mercoledì 28 febbraio 2018

Quando si può effettuare l'opposizione all'esecuzione contro un avviso di addebito?

Tribunale di Catania 1854 del 2017:

Tanto premesso e allo scopo di delineare - in ragione delle doglianze formulate dall’opponente - la natura della spiegata opposizione, appare opportuno premettere, in generale, che nella materia oggetto di causa quante volte si facciano valere motivi che attengono al merito della pretesa contributiva (contestazioni sull'an e sul quantum, eventi estintivi, impeditivi o modificativi del credito: ad es., prescrizione ex lege 335/1995, riduzioni per sgravi ed agevolazioni in genere; eventi che incidono sull'esigibilità: ad es., rimessione in termini per eventi sismici, etc.; eventi che impediscono l'iscrizione al ruolo, impugnazione di verbale di accertamento antecedente l'iscrizione al ruolo non ancora rigettata in primo grado, etc.), l’opposizione va qualificata come opposizione all’iscrizione a ruolo e che, ove si facciano valere questioni che riguardino il difetto originario o sopravvenuto del titolo esecutivo (ad es., inesistenza giuridica della cartella, sospensione del ruolo da parte del giudice del lavoro, fatti estintivi della pretesa successivi alla formazione del titolo esecutivo: ad es., prescrizione o pagamento successivi alla notifica della cartella di pagamento), l’opposizione va qualificata come opposizione all’esecuzione ex art. 29 del d. lgs. n. 46/99. Va, inoltre, precisato che deve essere qualificata come opposizione agli atti esecutivi l’azione con la quale il contribuente contesti la regolarità formale del titolo esecutivo, dell’intimazione di pagamento e degli atti propedeutici all’esecuzione forzata (nullità della cartella o dell’intimazione per omessa motivazione, violazioni del c.d. statuto del contribuente, omessa notifica della cartella, nullità della notifica della cartella o dell’intimazione di pagamento, notifica della cartella di pagamento oltre il termine fissato dall’art. 25 del D.P.R. 602/1973, etc.).


Nella specie la dedotta nullità della intimazione di pagamento integra una opposizione agli atti esecutivi; la eccepita estinzione della pretesa contributiva per prescrizione integra una opposizione avverso il ruolo. Integra, invece, una opposizione all’esecuzione la doglianza con la quale l’opponente ha eccepito l’estinzione per prescrizione della pretesa contributiva per effetto del decorso del termine di prescrizione successivamente alla notifica delle cartelle di pagamento.
L’opponente, dunque, ha posto a fondamento della spiegata opposizione l’assunto che la pretesa fatta valere si sarebbe estinte per prescrizione tanto per il caso di omessa notifica della cartella sottesa alla intimazione di pagamento, quanto per l’ipotesi che la notifica abbia, invece, avuto luogo.
Muovendo, per la sua eventuale portata assorbente, dall’esame della eccezione di prescrizione integrante motivo di opposizione avverso il ruolo, reputa il Tribunale che la stessa sia inammissibile.
È emerso, infatti, dalla documentazione prodotta dal concessionario della riscossione che la cartella sottesa alla menzionata intimazione di pagamento è stata regolarmente notificata in San Giovanni La Punta via ____ mediante consegna al coniuge della ricorrente il 23 aprile 2003.
L’avvenuta notifica della cartella non consente di dare ingresso alla opposizione con la quale si è inteso far valere la estinzione per prescrizione della pretesa creditoria siccome integrante una opposizione avverso il ruolo.
Ora, dalla regolare notificazione della cartella discende che il merito della pretesa contributiva non è più contestabile.
Ed infatti ogni questione inerente il merito della pretesa contributiva è ormai preclusa per l’intervenuta stabilizzazione del titolo stragiudiziale a cagione della omessa proposta opposizione nel termine di cui all’art. 24 d. lgs. 46/1999. Il detto termine, secondo il consolidato orientamento della Cassazione, “deve ritenersi perentorio perchè diretto a rendere incontrovertibile il credito contributivo dell'ente previdenziale in caso di omessa tempestiva impugnazione e a consentire una rapida riscossione del credito iscritto a ruolo, ed alla perentorietà del termine non ostano nè l’inespressa indicazione in tal senso, dovendo pur sempre il giudice indagare se, a prescindere dal dettato normativo, un termine, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie, debba essere rigorosamente osservato a pena di decadenza, nè che l'iscrizione a ruolo avvenga senza un preventivo accertamento giudiziale, non ignorando l'ordinamento titoli esecutivi formati sulla base di un mero procedimento amministrativo dell'ente impositore (cfr. Cass. n. 2835/2008 , nonché per tutte, Cass. n. 4506/07 e Cass. n. 6674/08).
All’ente previdenziale è, dunque, attribuito il potere di riscuotere i propri crediti attraverso un titolo (il ruolo esattoriale, da cui scaturisce la cartella di pagamento) che si forma prima e al di fuori del giudizio e in forza del quale l’ente può conseguire il soddisfacimento della pretesa a prescindere da una verifica in sede giurisdizionale della sua fondatezza, in quanto, da un lato, non è irragionevole la scelta del legislatore di consentire ad un creditore, attesa la sua natura pubblicistica e l’affidabilità derivante dal procedimento che ne governa l’attività, di formare unilateralmente un titolo esecutivo, e, dall’altro lato, è rispettosa del diritto di difesa e dei principi del giusto processo la possibilità, concessa al preteso debitore, di promuovere, entro un termine perentorio ma adeguato, un giudizio ordinario di cognizione nel quale far efficacemente valere le proprie ragioni, sia grazie alla possibilità di ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo e/o dell’esecuzione, sia grazie alla ripartizione dell’onere della prova in base alla posizione sostanziale (e non già formale) assunta dalle parti nel giudizio di opposizione. (cfr. Corte Cost. ord. N. 111/2007).
Il detto termine di quaranta giorni dalla notifica della cartella è stato accordato dalla legge al debitore per l’opposizione nel merito della pretesa contributiva, al fine di instaurare un vero e proprio processo di cognizione per l’accertamento della fondatezza della pretesa dell’ente; esso è diretto a rendere non più contestabile dal debitore il credito contributivo dell’ente previdenziale in caso di omessa tempestiva impugnazione ed a consentire, così, una rapida riscossione del credito medesimo.
La situazione che si verifica nel caso di mancata osservanza del termine suddetto non è quindi dissimile da quella già ritenuta dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione per l’ipotesi di mancato rispetto del termine previsto dall’ormai abrogato D.L. n. 338 del 1989, art. 2, convertito in L. n. 389 del 1989, (cfr. Cass., n. 8624/1993). Era stato ritenuto, in proposito, che non solamente i titoli esecutivi giudiziali sono passibili di diventare definitivi, cioè incontrovertibili con effetti analoghi al giudicato, in caso di mancata opposizione o di opposizione proposta fuori termine, poichè, tenuto conto delle leggi speciali che sono state emanate in diverse materie e con le quali il legislatore ha consentito agli organi della pubblica amministrazione di ordinare ai privati, mediante ingiunzioni, il pagamento di somme di danaro, la giurisprudenza di legittimità aveva già avuto modo di individuare i c.d. titoli paragiudiziali (cfr., ex plurimis, per l’utilizzo di tale terminologia, Cass., n. 9944/1991 e Cass. n. 10269/1991), per i quali, al pari di quelli giudiziali, è previsto un termine perentorio per la relativa opposizione davanti al giudice ordinario; con la conseguenza che tali titoli diventano definitivi in caso di omessa opposizione ovvero di opposizione tardiva, in quanto proposta dopo la scadenza del termine e tale dichiarata dal giudice a conclusione del relativo giudizio.
La conseguenza è, dunque, che, in tema di contributi previdenziali, per contestare il ruolo è necessaria l’opposizione da parte dell’interessato nel termine perentorio previsto dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, poichè, in caso contrario, il titolo diviene definitivo e il diritto alla relativa pretesa contributiva incontestabile, neanche sotto il profilo della eventuale originaria inesistenza del credito. La mancata opposizione entro il termine perentorio di legge stabilizza quindi definitivamente il titolo esecutivo stragiudiziale precludendo qualsiasi successiva azione di accertamento negativo del debito (che sarebbe inammissibile per carenza di interesse, giacchè ogni questione relativa alla pretesa creditoria portata dal titolo esecutivo è definitivamente superata dall’intervenuta stabilizzazione del titolo).
Ne consegue che la proposta opposizione avverso il ruolo è inammissibile giacchè alla data di deposito del ricorso in opposizione il termine di cui all’art. 24 d. lgs. 46/1999, decorrente dalla notificazione della cartella in esame, era ampiamente decorso.


Va, ora, osservato che il ricorrente, ha fatto riferimento, altresì, al termine prescrizionale decorso successivamente alla notificazione della cartella, in tal modo proponendo una opposizione all'esecuzione ex art. 615 comma 1 c.p.c., svincolata dal rispetto di qualunque termine decadenziale. In relazione alla doglianza relativa al sopravvenuto difetto del titolo esecutivo mediante la quale è contestata la sussistenza in capo all'agente della riscossione del diritto di preannunciare l'esecuzione forzata in virtù del titolo (il ruolo) di cui alle menzionate cartelle per essersi estinto il credito per il decorso del termine di prescrizione successivamente alla data di notifica delle stesse, sussiste la legittimazione passiva del concessionario della riscossione.
In proposito deve rilevarsi che al debitore dei contributi è sempre consentito contestare il diritto del creditore (e per esso dell’incaricato della riscossione) a procedere all’esecuzione coattiva nei suoi confronti eccependo la prescrizione successiva alla formazione e notifica del titolo esecutivo. Soccorre in tal caso il rimedio dell’opposizione all’esecuzione avente ad oggetto l’accertamento del diritto di procedere in executivis tramite il quale la pretesa esecutiva fatta valere dal creditore ben può essere neutralizzata con la deduzione di fatti modificativi o estintivi del rapporto sostanziale consacrato nel titolo esecutivo.


Occorre, a questo punto, risolvere la questione se, divenuto incontestabile il credito contributivo per effetto della mancata opposizione ai sensi della d. lgs. n. 46/1999, la successiva azione esecutiva sia sempre soggetta al termine di prescrizione contemplato dalla legge n. 335/1995, ovvero a quello più lungo dell’azione nascente dal giudicato di cui all’art. 2953 c.c.
Questo giudice, consapevole del pronunciamento della Suprema Corte (Sentenza n. 4338/2014 seguito dalla successiva sentenza conforme 8 giugno 2015, n. 11749) che in un obiter dictum aveva affermato, richiamando Cass. n. 17051/2004, che “una volta divenuta intangibile la pretesa per effetto della mancata opposizione alla cartella esattoriale [..] non è più soggetto ad estinzione per prescrizione il diritto alla contribuzione previdenziale [..] e ciò che può prescriversi è soltanto l’azione diretta all’esecuzione del titolo così definitivamente formatosi; riguardo alla quale, in difetto di diverse disposizioni (e in sostanziale conformità a quanto previsto per l’actio iudicati ai sensi dell’art. 2953 c.c.) trova applicazione il termine prescrizionale decennale ordinario di cui all’art. 2946 c.c.” e consapevole altresì che la questione era stata rimessa al Primo Presidente della Corte di Cassazione per valutare l’opportunità di assegnare la trattazione e la decisione del ricorso alle Sezioni Unite (cfr. ordinanza 1799 del 14 gennaio 2016), aveva reputato, pure a fronte della rimessione della questione, che la prima opzione fosse la più corretta e che non vi fosse ragione per discostarsi dall’orientamento seguito da questo Tribunale fondato sulle considerazioni che seguono. La cartella esattoriale può essere assimilata all’ingiunzione fiscale che, in quanto espressione del potere di accertamento e di autotutela della P.A., ha natura di atto amministrativo ed è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato sicchè la decorrenza del termine per l’opposizione, pur determinando la decadenza dall’impugnazione, non produce effetti di ordine processuale, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 2953 c.c. ai fini della prescrizione. Identica la ratio, è stato più volte sostenuto da questo Tribunale che nella specie possa farsi applicazione dei principi stabiliti dalla Suprema Corte in materia di ingiunzione fiscale alla stregua dei quali “l’ingiunzione fiscale, in quanto espressione del potere di autoaccertamento e di autotutela della p.a., ha natura di atto amministrativo che cumula in sé le caratteristiche del titolo esecutivo e del precetto, ma è priva di attitudine ad acquistare efficacia di giudicato... con la conseguente inapplicabilità dell’art. 2953 c.c. ai fini della prescrizione” (cfr. Cass. civile, sez. trib., 25 maggio 2007, n. 12263). Alle stesse conclusioni deve pervenirsi nell’ipotesi in esame giacchè neppure ai ruoli formati dagli enti pubblici previdenziali per la riscossione dei crediti contribuivi e alle cartelle esattoriali può assegnarsi natura giurisdizionale; ciò che impedisce che alla mancata opposizione possano far seguito, oltre all’effetto sostanziale dell’incontestabilità del credito, anche effetti di natura processuale riservati ai provvedimenti giurisdizionali e, dunque, la idoneità al giudicato. Ne consegue che l’azione esecutiva rivolta al recupero del credito contributivo non tempestivamente opposto è soggetto non al termine decennale di prescrizione dell’actio iudicati di cui all’art. 2953 c.c. ma al termine proprio della riscossione dei contributi e quindi al termine quinquennale introdotto dalla legge n. 335/1995. Ora le sezioni unite della Corte di Cassazione con la sentenza numero 23397/2016 depositata in data 17 novembre 2016 hanno risolto il contrasto emerso, stabilendo che la scadenza del termine per impugnare la cartella ha il solo effetto di rendere irretrattabile il credito e non determina l’effetto della c.d. conversione del termine di prescrizione breve, nella specie quinquennale, in quello ordinario.
Deve, a questo punto, evidenziarsi che non è stato dimostrato nel quinquennio prescrizionale di legge il compimento di alcun atto interruttivo successivo alla notificazione della cartella avvenuta nella data sopra indicata (23 aprile 2003) avendo lo stesso concessionario della riscossione invocato gli effetti interruttivi scaturenti dalla notificazione di una prima intimazione di pagamento notificata il 22 maggio 2008, quando era ormai spirato il termine quinquennale di prescrizione.


Per quanto sopra, in definitiva, assorbita ogni altra questione (il riferimento è ai motivi integranti opposizione agli atti esecutivi), deve essere dichiarata inammissibile l’opposizione avverso il ruolo di cui alla cartella numero 29320030021104470000, mentre deve essere accolta l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 comma 1 c.p.c. per la sopravvenuta estinzione della pretesa portata dalla detta cartella.


Quanto alle spese di lite, tenuto conto dell’inammissibilità della opposizione avverso i ruoli e delle oscillazioni riscontrate presso la giurisprudenza di legittimità, le sezioni unite essendo intervenute pendendo il giudizio, in ordine alla questione della individuazione del termine di prescrizione cui assoggettare l’azione esecutiva -se quello quinquennale o il più lungo termine di cui all’articolo 2953 c.c.- devono integralmente compensarsi tra le parti.



PQM


Il Tribunale di Catania, in persona del giudice unico, dott.ssa Patrizia Mirenda in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. 6774/2015 R.G., promossa da R. M. nei confronti dell’INPS, della Società di Cartolarizzazione dei suoi Crediti e di Riscossione Sicilia s.p.a., ogni diversa domanda, istanza ed eccezione disattese, così statuisce:
Dichiara inammissibile l’opposizione avverso il ruolo portato dalla cartella di pagamento numero ______.
In accoglimento dell’opposizione all’esecuzione, dichiara la sopravvenuta estinzione per prescrizione della pretesa creditoria avente ad oggetto contributi previdenziali cristallizzata nella cartella sopra indicata ed insussistente il diritto dell’INPS e, per esso, del concessionario della riscossione, di preannunciare in danno dell’opponente l’esecuzione forzata per il soddisfacimento della relativa pretesa contributiva


*****
Trib. Genova Sez. lavoro, 02/04/2013
Te. s.r.l. e altri c. INPS
Avverso la cartella esattoriale emessa per la riscossione di sanzioni amministrative, sono esperibili tra diverse forme di opposizione: l'opposizione di merito nel caso in cui oggetto della contestazione sia la legittimità della pretesa sanzionata, l'opposizione all'esecuzione, ai sensi dell'art. 615 c.p.c., allorché si contesti la legittimità dell'iscrizione a ruolo per la mancanza di un titolo legittimamente l'iscrizione a ruolo o si adducano fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo, ed infine l'opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell'art. 617 c.p.c., allorché oggetto della contestazione sia la ritualità formale della cartella esattoriale, ovvero si adducano vizi di forma del procedimento esattoriale, compresi i vizi strettamente attinenti alla notifica della cartella e quelli riguardanti i successivi avvisi di mora.

Trib. Ivrea, 23/06/2011
Co.Ch.Co. s.r.l. c. INPS
Avverso l'illegittimità delle cartelle esattoriali inerenti la riscossione dei crediti previdenziali, il contribuente può tutelarsi in diverse maniere: può esperire l'opposizione alla cartella esattoriale per motivi attinenti al merito della pretesa contributiva, nel termine di 40 giorni dalla notifica della cartel
la di pagamento, innanzi al giudice del lavoro, ovvero può proporre l'opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell'art. 615 c.p.c. per motivi attinenti non solo la pignorabilità dei beni ma anche per fatti estintivi del credito rivendicato, sopravvenuti alla formazione del titolo e ciò sempre innanzi al giudice del lavoro se l'esecuzione non è ancora iniziata oppure innanzi al giudice dell'esecuzione qualora nel caso contrario. E' infine esperibile una terza via qual è l'opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell'art. 617 c.p.c., da formulare nel termine perentorio di venti giorni dalla notifica del titolo esecutivo o del precetto per i vizi formali del titolo ovvero della cartella di pagamento.


Trib. Roma Sez. lavoro, 16/03/2010
A.R. srl c. INPS

Il vigente sistema di tutela giurisdizionale per le entrate previdenziali (ed in genere per quelle non tributarie) prevede le seguenti possibilità di tutela per il contribuente: a) proposizione di opposizione al ruolo esattoriale per motivi attinenti al merito della pretesa contributiva ai sensi dell'art. 24, comma 6° del D.Lgs. n. 46/1999, ovverosia nel termine di giorni 40 dalla notifica della cartella di pagamento, davanti al giudice del lavoro; b) proposizione di opposizione ai sensi dell'art. 615 c.p.c. per questioni attinenti non solo alla pignorabilità dei beni, ma anche a fatti estintivi del credito sopravvenuti alla formazione del titolo (quali ad esempio la prescrizione del credito, la morte del contribuente, l'intervenuto pagamento della somma precettata) sempre davanti al giudice del lavoro nel caso in cui l'esecuzione non sia ancora iniziata (art. 615, comma I, c.p.c.) ovvero davanti al giudice dell'esecuzione se la stessa sia invece già iniziata (art. 615, comma 2°, e 61-bis c.p.c.); c) proposizione di una opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c, ovverosia "nel termine perentorio di venti giorni dalla notifica del titolo esecutivo o del precetto" per i vizi formali del titolo (quali ad esempio quelli attinenti la notifica e la motivazione) ovvero della cartella di pagamento ovvero ancora del procedimento esattoriale nel suo complesso (compresi i vizi strettamente legati alla notifica della cartella e quelli riguardanti i successivi avvisi di mora), anche in questo caso davanti al giudice dell'esecuzione o a quello del lavoro a seconda che l'esecuzione stessa sia già iniziata (art. 617, comma 2°, c.p.c.) o meno (art. 617, comma I, c.p.c.).





martedì 27 febbraio 2018

Quali obblighi impone la legislazione europea in casi di discriminazione al fine di proteggere le vittime?

In forza dell'art. 11 della direttiva 78 del 2000

"Gli Stati membri introducono nei rispettivi ordinamenti giuridici le disposizioni necessarie per proteggere i dipendenti dal licenziamento, o da altro trattamento sfavorevole da parte del datore di lavoro, quale reazione a un reclamo interno all'impresa o a un'azione legale volta a ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento".

lunedì 26 febbraio 2018

Come è disciplinato l'onere della prova in caso di discriminazione dall'unione europea?

In base all'art. 10 direttiva 78 del 2000:


1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un'altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento.

2. Il paragrafo 1 si applica fatto salvo il diritto degli Stati membri di prevedere disposizioni in materia di prova più favorevoli alle parti attrici.

3. Il paragrafo 1 non si applica ai procedimenti penali.

4. I paragrafi 1, 2 e 3 si applicano altresì alle azioni legali promosse ai sensi dell'articolo 9, paragrafo 2.

5. Gli Stati membri non sono tenuti ad applicare il paragrafo 1 ai procedimenti in cui spetta al giudice o all'organo competente indagare sui fatti.



sabato 24 febbraio 2018

Quando non si ha discriminazione per trattamenti diversificati connessi all'età dei lavoratori?


Cass: 21/02/2018, n. 4223

In tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, l'art. 6, paragrafo 1, comma 1 della Direttiva 27 novembre 2000 n. 2000/78/CEE enuncia che gli Stati membri possono prevedere che disparità di trattamento in ragione dell'età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. In proposito, va riconosciuto agli Stati membri un ampio margine di discrezionalità, non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo.

giovedì 22 febbraio 2018

Come si determina il danno da demansionamento?

App. Roma Sez. lavoro, Sent., 18-01-2018
7. L'appellante ha, altresì, diritto al risarcimento del danno.
7.1. Sul punto non può che richiamarsi la giurisprudenza di legittimità in base alla quale la prova dell'esistenza del danno da demansionamento e/o dequalificazione può essere data anche in via presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr ex plurimis Cass. n. 19778/2014, Cass. n. 4652/2009).
7.2. Con riguardo al caso di specie deve evidenziarsi: che l'appellante aveva un livello di inquadramento elevato, appartenendo alla categoria dei quadri; che si occupava di attività commerciale nell'ambito della telefonia, settore notoriamente in continua evoluzione; che ha reiteratamente sollecitato nel tempo l'assegnazione di mansioni confacenti al proprio inquadramento ed al proprio bagaglio professionale; che il la dequalificazione ed il demansionamento si sono protratti per oltre due anni, sfociando nelle dimissioni per giusta causa; che vi è stata una lesione anche dell'immagine professionale, essendo stato costretto ad elemosinare indicazioni sul lavoro da svolgere.
7.3. La pronta ricollocazione lavorativa (per come dedotta dalla società e non contestata) fa escludere che il pregiudizio sia stato particolarmente grave e tale da giustificare la maggiore richiesta economica avanzata in ricorso, ma certo non è tale da eliminare completamente quella lesione alla professionalità ed all'immagine professionale che inevitabilmente si sono determinate a seguito della prolungata privazione patita dall'appellante.
Pertanto, anche in assenza di più significativi elementi, equa appare la liquidazione della somma di Euro 41.310,00, corrispondente al 35% della retribuzione mensile (Euro 4382,69 come da ultima busta paga, percentuale arrotondata in difetto ad Euro 1530,00) moltiplicata per i mesi in cui l'inadempimento della società si è protratto (gennaio 2006-marzo 2008).  

Cass. civ. Sez. lavoro, 10/01/2018, n. 330

Come statuito da questa Corte (per tutte v. Cass. n. 12253 del 2015) l'assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale.
Innanzi tutto l'inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell'impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali (tra le altre v. Cass. n. 11045 del 2004; Cass. n. 14199 del 2009). Inoltre la modifica in peius delle mansioni è potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di una danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti.
Infatti questa Corte, a Sezioni unite (sent. nn. 26972, 26973, 26974, 26975 dell'11 novembre 2008), dichiarando risarcibile il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale che determini, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona, ha considerato che l'esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l'inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge, come appunto nel caso del contratto di lavoro, da considerare ipotesi di risarcimento dei danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista. Lo stesso Collegio dedica adeguato rilievo alla dignità personale del lavoratore che, in riferimento agli artt. 2, 4 e 32 Cost., costruisce come diritto inviolabile; descrive quale lesione di tale diritto proprio "i pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa".
Quanto alla liquidazione di tali danni, la non patrimonialità - per non avere il bene persona un prezzo - del diritto leso, comporta che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa, anche attraverso il ricorso alla prova presuntiva, che potrà costituire pure l'unica fonte di convincimento del giudice (ancora Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit.).
Chiarita l'astratta potenzialità lesiva dell'assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, si è precisato che la produzione di siffatti pregiudizi è soltanto eventuale: dall'inadempimento datoriale non deriva automaticamente l'esistenza di un danno, il quale non è immancabilmente ravvisabile solo in ragione della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo (Cass. SS.UU. n. 6572 del 2006).
Fermi gli oneri di allegazione e di prova gravanti su chi denuncia di aver subito il pregiudizio, compete tuttavia al giudice di merito non solo ogni accertamento e valutazione di fatto circa la concreta sussistenza e la individuazione della specie del danno, ma anche la sua liquidazione - in ipotesi anche equitativa sindacabile, in sede di legittimità, soltanto per vizio di motivazione (in tal senso, v. Cass. n. 14199 del 2001; altresì: Cass. n. 9138 del 2011, Cass. n. 2352 del 2010, Cass. n. 10864 del 2009, Cass. n. 5333 del 2003; Cass. n. 10268 del 2002; Cass. n. 18599 del 2001, Cass. n. 104 del 1999).
I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, debbono consentire una valutazione che sia adeguata e proporzionata (v. Cass. n. 12408 del 2011), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato e permettere la personalizzazione del risarcimento (v. Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit.; Cass. n. 7740 del 2007; Cass. n. 13546 del 2006).
Essendo la liquidazione del quantum dovuto per il ristoro del danno non patrimoniale inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, si esclude che l'esercizio del potere equitativo del giudice di merito possa di per sè essere soggetto a controllo in sede di legittimità, se non in presenza di totale mancanza di giustificazione che sorregga la statuizione o di macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni (cfr. Cass. n. 12918 del 2010; Cass. n. 1529 del 2010; conforme, più di recente, Cass. n. 18778 del 2014).
In particolare, in tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr., ex plurimis, Cass. n. 19778 del 2014; Cass. n. 4652 del 2009; Cass. n. 28274 del 2008; Cass. SS.UU.. n. 6572/2006 cit.).



mercoledì 21 febbraio 2018

Quali sono gli elementi costitutivi del c.d mobbing?

In forza di Cass 16/02/2018, n. 3871

"In materia di mobbing, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano specifici elementi, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato. Detti elementi sono: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori o, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio. Grava sul lavoratore l'onere di provare tali circostanza, in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c. senza che sia necessaria una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell'intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla".

martedì 20 febbraio 2018

Quando il lavoro dell'Ostetrica è autonomo o subordinato?

Cass. civ. Sez. lavoro, 16-02-1990, n. 1159

Il pretore, con sentenza in data 3.10.87, rigettava l'opposizione, ritenendo: che la subordinazione nel rapporto di lavoro va individuata attraverso vari indici, la cui esistenza va accertata nel concreto atteggiarsi del rapporto stesso (indici che vanno poi combinati tra di loro e sintetizzati nel giudizio di prevalenza); che, nella specie - da quanto dichiarato dalla stessa Cavallari in data 4.4.85 all'ispettore del lavoro - è risultato che la predetta Cavalloni prestava la sua opera presso la clinica, quale ostetrica, tutte le mattine (per sette giorni alla settimana) con orario dalla 8 alle 12, veniva retribuita "a forfait" dalla clinica (non percependo mai denaro direttamente da clienti) ed usufruiva di ferie; che doveva pertanto ritenersi inequivocabilmente esistente l'inserimento della Cavalloni nell'organizzazione dell'impresa, con assoluta carenza di rischio da parte della lavoratrice; che doveva quindi ritenersi la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato.

Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso la Casa di Cura ed il Lugatti con due motivi. ....Il ricorso è infondato...............Riguardo al secondo motivo del ricorso, devesi premettere, in diritto, che, com'é noto, il rapporto di lavoro autonomo si distingue da quello di lavoro subordinato per il fatto che l'oggetto della prestazione è l'opera, cioé il risultato dell'attività, mentre nel lavoro subordinato l'oggetto della prestazione è rappresentato dall'energia lavorativa che il prestatore di lavoro pone a disposizione del datore di lavoro ed esplica con vincolo di subordinazione, cioé sotto la vigilanza e secondo le direttive del datore di lavoro medesimo. Detto requisito della subordinazione, peraltro, va inteso in senso relativo, in quanto non è incompatibile con una certa autonomia, iniziativa e discrezionalità del lavoratore, specie quando si tratti di prestazioni professionali.

In tal caso la subordinazione si attua in termini più funzionali che tecnici, potendosi concretizzare nella sola sistematica inserzione dell'opera professionale nell'organizzazione unitaria dell'impresa o dell'ente, ancorché senza un'effettiva direzione da parte del datore di lavoro (Cass. 15.5.76 n. 1885, 9.4.1986 n. 2472).

Peraltro, nei casi in cui una notevole attenuazione del vincolo della subordinazione e una certa libertà nell'organizzazione del lavoro riducano l'evidenza immediata degli elementi differenziali tra i due rapporti, occorre far ricorso ad altri criteri distintivi, quali: a) la precisa individuazione dell'oggetto della prestazione, come già si è detto; b) l'accertamento concreto dell'esistenza di un'organizzazione d'impresa, anche in termini minimi, da parte del lavoratore, la quale caratterizza il lavoro autonomo; e) la incidenza del rischio attinente all'esercizio dell'attività, che incombe in misura più evidente e completa sul lavoratore autonomo, mentre ricade sul datore di lavoro nell'ipotesi di lavoro subordinato.

(Cass. sent. ult. 1720-76, 5393-78, 4131-84, 2257-86). Orbene, nel caso in esame esattamente il Pretore ha riconosciuto la esistenza di un rapporto di lavoro subordinato dopo aver accertato che la Cavalloni poneva sostanzialmente a disposizione della impresa le proprie energie lavorative al mattino (dalle 8 alle 12) secondo le direttive dell'imprenditore (che si avvaleva, al pomeriggio, delle prestazioni di un'altra ostetrica), ricevendo sempre lo stesso compenso forfettario, con assoluta carenza di rischio da parte sua e sicuro inserimento nell'organizzazione dell'impresa.

lunedì 19 febbraio 2018


I verbali ispettivi vanno sempre notificati?


In caso dell'art. 8 comma 20 della legge 335 del 1995

20. Gli accertamenti ispettivi in materia previdenziale e assicurativa esperiti nei confronti dei datori di lavoro debbono risultare da appositi verbali, da notificare anche nei casi di constatata regolarità. Nei casi di attestata regolarità ovvero di regolarizzazione conseguente all'accertamento ispettivo eseguito, gli adempimenti amministrativi e contributivi relativi ai periodi di paga anteriore alla data dell'accertamento ispettivo stesso non possono essere oggetto di contestazioni in successive verifiche ispettive, salvo quelle determinate da comportamenti omissivi o irregolari del datore di lavoro o conseguenti a denunce del lavoratore. La presente disposizione si applica anche agli atti e documenti esaminati dagli ispettori ed indicati nel verbale di accertamento, nonché ai verbali redatti dai funzionari dell'Ispettorato del lavoro in materia previdenziale e assicurativa. I funzionari preposti all'attività di vigilanza rispondono patrimonialmente solo in caso di danno cagionato per dolo o colpa grave

sabato 17 febbraio 2018

Ai fini dell'inquadramento Inps il datore di lavoro è obbligato a comunicare ogni variazione che possa determinare una modifica d'inquadramento?


Per Cass. 13/02/2018, n. 3459:


Per l'INPS dalla lettura della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 8 sarebbe evincibile un obbligo a carico del datore di lavoro di comunicare all'Inps qualsivoglia variazione a seguito del mutamento dell'attività svolta, in quanto se ciò non accade vi provvede il legislatore a far conseguire l'effetto, con efficacia ex tunc, con il provvedimento di modificazione dell'inquadramento da parte dell'Inps; tale dichiarazione doveva concretizzarsi in un altro atto di volontà successivo al precedente e diretto all'ente previdenziale dove espressamente si indicano gli elementi che, secondo il datore di lavoro, conducono a un mutamento dell'effettiva attività fino a quel momento svolta.

La tesi è infondata. La L. n. 335 del 1998, art. 3, comma 8 recita "I provvedimenti adottati d'ufficio dall'INPS di variazione della classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali, con il conseguente trasferimento nel settore economico corrispondente alla effettiva attività svolta producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione, con esclusione dei casi in cui l'inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro. In caso di variazione disposta a seguito di richiesta dell'azienda, gli effetti del provvedimento decorrono dal periodo di paga in corso alla data della richiesta stessa. Le variazioni di inquadramento adottate con provvedimenti aventi efficacia generale riguardanti intere categorie di datori di lavoro producono effetti, nel rispetto del principio della non retroattivita, dalla data fissata dall'INPS. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo del presente comma si applicano anche ai rapporti per i quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, pendano controversie non definite con sentenza passata in giudicato".

1.6. La norma si occupa di regolare gli effetti dei provvedimenti di variazione di inquadramento previdenziale adottati dall'INPS in sede di riesame o di verifica di singole situazioni aziendali, ovvero in conseguenza di una generale variazione d'indirizzo nella classificazione. Ma anche a voler estendere lo stesso disposto normativo a tutti i casi in cui una variazione di classificazione segua dichiarazioni datoriali, anche successive alle prime, esso non prevede comunque un obbligo a carico del datore di lavoro di comunicare all'Inps qualsivoglia variazione a seguito del mutamento dell'attività svolta. Nè in particolare prevede l'obbligo delle aziende di effettuare specifiche dichiarazioni preventive appositamente destinate al fine esclusivo di consentire all'Inps la verifica dei presupposti per la classificazione dell'impresa.

1.7. E' vero che la legge prevede l'effetto retroattivo della variazione, nei casi in cui "l'inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro"; e che le inesatte dichiarazioni (positive o omissive) del datore di lavoro, da cui possono derivare gli effetti retroattivi del provvedimento di variazione, vanno riferite ad una qualsiasi comunicazione in base alla quale sia evincibile la classificazione; sicchè, in base alla L. n. 335 del 1998, art. 3, comma 8 il datore di lavoro non deve mai fornire notizie inesatte in occasione delle sue varie comunicazioni all'INPS. Ma non è previsto dalla norma che egli abbia anche l'obbligo di effettuare una dichiarazione di variazione al mutare dei dati determinanti l'inquadramento e di effettuare comunicazioni ad hoc di natura preventiva; sicchè le dichiarazioni in discorso possono essere soltanto quelle desumibili da atti diretti ad altri fini.

giovedì 15 febbraio 2018

Quali dati deve contenere la denuncia d'infortunio?

In base all'art. 53 commi 4 e seguenti DPR 1124 del 1965

La denuncia dell'infortunio ed il certificato medico trasmesso all'Istituto assicuratore, per via telematica, direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria competente al rilascio, nel rispetto delle relative disposizioni, debbono indicare, oltre alle generalità dell'operaio, il giorno e l'ora in cui è avvenuto l'infortunio, le cause e le circostanze di esso, anche in riferimento ad eventuali deficienze di misure di igiene e di prevenzione, la natura e la precisa sede anatomica della lesione, il rapporto con le cause denunciate, le eventuali alterazioni preesistenti. 

La denuncia delle malattie professionali deve essere trasmessa sempre con le modalità di cui all'art. 13 dal datore di lavoro all'Istituto assicuratore, corredata dei riferimenti al certificato medico già trasmesso per via telematica al predetto Istituto direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria competente al rilascio, entro cinque giorni successivi a quello nel quale il prestatore d'opera ha fatto denuncia al datore di lavoro della manifestazione della malattia. Il certificato medico deve contenere, oltre l'indicazione del domicilio dell'ammalato e del luogo dove questi si trova ricoverato, una relazione particolareggiata della sintomatologia accusata dall'ammalato stesso e di quella rilevata dal medico certificatore. I medici certificatori hanno l'obbligo di fornire all'Istituto assicuratore tutte le notizie che esso reputi necessarie. 

Nella denuncia debbono essere, altresì, indicati le ore lavorative e il salario percepito dal lavoratore assicurato nei quindici giorni precedenti quello dell'infortunio o della malattia professionale.

Per gli addetti alla navigazione marittima ed alla pesca marittima la denuncia deve essere fatta dal capitano o padrone preposto al comando della nave o del galleggiante o, in caso di loro impedimento, dall'armatore all'Istituto assicuratore o all'autorità portuale o consolare competente. Quando l'infortunio si verifichi durante la navigazione, la denuncia deve essere fatta il giorno del primo approdo dopo l'infortunio. Il certificato medico deve essere trasmesso, per via telematica nel rispetto delle relative disposizioni, all'Istituto assicuratore dal medico di bordo o, in mancanza di esso, da un medico del luogo di primo approdo o dalla struttura sanitaria competente al rilascio sia nel territorio nazionale sia all'estero. 

Qualunque medico presti la prima assistenza a un lavoratore infortunato sul lavoro o affetto da malattia professionale è obbligato a rilasciare certificato ai fini degli obblighi di denuncia di cui al presente articolo e a trasmetterlo esclusivamente per via telematica all'Istituto assicuratore. 


Ogni certificato di infortunio sul lavoro o di malattia professionale deve essere trasmesso esclusivamente per via telematica all'Istituto assicuratore, direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria competente al rilascio, contestualmente alla sua compilazione.

mercoledì 14 febbraio 2018

Quali agevolazioni sono riconosciute a coloro che assumono lavoratori in Naspi?

In base al comma 10 bis art. 2 l. 92 del 2012:

10-bis. Al datore di lavoro che, senza esservi tenuto, assuma a tempo pieno e indeterminato lavoratori che fruiscono dell'Assicurazione sociale per l'impiego (ASpI) di cui al comma 1 è concesso, per ogni mensilità di retribuzione corrisposta al lavoratore, un contributo mensile pari al venti per cento dell'indennità mensile residua che sarebbe stata corrisposta al lavoratore. Il diritto ai benefici economici di cui al presente comma è escluso con riferimento a quei lavoratori che siano stati licenziati, nei sei mesi precedenti, da parte di impresa dello stesso o diverso settore di attività che, al momento del licenziamento, presenta assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli dell'impresa che assume, ovvero risulta con quest'ultima in rapporto di collegamento o controllo. L'impresa che assume dichiara, sotto la propria responsabilità, all'atto della richiesta di avviamento, che non ricorrono le menzionate condizioni ostative.

martedì 13 febbraio 2018



Come è disciplinata la denuncia d'infortunio mortale?




In forza dell'art. 53 comma 2 del DPR 1965 n. 1124



Se si tratta di infortunio che abbia prodotto la morte o per il quale sia preveduto il pericolo di morte, la denuncia deve essere fatta per telegrafo entro ventiquattro ore dall'infortunio.


lunedì 12 febbraio 2018

La forma scritta del contratto a testi può essere provata per testi?

Cassazione: 05/02/2018, n. 2774

Ai fini del riconoscimento della legittimità del contratto a tempo determinato, il rispetto della forma scritta, - prevista ad substantiam, onde insuscettibile di esser provata a mezzo testi - della clausola appositiva del termine presuppone l'avvenuta sottoscrizione del contratto stesso ad opera del lavoratore, ovviamente in momento antecedente o contestuale all'inizio del rapporto. Non è, quindi, sufficiente la consegna al predetto lavoratore del documento sottoscritto dal solo datore, poiché la consegna in questione, seppur seguita dall'espletamento di attività lavorativa, non è suscettibile di esprimere inequivocabilmente una accettazione della durata limitata del rapporto, ma, plausibilmente, la semplice volontà del lavoratore di esser parte di un contratto di lavoro.

venerdì 9 febbraio 2018

A quanto ammonta il contributo Naspi nel caso di licenziamento collettivo?


Art. 1 - Comma 137 l. 205 del 2017

137. A decorrere dal 1° gennaio 2018, per ciascun licenziamento effettuato nell'ambito di un licenziamento collettivo da parte di un datore di lavoro tenuto alla contribuzione per il finanziamento dell'integrazione salariale straordinaria, ai sensi dell'articolo 23 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148, l'aliquota percentuale di cui all'articolo 2, comma 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92, è innalzata all'82 per cento. Sono fatti salvi i licenziamenti effettuati a seguito di procedure di licenziamento collettivo avviate, ai sensi dell'articolo 4 della legge 23 luglio 1991, n. 223, entro il 20 ottobre 2017.


In base all'art. 2 comma 31 l.92 del 2012

31. Nei casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che, indipendentemente dal requisito contributivo, darebbero diritto all'ASpI, intervenuti a decorrere dal 1° gennaio 2013, è dovuta, a carico del datore di lavoro, una somma pari al 41 per cento del massimale mensile di ASpI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni. Nel computo dell'anzianità aziendale sono compresi i periodi di lavoro con contratto diverso da quello a tempo indeterminato, se il rapporto è proseguito senza soluzione di continuità o se comunque si è dato luogo alla restituzione di cui al comma 30.




giovedì 8 febbraio 2018

Quale è la retribuzione di riferimento da utilizzare per determinare  l'indennità risarcitoria nel contratto a tutele crescenti?

Secondo Il Tribunale di Milano sent., 01-06-2017 dott. Mariani:

La norma di riferimento (art. 3 D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23) commisura l'indennità risarcitoria "all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio".

Ai fini dell'individuazione dell'ambito temporale da considerare per calcolare la mensilità d'indennità occorre tener presente che l'articolo 2120 c.c. (che fa riferimento ad una retribuzione annua accantonabile che comprende tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, compreso l'equivalente delle prestazioni in natura ed escluse le somme pagate a titolo di rimborso spese) impone il riferimento all'anno, perché la norma calcola il TFR sulla base della retribuzione annua.

Si deve pertanto ritenere che la retribuzione "utile ai fini del TFR" sia quella dell'ultimo anno (o frazione di anno) dovuta al lavoratore, anche se non corrisposta, rapportata a mese.

Dal doc. 3 fasc. ric. si ricava che il reddito complessivo lordo percepito nell'anno di riferimento è pari a Euro 10.487,33.

Procedendo alla divisione di detta somma per i mesi effettivamente lavorati (nove), risulta una somma di Euro 1.165,26, che è la base di calcolo.

Quattro mensilità ascendono pertanto a Euro 4.661,04 lordi (= Euro 1.165,26*4), con un credito residuo (detratto quanto già corrisposto al lavoratore: v. 2) di B.M. per lordi Euro 1.304,16 (=Euro4.661,04 - 3.356,88).

mercoledì 7 febbraio 2018

La recidiva come causa di licenziamento prevista dai ccnl può essere valutata in modo difforme dal giudice?

Cass. civ. Sez. lavoro, 04/05/2017, n. 10838

Più volte questa corte ha ritenuto che la previsione da parte della contrattazione collettiva della recidiva in successive mancanze disciplinari come ipotesi di giustificato motivo di licenziamento non esclude il potere del giudice di valutare la gravità in concreto dei singoli fatti addebitati, ancorchè connotati dalla recidiva, ai fini dell'accertamento della proporzionalità della sanzione espulsiva e ciò ai sensi delle norme di cui alla L. n. 66/604, art. 3, alla L. n. 300 del 1970, art. 7, all'art. 2119 c.c. (Cass. n. 8098/1992) Tali norme si fondano sul generale principio che la sanzione irrogata al lavoratore deve essere sempre proporzionata alla condotta posta in essere. Pertanto si è affermato che la previsione da parte della contrattazione collettiva della recidiva in relazione a precedenti mancanze come ipotesi di licenziamento "non esclude il potere-dovere del Giudice di valutare la gravità dell'addebito ai fini della proporzionalità della sanzione espulsiva" (Cass. 14041/2002). Questa Corte ha anche ritenuto che la contrattazione collettiva che preveda una ipotesi automatica di sanzione disciplinare conservativa o espulsiva, prescindendo dalla valutazione della sua proporzionalità rispetto alla infrazione commessa dal lavoratore sia sotto il profilo soggettivo e sia sotto quello oggettivo, è nulla e, perciò, inapplicabile per contrasto con norme imperative dello Stato (Cass. n. 10441/1996).




martedì 6 febbraio 2018


Quando la pubblica amministrazione deve reinternalizzare il servizio come deve comportarsi verso il personale precedentemente esternalizzato?


In base all'art. 19  comma 8 del Dlgs 175 del 2016

"8. Le pubbliche amministrazioni titolari di partecipazioni di controllo in società, in caso di reinternalizzazione di funzioni o servizi esternalizzati, affidati alle società stesse, procedono, prima di poter effettuare nuove assunzioni, al riassorbimento delle unità di personale già dipendenti a tempo indeterminato da amministrazioni pubbliche e transitate alle dipendenze della società interessata dal processo di reinternalizzazione, mediante l'utilizzo delle procedure di mobilità di cui all'articolo 30 del decreto legislativo n. 165 del 2001 e nel rispetto dei vincoli in materia di finanza pubblica e contenimento delle spese di personale. Il riassorbimento può essere disposto solo nei limiti dei posti vacanti nelle dotazioni organiche dell'amministrazione interessata e nell'ambito delle facoltà assunzionali disponibili. La spesa per il riassorbimento del personale già in precedenza dipendente dalle stesse amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo indeterminato non rileva nell'ambito delle facoltà assunzionali disponibili e, per gli enti territoriali, anche del parametro di cui all'articolo 1, comma 557-quater, della legge n. 296 del 2006, a condizione che venga fornita dimostrazione, certificata dal parere dell'organo di revisione economico-finanziaria, che le esternalizzazioni siano state effettuate nel rispetto degli adempimenti previsti dall'articolo 6-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e, in particolare, a condizione che:

a) in corrispondenza del trasferimento alla società della funzione sia stato trasferito anche il personale corrispondente alla funzione medesima, con le correlate risorse stipendiali;
b) la dotazione organica dell'ente sia stata corrispondentemente ridotta e tale contingente di personale non sia stato sostituito;
c) siano state adottate le necessarie misure di riduzione dei fondi destinati alla contrattazione integrativa;
d) l'aggregato di spesa complessiva del personale soggetto ai vincoli di contenimento sia stato ridotto in misura corrispondente alla spesa del personale trasferito alla società.

lunedì 5 febbraio 2018

Le società a controllo pubblico devono utilizzare per l'assunzione quanto indicato dal Dlgs 165 del 2001? 

In forza del DLT 19/08/2016, n. 175 art. 19

Art. 19. Gestione del personale

1. Salvo quanto previsto dal presente decreto, ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico si applicano le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, e dai contratti collettivi.

2. Le società a controllo pubblico stabiliscono, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei princìpi, anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei princìpi di cui all'articolo 35, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. In caso di mancata adozione dei suddetti provvedimenti, trova diretta applicazione il suddetto articolo 35, comma 3, del decreto legislativo n. 165 del 2001.

3. I provvedimenti di cui al comma 2 sono pubblicati sul sito istituzionale della società. In caso di mancata o incompleta pubblicazione si applicano gli articoli 22, comma 4, 46 e 47, comma 2, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33.


4. Salvo quanto previsto dall'articolo 2126 del codice civile, ai fini retributivi, i contratti di lavoro stipulati in assenza dei provvedimenti o delle procedure di cui al comma 2, sono nulli. Resta ferma la giurisdizione ordinaria sulla validità dei provvedimenti e delle procedure di reclutamento del personale.

sabato 3 febbraio 2018



Quando la somministrazione irregolare determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato in capo all’utilizzatore?

In base all’Art. 38 del Dlgs 81 del 2015 

1. In mancanza di forma scritta il contratto di somministrazione di lavoro è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell'utilizzatore.

2. Quando la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lettere a), b), c) e d), il lavoratore può chiedere, anche soltanto nei confronti dell'utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest'ultimo, con effetto dall'inizio della somministrazione.



Ovvero:

1) art. 31 comma1e 2: violazione limiti percentuali

Se somministrazione a tempo indeterminato 20% contratti a tempo indeterminato (salvo diversa previsione ccnl)[1]

Se somministrazione a tempo determinato oltre i limiti stabiliti dai ccnl [2]



2) art. 32 comma 1 lettera a)

Se la somministrazione è stata effettuata per sostituire lavoratori che esercitano il diritto di sciopero

3) art. 32 comma 2 lettera b)

Se la somministrazione è stata utilizzata presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge n. 223 del 1991, che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione di lavoro, salvo che il contratto sia concluso per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti o abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi;



4) art. 32 comma 1 lettera c)



La somministrazione è stata utilizzata presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario in regime di cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione di lavoro;



5) art. 32 comma 1 lettera d)



da parte di datori di lavoro che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.



5) art. 33 comma 1 lettera a)b) c) e d)

Assenza sul contratto di somministrazione dell’autorizzazione degli estremi dell’autorizzazione rilasciata a somministratore o del numero dei lavoratori da somministrare o dell'indicazione di eventuali rischi per la salute e la sicurezza del lavoratore e le misure di prevenzione adottate o della data di inizio e la durata prevista della somministrazione di lavoro;






[1]Art. 31 comma 1. Salvo diversa previsione dei contratti collettivi applicati dall'utilizzatore, il numero dei lavoratori somministrati con contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato non può eccedere il 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l'utilizzatore al 1° gennaio dell'anno di stipula del predetto contratto, con un arrotondamento del decimale all'unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5. Nel caso di inizio dell'attività nel corso dell'anno, il limite percentuale si computa sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento della stipula del contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato. Possono essere somministrati a tempo indeterminato esclusivamente i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato. 




[2]Art. 31 comma 2 La somministrazione di lavoro a tempo determinato è utilizzata nei limiti quantitativi individuati dai contratti collettivi applicati dall'utilizzatore. E' in ogni caso esente da limiti quantitativi la somministrazione a tempo determinato di lavoratori di cui all'articolo 8, comma 2, della legge n. 223 del 1991, di soggetti disoccupati che godono, da almeno sei mesi, di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali, e di lavoratori «svantaggiati» o «molto svantaggiati» ai sensi dei numeri 4) e 99) dell'articolo 2 del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, come individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. 

giovedì 1 febbraio 2018



Quale è il regime di assicurazione contro gli infortuni dei lavoratori parasubordinati?




In forza dell'Art. 5 dlgs 38 del 2000

1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, sono soggetti all'obbligo assicurativo i lavoratori parasubordinati indicati all'articolo 49, comma 2, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 , e successive modificazioni e integrazioni, qualora svolgano le attività previste dall'articolo 1 del testo unico o, per l'esercizio delle proprie mansioni, si avvalgano, non in via occasionale, di veicoli a motore da essi personalmente condotti.

2. Ai fini dell'assicurazione INAIL il committente è tenuto a tutti gli adempimenti del datore di lavoro previsti dal testo unico.


3. Il premio assicurativo è ripartito nella misura di un terzo a carico del lavoratore e di due terzi a carico del committente.


4. Ai fini del calcolo del premio la base imponibile è costituita dai compensi effettivamente percepiti, salvo quanto stabilito dall'articolo 116, comma 3, del testo unico. Il tasso applicabile all'attività svolta dal lavoratore è quello dell'azienda qualora l'attività stessa sia inserita nel ciclo produttivo, in caso contrario, dovrà essere quello dell'attività effettivamente svolta.


5. Ferma restando la decorrenza dell'obbligo assicurativo e del diritto alle prestazioni dalla data di cui al comma 1, in sede di prima applicazione, i termini per la presentazione delle denunce di cui all'articolo 12 del testo unico sono stabiliti in trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo.