando afferma che «la data di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo sostanziale».
La modulazione temporale dell’applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015, censurata dal rimettente, non contrasta con il «canone di ragionevolezza» e, quindi, con il principio di eguaglianza, se a essa si guarda alla luce della ragione giustificatrice – del tutto trascurata dal giudice rimettente – costituita dallo «scopo», dichiaratamente perseguito dal legislatore, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (alinea dell’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014).
Lo scopo dell’intervento, così esplicitato, mostra come la predeterminazione e l’alleggerimento delle conseguenze del licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato siano misure dirette a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro per chi di un lavoro fosse privo, e, in particolare, a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Il regime temporale di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 si rivela coerente con tale scopo. Poiché l’introduzione di tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo è diretta a incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, appare coerente limitare l’applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita.
Pertanto, l’applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 ai lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, in quanto conseguente allo scopo che il legislatore si è prefisso, non può ritenersi irragionevole. Di conseguenza, il deteriore trattamento di tali lavoratori rispetto a quelli assunti prima di tale data non viola il principio di eguaglianza.
Tanto chiarito circa la non irragionevolezza del contestato regime temporale, non spetta a questa Corte addentrarsi in valutazioni sui risultati che la politica occupazionale perseguita dal legislatore può aver conseguito.
7.− Con la seconda delle questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., il rimettente deduce che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 viola il principio di eguaglianza perché, nell’ambito degli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, tutela i lavoratori privi di qualifica dirigenziale in modo ingiustificatamente deteriore rispetto ai dirigenti, i quali, «non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente».
La questione non è fondata.
Questa Corte ha da tempo chiarito che il dirigente, pur rientrando, per espressa previsione dell’art. 2095, primo comma, del codice civile, tra i lavoratori subordinati, «si caratterizza per alcune significative diversità rispetto alle altre figure dei quadri, impiegati ed operai» (sentenza 228 del 2001, punto 2. del Considerato in diritto). Sicché «le due categorie non sono affatto omogenee ed i due rapporti di lavoro sono nettamente differenziati» (sentenza 309 del 1992, punto 3. del Considerato in diritto).
La diversità del lavoro dei dirigenti ha indotto questa Corte a più riprese a ribadire che non contrasta con l’art. 3 Cost. l’esclusione degli stessi dall’applicazione della generale disciplina legislativa sui licenziamenti individuali, compresa la regola della necessaria giustificazione del licenziamento (sentenze n. 228 del 2001, n. 309 del 1992 e n. 121 del 1972, ordinanza n. 404 del 1992; queste ultime due pronunce riguardano, in particolare, l’art. 10 della legge n. 604 del 1966, che esclude i dirigenti dall’applicazione, tra l’altro, dell’art. 1 di tale legge, cioè della disposizione che richiede l’esistenza di una «giusta causa» o di un «giustificato motivo» di licenziamento).
In ragione di questa perdurante esclusione si deve confermare che, anche nel sistema vigente, i dirigenti non sono comparabili alle altre categorie dei prestatori di lavoro di cui all’art. 2095, primo comma del codice civile.
8.− Del pari non fondata è la prima delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., con cui il giudice rimettente deduce che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 viola tali disposizioni costituzionali per il tramite del parametro interposto dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
A norma dell’art. 51 CDFUE, «[l]e disposizioni della presente Carta si applicano […] agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» (comma 1, primo periodo). Sulla base di tale disposizione, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha costantemente asserito che le disposizioni della CDFUE sono applicabili agli Stati membri «quando agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione» (ex plurimis, Grande sezione, sentenza 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Åklagaren contro Hans Åkerberg Fransson e, più recentemente, Ottava sezione, ordinanza 26 ottobre 2017, causa C-333/17, Caixa Económica Montepio Geral contro Carlos Samuel Pimenta Marinh e altri). Questa Corte ha perciò affermato che, «perché la Carta dei diritti UE sia invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale, occorre, dunque, che la fattispecie oggetto di legislazione interna “sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto” (sentenza n. 80 del 2011)» (sentenza n. 63 del 2016, punto 7. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 111 del 2017 e ordinanza n. 138 del 2011).
Nessun elemento consente di ritenere che la censurata disciplina dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sia stata adottata in attuazione del diritto dell’Unione, in particolare, per attuare disposizioni nella materia dei licenziamenti individuali.
Più nel dettaglio, ai fini dell’applicabilità della CDFUE, l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 dovrebbe rientrare nell’ambito di applicazione di una norma del diritto dell’Unione diversa da quelle della Carta stessa (ex plurimis, Corte di giustizia, terza sezione, sentenza 1° dicembre 2016, causa C-395/15, Mohamed Daouidi contro Bootes Plus SL e altri, punto 64; ottava sezione, ordinanze 8 dicembre 2016, causa C-27/16, Angel Marinkov contro Predsedatel na Darzhavna agentsia za balgarite v chuzhbina, punto 49, e 16 gennaio 2014, causa C-332/13, Ferenc Weigl contro Nemzeti Innovációs Hivatal, punto 14; terza sezione, ordinanza 12 luglio 2012, causa C-466/11, Gennaro Currà e altri contro Bundesrepublik Deutschland, punto 26).
Il solo fatto che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 ricada in un settore nel quale l’Unione è competente ai sensi dell’art. 153, paragrafo 2, lettera d), del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) non può comportare l’applicabilità della Carta dato che, riguardo alla disciplina dei licenziamenti individuali (e, tanto meno, nella situazione specificamente regolata dall’art. 3, comma 1), l’Unione non ha in concreto esercitato tale competenza, né ha adottato, mediante direttive, prescrizioni minime (ex plurimis, Corte di giustizia, decima sezione, sentenza 5 febbraio 2015, causa C-117/14, Grima Janet Nisttahuz Poclava contro Jose María Ariza Toledano, punto 41; quinta sezione, sentenza 10 luglio 2014, causa C-198/13, Víctor Manuel Julian Hernández e altri contro Regno di Spagna e altri, punti 36 e 46; settima sezione, ordinanza 16 gennaio 2008, causa C-361/07, Olivier Polier contro Najar EURL, punto 13).
Contrariamente a quanto mostra di reputare la difesa della parte costituita, non si può ritenere che la normativa censurata sia stata adottata in attuazione della direttiva 20 luglio 1998, n. 98/59/CE (Direttiva del Consiglio concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi), poiché, come è chiaro, l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 disciplina i licenziamenti individuali.
Al fine di sostenere la sussistenza, nelle disposizioni denunciate, di una «fattispecie europea», la parte costituita ha argomentato – in verità, in modo assai generico − che esse ricadrebbero nell’ambito della politica dell’occupazione dell’Unione e, in particolare, nell’ambito delle misure adottate in risposta alle raccomandazioni del Consiglio. Tali raccomandazioni, previste dall’art. 148, paragrafo 4, TFUE all’esito dell’esame annuale svolto dalle istituzioni europee circa la situazione dell’occupazione nell’Unione, rientrano nella discrezionalità del Consiglio e sono prive di forza vincolante.
Non vi sono dunque disposizioni del diritto dell’Unione che impongano specifici obblighi agli Stati membri – né all’Italia in particolare − nella materia disciplinata dal censurato art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015. Si deve pertanto escludere che la CDFUE sia applicabile alla fattispecie e che l’art. 30 della stessa Carta possa essere invocato, quale parametro interposto, nella presente questione di legittimità costituzionale. Da ciò la non fondatezza della stessa.
9.− Le ulteriori questioni, con cui il rimettente lamenta che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, prevedendo una tutela contro i licenziamenti ingiustificati rigida e inadeguata, viola gli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma, Cost. – questi ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea – sono fondate nei limiti che saranno ora indicati.
Prima di esaminarle singolarmente, è utile prendere le mosse dalla giurisprudenza di questa Corte che, sin da epoca risalente, si è soffermata sugli aspetti peculiari della disciplina dei licenziamenti per delineare i confini della giustificazione, da un lato, e della tutela avverso quelli illegittimi, dall’altro.
9.1.− Nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2118 cod. civ., sollevata in riferimento all’art. 4 Cost., questa Corte affermò che il diritto al lavoro, «fondamentale diritto di libertà della persona umana», pur non garantendo «il diritto alla conservazione del lavoro», tuttavia «esige che il legislatore […] adegui […] la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie […] e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti» (sentenza n. 45 del 1965, punti 3. e 4. del Considerato in diritto). Questa esortazione, come è noto, fu accolta con l’approvazione della legge n. 604 del 1966, che sancì, all’art. 1, il principio della necessaria giustificazione del licenziamento, da considerarsi illegittimo se non sorretto da una «giusta causa» o da un «giustificato motivo».
Si è in seguito affermato il «diritto [garantito dall’art. 4 Cost.] a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto 9. del Considerato in diritto) e si è poi ribadita la «garanzia costituzionale [del] diritto di non subire un licenziamento arbitrario» (sentenza n. 541 del 2000, punto 2. del Considerato in diritto e ordinanza n. 56 del 2006).
L’«indirizzo di progressiva garanzia del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 Cost., che ha portato, nel tempo, a introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro» (sentenza n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto), si riscontra in una successiva pronuncia, in cui si afferma che «la materia dei licenziamenti individuali è oggi regolata, in presenza degli artt. 4 e 35 della Costituzione, in base al principio della necessaria giustificazione del recesso» (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto).
L’affermazione sempre più netta del «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.), affiancata alla «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.), si sostanzia nel riconoscere, tra l’altro, che i limiti posti al potere di recesso del datore di lavoro correggono un disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro. Il forte coinvolgimento della persona umana – a differenza di quanto accade in altri rapporti di durata – qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele.
9.2.− Al percorso della giurisprudenza costituzionale ora evocato, si è affiancato quello – parallelo e qui più direttamente rilevante – concernente la tutela del lavoratore nel caso di licenziamento illegittimo.
Questa giurisprudenza ha valorizzato la discrezionalità del legislatore in materia.
Già la sentenza n. 194 del 1970, dopo avere affermato che i principi cui si ispira l’art. 4 della Costituzione «esprimono l’esigenza di un contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro, e quindi dell’ampliamento della tutela del lavoratore, quanto alla conservazione del posto di lavoro», precisò che «[l]’attuazione di questi principi resta tuttavia affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi, in rapporto ovviamente alla situazione economica generale» (punto 4. del Considerato in diritto).
Nello stesso senso si sono successivamente espresse le sentenze n. 55 del 1974, n. 189 del 1975 e n. 2 del 1986.
Più di recente, questa Corte ha espressamente negato che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore, imponga un determinato regime di tutela (sentenza n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto).
Il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, «non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme» (sentenza n. 268 del 1994, punto 5. del Considerato in diritto).
10.− Questa breve disamina dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di licenziamenti serve a enucleare l’ambito delle tutele fondate sugli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., interpretati congiuntamente. Su questo sfondo si deve collocare l’analisi della tutela prevista dal censurato art. 3, comma 1.
Si tratta di una tutela non specifica dell’interesse del lavoratore all’adempimento del contratto di lavoro a tempo indeterminato – la reintegrazione è, infatti, preclusa – ma per equivalente e, quindi, soltanto economica.
È necessario fin da ora chiarire che questo meccanismo di tutela sorregge l’intero impianto della disciplina delineata dal legislatore, anche nei casi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa (salve le ipotesi, disciplinate dal comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, in cui «sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore»). Questa Corte non può dunque esimersi da uno scrutinio complessivo del denunciato art. 3, comma 1, entro cui rientra anche il caso in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, fattispecie quest’ultima che ricorre nel giudizio a quo.
La qualificazione come «indennità» dell’obbligazione prevista dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 non ne esclude la natura di rimedio risarcitorio, a fronte di un licenziamento. Quest’ultimo, anche se efficace, in quanto idoneo a estinguere il rapporto di lavoro, costituisce pur sempre un atto illecito, essendo adottato in violazione della preesistente non modificata norma imperativa secondo cui «il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo» (art. 1 della legge n. 604 del 1966).
Quanto alla misura della stessa indennità – e, quindi, del risarcimento riconosciuto al lavoratore per il danno causato dal licenziamento illegittimo, che specularmente incide nella sfera economica del datore di lavoro – essa è interamente prestabilita dal legislatore in due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio.
Il meccanismo di quantificazione indicato connota l’indennità come rigida, in quanto non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio, e la rende uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità. L’indennità assume così i connotati di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, proprio perché ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio, a fronte del danno derivante al lavoratore dall’illegittima estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.
Il meccanismo di quantificazione dell’indennità opera entro limiti predefiniti sia verso il basso sia verso l’alto. Verso il basso la previsione di una misura minima dell’indennità è pari a quattro (ora sei) mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, verso l’alto la previsione di una misura massima dell’indennità è pari a ventiquattro (ora trentasei) mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.
Una tale predeterminazione forfetizzata del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo non risulta incrementabile, pur volendone fornire la relativa prova. Nonostante il censurato art. 3, comma 1 – diversamente dal vigente art. 18, quinto comma, della legge n. 300 del 1970 – non definisca l’indennità «onnicomprensiva», è in effetti palese la volontà del legislatore di predeterminare compiutamente le conseguenze del licenziamento illegittimo, in conformità al principio e criterio direttivo dettato dalla legge di delegazione di prevedere un indennizzo economico «certo».
11.− Ricostruite le caratteristiche della tutela prevista dal denunciato art. 3, comma 1, tale disposizione, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», contrasta, anzitutto, con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse (terzo dei profili di violazione dell’art. 3 Cost. prospettati dal rimettente).
Come si è visto, nel prestabilirne interamente il quantum in relazione all’unico parametro dell’anzianità di servizio, la citata previsione connota l’indennità, oltre che come rigida, come uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità.
È un dato di comune esperienza, ampiamente comprovato dalla casistica giurisprudenziale, che il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori. L’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è dunque solo uno dei tanti.
Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 il legislatore ha ripetutamente percorso la strada che conduce all’individuazione di tali molteplici fattori.
L’art. 8 della legge n. 604 del 1966 (come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990), ad esempio, lascia al giudice determinare l’obbligazione alternativa indennitaria, sia pure all’interno di un minimo e un massimo di mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, «avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti». Inoltre, a conferma dell’esigenza di scrutinare in modo accurato l’entità della misura risarcitoria e di calarla nell’organizzazione aziendale, la stessa disposizione dà rilievo all’anzianità di servizio per ampliare ulteriormente la discrezionalità del giudice, relativamente ai datori di lavoro che occupano più di quindici prestatori di lavoro. L’anzianità di servizio superiore a dieci o a venti anni consente, infatti, la maggiorazione dell’indennità fino, rispettivamente, a dieci e a quattordici mensilità. Anche l’art. 18, quinto comma, della legge n. 300 del 1970 (come sostituito dall’art. 1, comma 42, lettera b, della legge n. 92 del 2012) prevede che l’indennità risarcitoria sia determinata dal giudice tra un minimo e un massimo di mensilità, seguendo criteri in larga parte analoghi a quelli indicati in precedenza, avuto riguardo anche alle «dimensioni dell’attività economica».
Il legislatore ha dunque, come appare evidente, sempre valorizzato la molteplicità dei fattori che incidono sull’entità del pregiudizio causato dall’ingiustificato licenziamento e conseguentemente sulla misura del risarcimento.
Da tale percorso si discosta la disposizione censurata. Ciò accade proprio quando viene meno la tutela reale, esclusa, come già detto, per i lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015, salvo che nei casi di cui al comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.
In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima.
All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza.
La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse.
12.− L’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», contrasta altresì con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente (quarto dei profili di violazione dell’art. 3 Cost. prospettati dal rimettente).
12.1.− Quanto al primo aspetto, si è detto che la previsione denunciata, nel prestabilire interamente la misura dell’indennità, la connota, oltre che come «certa», anche come rigida, perché non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio. Inoltre, l’impossibilità di incrementare l’indennità, fornendo la relativa prova, la configura come una liquidazione legale forfetizzata, in relazione, appunto, all’unico parametro prefissato dell’anzianità di servizio.
In occasione dell’esame di disposizioni introduttive di forfetizzazioni legali limitative del risarcimento del danno, questa Corte ha più volte affermato che «”la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale” (sentenza n. 148 del 1999), purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991)» (sentenza n. 303 del 2011, punto 3.3.1. del Considerato in diritto). Il risarcimento, dunque, ancorché non necessariamente riparatorio dell’intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere necessariamente equilibrato.
Dalle stesse pronunce emerge altresì che l’adeguatezza del risarcimento forfetizzato richiede che esso sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto (sentenze n. 235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000, n. 132 del 1985).
Non contrasta con tale nozione di adeguatezza il limite di ventiquattro (ora trentasei) mensilità, fissato dal legislatore quale soglia massima del risarcimento.
Si deve infine osservare che la rigida dipendenza dell’aumento dell’indennità dalla sola crescita dell’anzianità di servizio mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata, come nel giudizio a quo. In tali casi, appare ancor più inadeguato il ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo, senza che a ciò possa sempre ovviare la previsione della misura minima dell’indennità di quattro (e, ora, di sei) mensilità.
12.2.− Quanto al secondo aspetto, l’inadeguatezza dell’indennità forfetizzata stabilita dalla previsione denunciata rispetto alla sua primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato è suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l’equilibrio degli obblighi assunti nel contratto.
12.3.− Sulla base di quanto argomentato, si deve dunque concludere che il denunciato art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro. Con il prevedere una tutela economica che può non costituire un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, la disposizione censurata comprime l’interesse del lavoratore in misura eccessiva, al punto da risultare incompatibile con il principio di ragionevolezza.
Il legislatore finisce così per tradire la finalità primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato.
13.− Dalla ritenuta irragionevolezza del censurato art. 3, comma 1, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», discende anche il vulnus recato da tale previsione agli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost. (lesione che il rimettente prospetta, in effetti, come dipendente dal vizio, denunciato come principale, di violazione dell’art. 3 Cost.).
Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa degli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., che tale interesse, appunto, proteggono.
L’irragionevolezza del rimedio previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 assume, in realtà, un rilievo ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (artt. 1, primo comma, 4 e 35 Cost.), per realizzare un pieno sviluppo della personalità umana (sentenza n. 163 del 1983, punto 6. del Considerato in diritto).
Il «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.) e la «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai «principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa» (punto 4. del Considerato in diritto), oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, là dove si afferma che «il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti» (punto 3. del Considerato in diritto).
14.− L’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», viola anche gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea.
Tale articolo prevede che, per assicurare l’effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, le Parti contraenti si impegnano a riconoscere «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione» (primo comma, lettera b).
Nella decisione resa a seguito del reclamo collettivo n. 106/2014, proposto dalla Finnish Society of Social Rights contro la Finlandia, il Comitato europeo dei diritti sociali ha chiarito che l’indennizzo è congruo se è tale da assicurare un adeguato ristoro per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un valido motivo e da dissuadere il datore di lavoro dal licenziare ingiustificatamente.
Il filo argomentativo che guida il Comitato si snoda dunque attraverso l’apprezzamento del sistema risarcitorio in quanto dissuasivo e, al tempo stesso, congruo rispetto al danno subito (punto 45).
Questa Corte ha già affermato l’idoneità della Carta sociale europea a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost. e ha anche riconosciuto l’autorevolezza delle decisioni del Comitato, ancorché non vincolanti per i giudici nazionali (sentenza n. 120 del 2018).
A ben vedere, l’art. 24, che si ispira alla già citata Convenzione OIL n. 158 del 1982, specifica sul piano internazionale, in armonia con l’art. 35, terzo comma, Cost. e e con riguardo al licenziamento ingiustificato, l’obbligo di garantire l’adeguatezza del risarcimento, in linea con quanto affermato da questa Corte sulla base del parametro costituzionale interno dell’art. 3 Cost. Si realizza, in tal modo, un’integrazione tra fonti e – ciò che più rileva – tra le tutele da esse garantite (sentenza n. 317 del 2009, punto 7. del Considerato in diritto, secondo cui «[i]l risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo»).
Per il tramite dell’art. 24 della Carta Sociale Europea, risultano pertanto violati sia l’art. 76 – nel riferimento operato dalla legge di delegazione al rispetto delle convenzioni internazionali – sia l’art. 117, primo comma, Cost..
15.− In conclusione, in parziale accoglimento delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 (in relazione sia al principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse, sia al principio di ragionevolezza), 4, primo comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma, Cost. (questi ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea), il denunciato art. 3, comma 1, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,».
Le «mensilità», cui fa ora riferimento l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sono da intendersi relative all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, così come si evince dal d.lgs. n. 23 del 2015 nel suo complesso, con riguardo alla commisurazione dei risarcimenti.
Nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio – criterio che è prescritto dall’art. 1, comma 7, lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n.23 del 2015 – nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183) – sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96 – limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,»;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3, commi 2 e 3, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione – questi ultimi due articoli in relazione all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata a Ginevra dalla Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982, e all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 –, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 30 CDFUE, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 settembre 2018.