venerdì 30 ottobre 2015

Il lavoratore può cedere ad un altro lavoratore le proprie ferie ed i riposi maturati?

In base all’art. 24 del Dlgs 151 del 2015  “1. Fermi restando i diritti di cui al decreto legislativo 8  aprile 2003, n. 66, i lavoratori possono cedere a titolo gratuito i riposi e le ferie da loro  maturati  ai  lavoratori  dipendenti  dallo  stesso datore di lavoro, al fine di consentire a questi ultimi di  assistere i  figli  minori  che  per  le  particolari  condizioni   di   salute necessitano di cure costanti, nella misura, alle condizioni e secondo le modalità stabilite  dai  contratti  collettivi  stipulati  dalle associazioni  sindacali  comparativamente  più rappresentative  sul piano nazionale applicabili al rapporto di lavoro.”

giovedì 29 ottobre 2015

I limiti alla pignorabilità dello stipendio stabiliti dall’art., 545 cpc opera anche nel caso di crediti derivanti dal rapporto di lavoro vantati dal datore di lavoro?

La risposta della prevalente giurisprudenza è negativa.

In particolare:

“L’istituto della compensazione presuppone l’autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti, che non sussiste allorché i rispettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto, come laddove si contrappongano un credito del lavoratore per t.f.r. ed un credito risarcitorio del datore di lavoro derivante da delitto commesso dall’ex dipendente. Tale interpretazione non confligge con gli artt. 3 e 36 Cost., date le peculiarità del credito del datore di lavoro, che derivando da delitto, ben possono giustificare il particolare trattamento di esso.
3.2.- L'orientamento giurisprudenziale appena ricordato non può certamente ritenersi
3.3.- Non sussiste neanche la lamentata violazione dell’art. 36 cost. in relazione all’art. 554 IV comma cpc, dal momento che questa Corte ha statuito che la norma del codice di rito - se è vero che contempera l'interesse del creditore al recupero del proprio credito e quello del lavoratore a non veder vanificata la funzione alimentare del credito retributivo (sentenza n. 20 del 1968) - non costituisce una modalità obbligata per realizzare tale contemperamento (ordinanza n. 302 del 1998) e, tanto meno, per realizzarlo nella misura ivi prevista nei confronti di qualsiasi credito.
Consegue da tale rilievo che le segnalate peculiarità del credito del datore di lavoro da delitto nei confronti dell'ex dipendente ben possono giustificare il particolare trattamento di tale credito anche in relazione all’art. 545 IV comma cpc, e cioè ad una norma della quale deve escludersi che costituisca - nel suo specifico contenuto - inderogabile attuazione del precetto di cui all’art. 36 Cost.: sicché la questione di legittimità costituzionale deve ritenersi, in realtà, sollevata sotto il profilo della insussistenza (da negarsi per quanto si è detto) di sufficienti ragioni a sostegno della disparità di trattamento sancita, in relazione 545 IV comma cpc, in favore del datore di lavoro creditore di somme risarcitorie ex delicto.” Corte cost., 04/07/2006, n. 259

In base al combinato disposto degli artt. 1246 n. 3 cc e 545 n. 3 c.p.c., le somme, dovute ai privati a titolo di crediti di lavoro sono pignorabili e compensabili nella limitata misura di un quinto; tale limite non opera quando i contrapposti crediti abbiano origine da un unico rapporto, sì che la valutazione delle singole pretese comporti solo un accertamento contabile di dare e avere e non una compensazione in senso tecnico; in particolare, il limite non vale quando il datore voglia compensare il credito risarcitorio per danni da prestazione lavorativa non diligente col credito retributivo vantato dal prestatore, tuttavia, essa torna ad operare, anche in caso di compensazione atecnica, qualora esista una clausola del contratto collettivo che lo preveda, salvo diversi accordi contenuti nel contratto individuale (in applicazione di tale principio di diritto, la Suprema corte ha cassato per difetto di motivazione la sentenza di merito, che non aveva dato adeguato conto dell'applicabilità o meno alla fattispecie concreta dell'art. 64 del contratto collettivo per le aziende di credito che escludeva la compensazione atecnica illimitata). Cass. civ. Sez. lavoro, 20/06/2003, n. 9904


“Ai fini della compensazione dei crediti di lavoro, in base al combinato disposto dagli artt. 1246 n. 3 cc e 545 n. 3 c.p.c., le somme dovute ai privati a titolo di crediti di lavoro sono pignorabili e compensabili nella limitata misura di un quinto; tale limite non opera quando i contrapposti crediti derivino da un unico rapporto, per cui la valutazione delle singole pretese comporti solo un accertamento contabile di dare ed avere e non una compensazione in senso tecnico, facendosi rientrare in tale categoria anche l'ipotesi di compensazione tra il credito risarcitorio del datore di lavoro per i danni da prestazione lavorativa non diligente, col credito retributivo vantato dal prestatore, salva la diversa previsione della contrattazione collettiva”. Trib. Ragusa Sez. lavoro, 30/04/2014

“Nell'ipotesi in cui i rispettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto, la valutazione delle reciproche pretese comporta soltanto un semplice accertamento contabile di dare o avere, che sfugge sia alle regole della compensazione strictu sensu, sia alle limitazioni ex 545 IV comma cpc, richiamato dall’art. 1246 n. 3 cc, le quali presuppongono consolidate posizioni di debiti e crediti tra due soggetti, e non anche mere poste finanziarie attive e passive in itinere, che si accumulano nella serie delle relazioni intercorrenti tra le parti, con elisione automatica dei relativi crediti fino alla reciproca concorrenza”. T.A.R. Veneto Venezia Sez. I, 15/10/2013, n. 1176


mercoledì 28 ottobre 2015

Come e’ regolamentata dal punto di vista  contributivo la trasferta del lavoratore inviato all’estero?



In base all’art. 5.della legge 317 del  1987   “per   i   lavoratori   inviati   in  trasferta  all'estero l'indennità  di  trasferta,  anche se corrisposta con continuità ed indipendentemente dal luogo in cui la trasferta e' svolta, e' esclusa dalla  retribuzione imponibile per il calcolo dei contributi ai sensi dell'articolo  12  della  legge 30 aprile 1969, n. 153, per una quota pari  all'ammontare  esente  dall'imposta  sul  reddito delle persone fisiche.  I  versamenti  contributivi relativi ai predetti emolumenti restano   validi   e  conservano  la  loro  efficacia  se  effettuati anteriormente   alla  data  di  entrata  in  vigore  della  legge  di conversione del presente decreto”.

martedì 27 ottobre 2015

Quando il datore con più di 15 dipendenti può procedere al licenziamento ad nutum?

In base all’art. 4 comma secondo della legge 108 del 1990 “le disposizioni di cui all'art. 18 della legge 300 del 1970, come modificato dall'art. 1 della presente legge, e dell'art. 2 non si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi dell'art. 6 del DL 1981 n. 791, convertito, con modificazioni, dalla legge 1982 n. 54. Sono fatte salve le disposizioni dell'art. 3 della presente legge e dell'art. 9  l. 1966 n. 604”


Come è regolamentato il diritto d’opzione?


In base all’art.6 DL 791 del 1981 “Gli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti ed alle gestioni sostitutive, esclusive ed esonerative dalla medesima, i quali non abbiano raggiunto l'anzianità contributiva massima utile prevista dai singoli ordinamenti, possono optare di continuare a prestare la loro opera fino al perfezionamento di tale requisito o per incrementare la propria anzianità contributiva e comunque non oltre il compimento del sessantacinquesimo anno di età, sempreché non abbiano ottenuto o non richiedano la liquidazione di una pensione a carico dell'INPS o di trattamenti sostitutivi, esclusivi od esonerativi dall'assicurazione generale obbligatoria.
L'esercizio della facoltà di cui al comma precedente deve essere comunicato al datore di lavoro almeno sei mesi prima della data di conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia .
Per gli assicurati che alla data di entrata in vigore del presente decreto prestano ancora attività lavorativa, pur avendo maturato i requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, si prescinde dalla comunicazione al datore di lavoro di cui al comma precedente. Tale disposizione si applica anche agli assicurati che maturano i requisiti previsti entro i sei mesi successivi alla entrata in vigore del presente decreto. In tale caso la comunicazione al datore di lavoro deve essere effettuata non oltre la data in cui i predetti requisiti vengono maturati .
Nei confronti dei lavoratori che esercitano l'opzione di cui ai commi precedenti e con i limiti in essi fissati, si applicano le disposizioni della l. 1966 del 604, in deroga all'articolo 11 della legge stessa.
Qualora i lavoratori abbiano esercitato l'opzione di cui ai commi precedenti, la pensione di vecchiaia decorre dal primo giorno del mese successivo a quello nel quale è stata presentata la domanda.
Nel caso che venga esercitata l'opzione di cui al primo comma, la cessazione del rapporto di lavoro per avvenuto raggiungimento del requisito di anzianità contributiva di cui al comma stesso avviene in ogni caso, senza obblighi di preavviso per alcuna delle parti.

NB

La Corte costituzionale, con sentenza 3-8 maggio 1990, n. 226 (Gazz. Uff. 16 maggio 1990, n. 20 - Serie speciale), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del primo comma dell'art. 6, nella parte in cui non prevede la sua applicazione agli autoferrotranvieri.

La Corte costituzionale, con sentenza 28 gennaio-11 febbraio 1988, n. 156 (Gazz. Uff. 17 febbraio 1988, n. 7 - Serie speciale), ha dichiarato 1) l'illegittimità dell'art.6, terzo comma, ultima proposizione, del DL 1981 n. 791; 2) l'illegittimità dell'art. 6, secondo comma, stesso decreto, nella parte in cui non dispone che il termine ivi previsto per l'esercizio della facoltà di opzione di cui al comma precedente non possa comunque scadere prima che siano trascorsi sei mesi dall'entrata in vigore del decreto-legge medesimo.


La Corte costituzionale, con sentenza 28 gennaio-11 febbraio 1988, n. 156 (Gazz. Uff. 17 febbraio 1988, n. 7 - Serie speciale), ha dichiarato 1) l'illegittimità dell'art.6, terzo comma, ultima proposizione, del Dl 1981 n. 791; 2) l'illegittimità dell'art. 6, secondo comma, stesso decreto, nella parte in cui non dispone che il termine ivi previsto per l'esercizio della facoltà di opzione di cui al comma precedente non possa comunque scadere prima che siano trascorsi sei mesi dall'entrata in vigore del decreto-legge medesimo.

lunedì 26 ottobre 2015

Come è stata innovata la nuova disciplina delle dimissioni dal Dlgs 151 del 2015?






In base all’art. 26 del dlgs 151 del 2015 (ed ancora da attuare): 






“1. Al di fuori delle ipotesi di cui all'articolo 55, comma 4, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalita' telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali attraverso il sito www.lavoro.gov.it e trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente con le modalita' individuate con il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di cui al comma 3.


2. Entro sette giorni dalla data di trasmissione del modulo di cui al comma 1 il lavoratore ha la facolta' di revocare le dimissioni e la risoluzione consensuale con le medesime modalita'.


3. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da emanare entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, sono stabiliti i dati di identificazione del rapporto di lavoro da cui si intende recedere o che si intende risolvere, i dati di identificazione del datore di lavoro e del lavoratore, le modalita' di trasmissione nonche' gli standard tecnici atti a definire la data certa di trasmissione.


4. La trasmissione dei moduli di cui al comma 1 puo' avvenire anche per il tramite dei patronati, delle organizzazioni sindacali nonche' degli enti bilaterali e delle commissioni di certificazione di cui agli articoli 2, comma 1, lettera h), e articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276.


5. Salvo che il fatto costituisca reato, il datore di lavoro che alteri i moduli di cui al comma 1 e' punito con la sanzione amministrativa da euro 5.000 ad euro 30.000. L'accertamento e l'irrogazione della sanzione sono di competenza delle Direzioni territoriali del lavoro. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689.


6. All'attuazione del presente articolo si provvede con le risorse umane, strumentali e finanziarie gia' disponibili a legislazione vigente e comunque senza nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato.


7. I commi da 1 a 4 non sono applicabili al lavoro domestico e nel caso in cui le dimissioni o la risoluzione consensuale intervengono nelle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, del codice civile o avanti alle commissioni di certificazione di cui all'articolo 76 del decreto legislativo n. 276 del 2003.


8. Le disposizioni di cui al presente articolo trovano applicazione a far data dal sessantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 3 e dalla medesima data sono abrogati i commi da 17 a 23-bis dell'articolo 4 della legge 28 giugno 2012, n. 92.

sabato 24 ottobre 2015

Quali assicurazioni devono essere riconosciute ai lavoratori italiani che devono operare all’estero?

In base all’art. 1 del l 317 del 1987 “  1.  I   lavoratori   italiani   operanti   all'estero,   in   Paesi
extracomunitari con i quali non sono in vigore accordi  di  sicurezza sociale, alle dipendenze dei datori di lavoro italiani e stranieri di cui al comma 2, sono obbligatoriamente iscritti alle  seguenti  forme di previdenza ed assistenza sociale, con le modalita' in  vigore  nel territorio nazionale, salvo quanto disposto dagli articoli da 1 a 5:
    a) assicurazione per l'invalidita', la vecchiaia ed i superstiti;
    b) assicurazione contro la tubercolosi;
    c) assicurazione contro la disoccupazione involontaria;
    d) assicurazione contro gli infortuni sul lavoro  e  le  malattie professionali;
    e) assicurazione contro le malattie;
    f) assicurazione di maternita'.
  2. Sono tenuti ad osservare le disposizioni degli articoli da  1  a 5, per i lavoratori  italiani  assunti  nel  territorio  nazionale  o trasferiti da detto territorio per l'esecuzione di opere, commesse  o attivita' lavorative in Paesi extracomunitari:
    a) i datori di lavoro residenti, domiciliati o aventi la  propria sede, anche secondaria, nel territorio nazionale;
    b) le societa' costituite all'estero con partecipazione  italiana di controllo ai sensi dell'articolo 2359,  primo  comma,  del  codice civile;
    c) le societa' costituite all'estero, in cui  persone  fisiche  e giuridiche di nazionalita' italiana  partecipano  direttamente,  o  a mezzo di societa' da esse  controllate,  in  misura  complessivamente
superiore ad un quinto del capitale sociale;
    d) i datori di lavoro stranieri.

  3. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche nel caso di assunzione di lavoratori italiani in Paesi extra comunitari. 

giovedì 22 ottobre 2015

Entro quando si deve richiedere l’indennità sostitutiva in luogo della reintegra?


In base al comma terzo dell’art. 18 della legge 300 del 1970 “fermo restando il diritto al risarcimento del danno  come  previsto al secondo comma, al lavoratore e' data la facoltà  di  chiedere  al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel  posto  di lavoro,  un’indennità  pari  a   quindici   mensilità   dell'ultima retribuzione  globale  di  fatto,  la  cui  richiesta  determina   la risoluzione del rapporto di lavoro,  e  che  non  e'  assoggettata  a contribuzione previdenziale. La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a  riprendere  servizio, se anteriore alla predetta comunicazione”. 

mercoledì 21 ottobre 2015

Quali condizioni contrattuali deve contenere il contratto dei lavoratori italiani da impiegare o trasferire all’estero?

In base all’art. del DL 317 del 1987 come modificato dal Dlgs 151 del 2015: “1. Il contratto di lavoro dei lavoratori italiani da impiegare  o da trasferire all'estero prevede:
    a) un trattamento  economico  e  normativo  complessivamente  non inferiore a quello previsto dai  contratti  collettivi  nazionali  di lavoro stipulati dalle associazioni sindacali  comparativamente  più rappresentative per la categoria di appartenenza del  lavoratore,  e, distintamente, l'entità delle prestazioni  in  denaro  o  in  natura connesse con lo svolgimento all'estero del rapporto di lavoro;
    b) la possibilità per i lavoratori di ottenere il  trasferimento in Italia della  quota  di  valuta  trasferibile  delle  retribuzioni corrisposte  all'estero,  fermo  restando  il  rispetto  delle  norme
valutarie italiane e del Paese d'impiego;
    c) un'assicurazione per ogni  viaggio  di  andata  nel  luogo  di destinazione e di rientro dal luogo stesso, per i casi di morte o  di invalidità permanente;
    d) il tipo di sistemazione logistica;
    e) idonee misure in materia di sicurezza”.


martedì 20 ottobre 2015

I contratti collettivi da cui derivano benefici fiscali e contributivi devono essere depositati?



In base all’art. 14 del Dlgs 151 del 2015 “I benefici contributivi o fiscali e le altre agevolazioni connesse con la stipula di contratti collettivi aziendali o territoriali sono riconosciuti a condizione che tali contratti siano depositati in via telematica presso la Direzione territoriale del lavoro competente, che li mette a disposizione, con le medesime modalità, delle altre amministrazioni ed enti pubblici interessati”.

lunedì 19 ottobre 2015

Le somme aggiuntive ai contributi previdenziali seguono lo stesso regime prescrizionale dei contributi?


Cass. civ. Sez. VI - Lavoro, Ord., 13-10-2015, n. 20585 ha sancito: “Le Sezioni unite[1] hanno, quindi, affermato il seguente principio di diritto: "In materia previdenziale, le somme aggiuntive irrogate al contribuente per l'omesso o ritardato pagamento dei contributi o premi previdenziali sono sanzioni civili che, in ragione della loro legislativamente prevista automaticità, rimangono funzionalmente connesse all'omesso o ritardato pagamento dei contributi o premi previdenziali, sì che gli effetti degli atti interruttivi, posti in essere con riferimento a tale ultimo credito, si estendono, automaticamente, anche al credito per sanzioni civili".
Con tale decisione, le Sezioni unite hanno, dunque, mostrato di aderire all'indirizzo (si vedano le già ricordate cfr. Cass. 4 aprile 2008, n. 8814, Cass. 21 dicembre 2010, n. 25906, Cass. 22 febbraio 2012, n. 2620, Cass. 20 febbraio 2014, n. 4050 e, in precedenza, Cass. 12 maggio 2004, n. 9054; Cass. 15 gennaio 1986, n. 194) secondo cui l'obbligo relativo alle somme aggiuntive che il datore di lavoro è tenuto a versare in caso di omesso o tardivo pagamento dei contributi previdenziali costituisce una conseguenza automatica e legalmente predeterminata dell'inadempimento o del ritardo e svolge una funzione di rafforzamento dell'obbligazione contributiva, alla quale si somma; ne consegue che il credito per le sanzioni civili, nella sua accessorietà, ha la stessa natura giuridica dell'obbligazione principale ("l'automatismo della sanzione civile rispetto all'omesso o ritardato pagamento incide, non solo geneticamente sul rapporto dell'una rispetto all'altra, ma conserva questo suo legame di automaticità funzionale anche dopo l'irrogazione della sanzione"), pertanto, resta soggetto al medesimo regime prescrizionale (facendo sì che l'interruzione della prescrizione del credito principale si comunichi a quello accessorio).
Non vi è dubbio allora che, costituendo l'obbligo relativo alle somme aggiuntive che il datore di lavoro è tenuto a versare in caso di omesso o tardivo pagamento dei contributi (cosiddette sanzioni civili) una conseguenza automatica - legalmente predeterminata dell'inadempimento o del ritardo ed assolvendo tale obbligo una funzione di rafforzamento dell'obbligazione contributiva alla quale si somma, il credito per le sanzioni civili, proprio in ragione dell'affermata sussistenza di un legame di automaticità funzionale, resti soggetto al medesimo regime prescrizionale.






[1] Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 13-03-2015, n. 5076: “Sotto il profilo normativo, le somme aggiuntive appartengono alla categoria delle sanzioni civili, vengono applicate automaticamente in caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi assicurativi e consistono in una somma ex lege predeterminata il cui relativo credito sorge de iure alla scadenza del termine legale per il pagamento del debito contributivo, in relazione al periodo di contribuzione.
Vi è, quindi, tra la sanzione civile di cui trattasi e l'omissione contributiva, cui la sanzione civile inerisce, un vincolo di dipendenza funzionale che in quanto contrassegnato dall'automatismo della sanzione civile rispetto all'omesso o ritardato pagamento incide, non solo geneticamente sul rapporto dell'una rispetto all'altra, ma conserva questo suo legame di automaticità funzionale anche dopo l'irrogazione della sanzione, sì che le vicende che attengono all'omesso o ritardato pagamento dei contributi non possono non riguardare, proprio per il rilevato legame di automaticità funzionale, anche le somme aggiuntive che, come detto, sorgendo automaticamente alla scadenza del termine legale per il pagamento del debito contributivo rimangono a questo debito continuativamente collegate in via giuridica.
Non è tanto, quindi, un problema di natura giuridica autonoma o meno delle somme aggiuntive in parola rispetto all'omissione contributiva, quanto piuttosto di permanenza di vincolo funzionale tra l'omesso o ritardato pagamento di contributi previdenziali e la connessa sanzione civile la quale, in quanto legislativamente prevista come automatica, conserva questa sua connessione funzionale subordinata sì che gli effetti degli atti interruttivi, posti in essere con riferimento al credito per omissione contributiva si estendono anche al credito per sanzioni civili. Il denunciato contrasto di giurisprudenza può, pertanto, comporsi affermando il seguente principio di diritto: "in materia previdenziale le somme aggiuntive irrogate al contribuente per l'omesso o ritardato pagamento dei contributi o premi previdenziali sono sanzioni civili che, in ragione della loro legislativamente prevista automaticità, rimangono funzionalmente connesse al detto omesso o ritardato pagamento dei contributi o premi previdenziali sì che gli effetti degli atti interrativi, posti in essere con riferimento a tale ultimo credito, si estendono, automaticamente, anche al credito per sanzioni civili".

venerdì 16 ottobre 2015





In caso di licenziamento con preavviso da quanto decorre il termine per impugnarlo?


“In caso di recesso, con atto scritto, del datore di lavoro dal rapporto, con fissazione del termine finale di preavviso al giorno in cui il lavoratore raggiungerà l'età pensionabile, si è in presenza di un licenziamento, soggetto - come tale - quanto all'impugnativa, al termine di decadenza di cui all'art. 6 l. 15 luglio 1966 n. 604 (sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione)”. Cass. civ. Sez. lavoro, 03/10/1991, n. 10303


“Il preavviso non assume una specifica autonomia rispetto all'atto di recesso in quanto si configura come comunicazione di una decisione di recesso già presa, ma differita nell'esecuzione, di un certo periodo di tempo che è appunto quello del preavviso. Ne consegue che la valutazione dell'osservanza della forma scritta, imposta dalla legge sotto pena di inefficacia del licenziamento va compiuta con riguardo alla comunicazione suddetta, dalla cui ricezione decorre poi il termine di decadenza di cui all'art. 6 l. 15 luglio 1966 n. 604, per l'impugnazione del licenziamento stesso, non rilevando in contrario la circostanza che, essendo stato questo intimato con preavviso, l'estinzione del rapporto si verifichi effettivamente soltanto alla scadenza del periodo corrispondente alla durata del medesimo”; Cass. sez. lav. 24 agosto 1991, n. 9116, 

giovedì 15 ottobre 2015

Cosa sono i contratti di solidarietà espansiva?

In base all’art. 41 del Dlgs 148 del 2015  al  fine  di  incrementare  gli  organici,  i contratti collettivi aziendali stipulati ai  sensi  dell'articolo  51 del decreto legislativo n. 81 del 2015[1] possono prevedere “programmandone  le modalità di attuazione, una riduzione stabile dell'orario di lavoro, con riduzione della retribuzione, e la contestuale assunzione a tempo indeterminato di nuovo personale”

In tal caso “ ai datori di  lavoro  e'  concesso, per  ogni  lavoratore  assunto  sulla  base  dei  predetti  contratti collettivi e per ogni mensilità di  retribuzione,  un  contributo  a carico della Gestione degli interventi assistenziali  e  di  sostegno alle  gestioni  previdenziali  istituita  presso   l'INPS,   di   cui all'articolo 37 della legge n. 88 del 1989, pari, per i primi  dodici mesi, al 15 per cento della retribuzione lorda prevista dal contratto  collettivo applicabile. Per  ciascuno  dei  due  anni  successivi  il predetto contributo e' ridotto, rispettivamente, al 10  e  al  5  per cento”.

In base al comma secondo se i lavoratori assunti hanno un età compresa tra i 15 e i 29 anni per  i  primi  tre  anni  “e comunque non oltre il compimento del ventinovesimo anno di  eta'  del lavoratore assunto, la quota di contribuzione a carico del datore  di lavoro e' dovuta in misura corrispondente a quella prevista  per  gli apprendisti, ferma restando la contribuzione a carico del  lavoratore nella misura prevista per la generalità dei lavoratori”.

Esclusioni

In base al comma  3 “non beneficiano delle agevolazioni di cui  ai  commi  1  e  2  i datori di lavoro che, nei  dodici  mesi  antecedenti  le  assunzioni, abbiano proceduto a riduzioni di personale ovvero  a  sospensioni  di lavoro in regime di cassa integrazione guadagni straordinaria".

Attenzione alle discriminazioni

In base al comma 4 “le  assunzioni  operate  dal  datore  di  lavoro  in  forza  dei contratti collettivi di cui al comma 1 non devono  determinare  nelle unita'  produttive  interessate  dalla  riduzione   dell'orario   una riduzione della percentuale della  manodopera  femminile  rispetto  a quella maschile, ovvero di  quest'ultima  quando  risulti  inferiore, salvo che cio' sia espressamente previsto dai contratti collettivi in ragione della carenza di manodopera femminile,  ovvero  maschile,  in possesso delle qualifiche con riferimento alle quali  e'  programmata l'assunzione”.

Lavoratori anziani

In base ai commi 5 e 6 “Ai lavoratori delle imprese nelle quali siano stati stipulati  i contratti collettivi  di  cui  al  comma  1,  che  abbiano  una  eta' inferiore a quella prevista per la pensione di vecchiaia di non  piu' di ventiquattro  mesi  e  abbiano  maturato  i  requisiti  minimi  di contribuzione per la pensione di vecchiaia, spetta, a domanda  e  con decorrenza dal mese  successivo  a  quello  della  presentazione,  il suddetto trattamento  di  pensione  nel  caso  in  cui  essi  abbiano accettato di  svolgere  una  prestazione  di  lavoro  di  durata  non superiore alla meta' dell'orario  di  lavoro  praticato  prima  della riduzione convenuta nel contratto collettivo. Il trattamento spetta a condizione che la trasformazione del rapporto avvenga entro  un  anno dalla data di stipulazione del predetto  contratto  collettivo  e  in forza di clausole che  prevedano,  in  corrispondenza  alla  maggiore riduzione  di  orario,  un  ulteriore  incremento   dell'occupazione. Limitatamente al predetto periodo di anticipazione il trattamento  di pensione e' cumulabile con la retribuzione nel limite  massimo  della somma corrispondente al  trattamento  retributivo  perso  al  momento della trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale  ai sensi  del  presente  comma,  ferma  restando  negli  altri  casi  la disciplina vigente in materia di cumulo  di  pensioni  e  reddito  da lavoro.   6. Ai fini dell'individuazione della retribuzione da assumere quale base di calcolo per la determinazione delle quote  retributive  della pensione dei lavoratori che abbiano prestato lavoro a tempo  parziale ai sensi del comma 5, e' neutralizzato il numero delle  settimane  di lavoro prestate a tempo parziale, ove cio'  comporti  un  trattamento pensionistico piu' favorevole”.

Procedura

I  contratti  collettivi  stipulati devono  essere depositati   presso   la   direzione   territoriale    del    lavoro. L'attribuzione del contributo  e'  subordinata  all'accertamento,  da parte della direzione territoriale del lavoro,  della  corrispondenza tra la riduzione concordata dell'orario di  lavoro  e  le  assunzioni effettuate. Alla direzione  territoriale  del  lavoro  e'  demandata, altresì, la vigilanza  in  ordine  alla  corretta  applicazione  dei contratti di cui al comma 1, disponendo la sospensione del contributo nei casi di accertata violazione.
 
Computo

I lavoratori assunti con i contratti di solidarietà espansiva sono  esclusi dal computo  dei  limiti  numerici  previsti  da  leggi  e  contratti collettivi ai soli fini dell'applicazione di  norme  e  istituti  che prevedano  l'accesso  ad  agevolazioni  di  carattere  finanziario  e creditizio.




[1] Art. 51 “1. Salvo diversa previsione, ai  fini  del  presente  decreto,  per contratti collettivi si intendono i contratti  collettivi  nazionali, territoriali  o  aziendali  stipulati   da   associazioni   sindacali comparativamente  più  rappresentative  sul  piano  nazionale  e   i contratti collettivi aziendali stipulati  dalle  loro  rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”.

mercoledì 14 ottobre 2015

Come si computano i lavoratori intermittenti?

In forza dell'art. 18 del Dlgs 81 del 2015: "1. Ai fini  dell'applicazione  di  qualsiasi  disciplina  di  fonte legale o contrattuale per la  quale  sia  rilevante  il  computo  dei dipendenti del datore  di  lavoro,  il  lavoratore  intermittente  e' computato nell'organico dell'impresa  in  proporzione  all'orario  di lavoro effettivamente svolto nell'arco di ciascun semestre".
 

martedì 13 ottobre 2015

L’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma   di  istruzione   secondaria   superiore   e   il   certificato   di   specializzazione tecnica superiore può essere seguito da un contratto di apprendistato professionalizzante?

In base all’art. 43 dlgs 81 del 2015 “Successivamente al conseguimento della qualifica o  del  diploma professionale ai sensi del  decreto  legislativo  n.  226  del  2005, nonché del diploma di istruzione secondaria superiore, allo scopo di conseguire la qualificazione professionale ai fini  contrattuali,  e' possibile  la   trasformazione   del   contratto   in   apprendistato professionalizzante. In tal caso, la durata massima  complessiva  dei due periodi di apprendistato non  può  eccedere  quella  individuata dalla contrattazione collettiva”


lunedì 12 ottobre 2015

Perché l’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici , convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214,) è incostituzionale?


Secondo la sentenza della Corte Costituzionale 70 del 2015 la norma è incostituzionale “nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento”;


Ecco di seguito la motivazione:

“5.– La questione prospettata con riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. è fondata.
La perequazione automatica, quale strumento di adeguamento delle pensioni al mutato potere di acquisto della moneta, fu disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), all’art. 10, con la finalità di fronteggiare la svalutazione che le prestazioni previdenziali subiscono per il loro carattere continuativo.
Per perseguire un tale obiettivo, in fasi sempre mutevoli dell’economia, la disciplina in questione ha subito numerose modificazioni.
Con l’art.19 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), nel prevedere in via generalizzata l’adeguamento dell’importo delle pensioni nel regime dell’assicurazione obbligatoria, si scelse di agganciare in misura percentuale gli aumenti delle pensioni all’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT, ai fini della scala mobile delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria.
Con l’art. 11, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, recante «Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421», oltre alla cadenza annuale e non più semestrale degli aumenti a titolo di perequazione automatica, si stabilì che gli stessi fossero calcolati sul valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. Tale modifica mirava a compensare l’eliminazione dell’aggancio alle dinamiche salariali, al fine di garantire un collegamento con l’evoluzione del livello medio del tenore di vita nazionale. L’art. 11, comma 2, previde, inoltre, che ulteriori aumenti potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in relazione all’andamento dell’economia.
Il meccanismo di rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici governato dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) si prefigge di tutelare i trattamenti pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta, che tende a colpire le prestazioni previdenziali anche in assenza di inflazione. Con effetto dal 1° gennaio 1999, il meccanismo di rivalutazione delle pensioni si applica per ogni singolo beneficiario in funzione dell’importo complessivo dei trattamenti corrisposti a carico dell'assicurazione generale obbligatoria. L’aumento della rivalutazione automatica opera, ai sensi del comma 1 dell’art. 34 citato, in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo.
Tuttavia, l’art 69, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), con riferimento al meccanismo appena illustrato di aumento della perequazione automatica, prevede che esso spetti per intero soltanto per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici fino a tre volte il trattamento minimo INPS. Spetta nella misura del 90 per cento per le fasce di importo da tre a cinque volte il trattamento minimo INPS ed è ridotto al 75 per cento per i trattamenti eccedenti il quintuplo del predetto importo minimo. Questa impostazione fu seguita dal legislatore in successivi interventi, a conferma di un orientamento che predilige la tutela delle fasce più deboli. Ad esempio, l’art. 5, comma 6, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art.1, comma 1, della legge 3 agosto 2007, n. 127, prevede, per il triennio 2008-2010, una perequazione al 100 per cento per le fasce di importo tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS.
In conclusione, la disciplina generale che si ricava dal complesso quadro storico-evolutivo della materia, prevede che soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate dall’erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle pensioni.
6.– Quanto alle sospensioni del meccanismo perequativo, affidate a scelte discrezionali del legislatore, esse hanno seguito nel corso degli anni orientamenti diversi, nel tentativo di bilanciare le attese dei pensionati con variabili esigenze di contenimento della spesa.
L’art. 2 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali) previde che, in attesa della legge di riforma del sistema pensionistico e, comunque, fino al 31 dicembre 1993, fosse sospesa l’applicazione di ogni disposizione di legge, di regolamento o di accordi collettivi, che introducesse aumenti a titolo di perequazione automatica delle pensioni previdenziali ed assistenziali, pubbliche e private, ivi compresi i trattamenti integrativi a carico degli enti del settore pubblico allargato, nonché aumenti a titolo di rivalutazione delle rendite a carico dell’INAIL. In sede di conversione di tale decreto, tuttavia, con l’art. 2, comma 1-bis, della legge 14 novembre 1992, n. 438 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, recante misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), si provvide a mitigare gli effetti della disposizione, che dunque operò non come provvedimento di blocco della perequazione, bensì quale misura di contenimento della rivalutazione, alla stregua di percentuali predefinite dal legislatore in riferimento al tasso di inflazione programmata.
In seguito, l’art. 11, comma 5, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), provvide a restituire, mediante un aumento una tantum disposto per il 1994, la differenza tra inflazione programmata ed inflazione reale, perduta per effetto della disposizione di cui all’art. 2 della legge n. 438 del 1992. Conseguentemente, il blocco, originariamente previsto in via generale e senza distinzioni reddituali dal legislatore del 1992, fu convertito in una forma meno gravosa di raffreddamento parziale della dinamica perequativa.
Dopo l’entrata in vigore del sistema contributivo, il legislatore (art. 59, comma 13 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica») ha imposto un azzeramento della perequazione automatica, per l’anno 1998. Tale norma, ritenuta legittima da questa Corte con ordinanza n. 256 del 2001, ha limitato il proprio campo di applicazione ai soli trattamenti di importo medio - alto, superiori a cinque volte il trattamento minimo.
Il blocco, introdotto dall’art. 24, comma 25, come convertito, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, ora oggetto di censura, trova un precedente nell’art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale) che, tuttavia, aveva limitato l’azzeramento temporaneo della rivalutazione ai trattamenti particolarmente elevati, superiori a otto volte il trattamento minimo INPS.
Si trattava – come si evince dalla relazione tecnica al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 13 ottobre 2007 – di una misura finalizzata a concorrere solidaristicamente al finanziamento di interventi sulle pensioni di anzianità, a seguito, dell’innalzamento della soglia di accesso al trattamento pensionistico (il cosiddetto “scalone”) introdotto, a decorrere dal 1° gennaio 2008, dalla legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria).
L’azzeramento della perequazione, disposto per effetto dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, prima citata, è stato sottoposto al vaglio di questa Corte, che ha deciso la questione con sentenza n. 316 del 2010. In tale pronuncia questa Corte ha posto in evidenza la discrezionalità di cui gode il legislatore, sia pure nell’osservare il principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza delle pensioni, e ha reputato non illegittimo l’azzeramento, per il solo anno 2008, dei trattamenti pensionistici di importo elevato (superiore ad otto volte il trattamento minimo INPS).
Al contempo, essa ha indirizzato un monito al legislatore, poiché la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità. Si afferma, infatti, che «[…] le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta».
7.– L’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, oggetto di censura nel presente giudizio, si colloca nell’ambito delle “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” (manovra denominata “salva Italia”) e stabilisce che «In considerazione della contingente situazione finanziaria», la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, in base al già citato meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del cento per cento.
Per effetto del dettato legislativo si realizza un’indicizzazione al 100 per cento sulla quota di pensione fino a tre volte il trattamento minimo INPS, mentre le pensioni di importo superiore a tre volte il minimo non ricevono alcuna rivalutazione. Il blocco integrale della perequazione opera, quindi, per le pensioni di importo superiore a euro 1.217,00 netti.
Tale meccanismo si discosta da quello originariamente previsto dall’art. 24, comma 4, della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986) e confermato dall’art. 11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che non discriminava tra trattamenti pensionistici complessivamente intesi, bensì tra fasce di importo.
Secondo la normativa antecedente, infatti, la percentuale di aumento si applicava sull'importo non eccedente il doppio del trattamento minimo del fondo pensioni per i lavoratori dipendenti. Per le fasce di importo comprese fra il doppio ed il triplo del trattamento minimo la percentuale era ridotta al 90 per cento. Per le fasce di importo superiore al triplo del trattamento minimo la percentuale era ridotta al 75 per cento.
Le modalità di funzionamento della disposizione censurata sono ideate per incidere sui trattamenti complessivamente intesi e non sulle fasce di importo. Esse trovano un unico correttivo nella previsione secondo cui, per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato.
La norma censurata è frutto di un emendamento che, all’esito delle osservazioni rivolte al Ministro del lavoro e delle politiche sociali (Camera dei Deputati, Commissione XI, Lavoro pubblico e privato, audizione del 6 dicembre 2011), ha determinato la sostituzione della originaria formula. Quest’ultima prevedeva l’azzeramento della perequazione per tutti i trattamenti pensionistici di importo superiore a due volte il trattamento minimo INPS e, quindi, ad euro 946,00. Il Ministro chiarì nella stessa audizione che la misura da adottare non confluiva nella riforma pensionistica, ma era da intendersi quale «provvedimento da emergenza finanziaria».
La disposizione censurata ha formato oggetto di un’interrogazione parlamentare (Senato della Repubblica, seduta n. 93, interrogazione presentata l’8 agosto 2013, n. 3 – 00321) rimasta inevasa, in cui si chiedeva al Governo se intendesse promuovere la revisione del provvedimento, alla luce della giurisprudenza costituzionale.
Dall’excursus storico compiuto traspare che la norma oggetto di censura si discosta in modo significativo dalla regolamentazione precedente. Non solo la sospensione ha una durata biennale; essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato.
Il provvedimento legislativo censurato si differenzia, altresì, dalla legislazione ad esso successiva.
L’art. 1, comma 483, lettera e), della legge di stabilità per l’anno 2014 (legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-legge di stabilità») ha previsto, per il triennio 2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica sul complesso dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo di cui all’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, con l’azzeramento per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014. Rispetto al disegno di legge originario le percentuali sono state, peraltro, parzialmente modificate.
Nel triennio in oggetto la perequazione si applica nella misura del 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo fino a tre volte il trattamento minimo, del 95 per cento per i trattamenti di importo superiore a tre volte il trattamento minimo e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo del 75 per cento per i trattamenti oltre quattro volte e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo, del 50 per cento per i trattamenti oltre cinque volte e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS. Soltanto per il 2014 il blocco integrale della perequazione ha riguardato le fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo. Il legislatore torna dunque a proporre un discrimen fra fasce di importo e si ispira a criteri di progressività, parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità e della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza. Anche tale circostanza conferma la singolarità della norma oggetto di censura.
8.– Dall’analisi dell’evoluzione normativa in subiecta materia, si evince che la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del 2013).
Per le sue caratteristiche di neutralità e obiettività e per la sua strumentalità rispetto all’attuazione dei suddetti principi costituzionali, la tecnica della perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in ragione delle finalità che perseguono.
La ragionevolezza di tali finalità consente di predisporre e perseguire un progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost. così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici. Nell’applicare al trattamento di quiescenza, configurabile quale retribuzione differita, il criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) e nell’affiancarlo al criterio di adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.), questa Corte ha tracciato un percorso coerente per il legislatore, con l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli (fra le altre, sentenze n. 208 del 2014 e n. 316 del 2010). Il rispetto dei parametri citati si fa tanto più pressante per il legislatore, quanto più si allunga la speranza di vita e con essa l’aspettativa, diffusa fra quanti beneficiano di trattamenti pensionistici, a condurre un’esistenza libera e dignitosa, secondo il dettato dell’art. 36 Cost.
Non a caso, fin dalla sentenza n. 26 del 1980, questa Corte ha proposto una lettura sistematica degli artt. 36 e 38 Cost., con la finalità di offrire «una particolare protezione per il lavoratore». Essa ha affermato che proporzionalità e adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo, «ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta», senza che ciò comporti un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione, poiché è riservata al legislatore una sfera di discrezionalità per l’attuazione, anche graduale, dei termini suddetti (ex plurimis, sentenze n. 316 del 2010; n. 106 del 1996; n. 173 del 1986; n. 26 del 1980; n. 46 del 1979; n. 176 del 1975; ordinanza n. 383 del 2004). Nondimeno, dal canone dell’art. 36 Cost. «consegue l’esigenza di una costante adeguazione del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo» (sentenza n. 501 del 1988; fra le altre, negli stessi termini, sentenza n. 30 del 2004).
Il legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali deve «dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, alla stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona» (sentenza n. 316 del 2010). Per scongiurare il verificarsi di «un non sopportabile scostamento» fra l’andamento delle pensioni e delle retribuzioni, il legislatore non può eludere il limite della ragionevolezza (sentenza n. 226 del 1993).
Al legislatore spetta, inoltre, individuare idonei meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita. Così è avvenuto anche per la previdenza complementare, che, pur non incidendo in maniera diretta e immediata sulla spesa pubblica, non risulta del tutto indifferente per quest’ultima, poiché contribuisce alla tenuta complessiva del sistema delle assicurazioni sociali (sentenza n. 393 del 2000) e, dunque, all’adeguatezza della prestazione previdenziale ex art. 38, secondo comma, Cost.
Pertanto, il criterio di ragionevolezza, così come delineato dalla giurisprudenza citata in relazione ai principi contenuti negli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali.
9.– Nel vagliare la dedotta illegittimità dell’azzeramento del meccanismo perequativo per i trattamenti pensionistici superiori a otto volte il minimo INPS per l’anno 2008 (art. 1, comma 19 della già citata legge n. 247 del 2007), questa Corte ha ricostruito la ratio della norma censurata, consistente nell’esigenza di reperire risorse necessarie «a compensare l’eliminazione dell’innalzamento repentino a sessanta anni a decorrere dal 1° gennaio 2008, dell’età minima già prevista per l’accesso alla pensione di anzianità in base all’articolo 1, comma 6, della legge 23 agosto 2004, n. 243», con «lo scopo dichiarato di contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità, contestualmente adottati con l’art. 1, commi 1 e 2, della medesima legge» (sentenza n. 316 del 2010).
In quell’occasione questa Corte non ha ritenuto che fossero stati violati i parametri di cui agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. Le pensioni incise per un solo anno dalla norma allora impugnata, di importo piuttosto elevato, presentavano «margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo». L’esigenza di una rivalutazione costante del correlativo valore monetario è apparsa per esse meno pressante.
Questa Corte ha ritenuto, inoltre, non violato il principio di eguaglianza, poiché il blocco della perequazione automatica per l’anno 2008, operato esclusivamente sulle pensioni superiori ad un limite d’importo di sicura rilevanza, realizzava «un trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diverse rispetto a quelle, non incise dalla norma impugnata, dei titolari di pensioni più modeste». La previsione generale della perequazione automatica è definita da questa Corte «a regime», proprio perché «prevede una copertura decrescente, a mano a mano che aumenta il valore della prestazione». La scelta del legislatore in quel caso era sostenuta da una ratio redistributiva del sacrificio imposto, a conferma di un principio solidaristico, che affianca l’introduzione di più rigorosi criteri di accesso al trattamento di quiescenza. Non si viola il principio di eguaglianza, proprio perché si muove dalla ricognizione di situazioni disomogenee.
La norma, allora oggetto d’impugnazione, ha anche superato le censure di palese irragionevolezza, poiché si è ritenuto che non vi fosse riduzione quantitativa dei trattamenti in godimento ma solo rallentamento della dinamica perequativa delle pensioni di valore più cospicuo. Le esigenze di bilancio, affiancate al dovere di solidarietà, hanno fornito una giustificazione ragionevole alla soppressione della rivalutazione automatica annuale per i trattamenti di importo otto volte superiore al trattamento minimo INPS, «di sicura rilevanza», secondo questa Corte, e, quindi, meno esposte al rischio di inflazione.
La richiamata pronuncia ha inteso segnalare che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, «esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità», poiché risulterebbe incrinata la principale finalità di tutela, insita nel meccanismo della perequazione, quella che prevede una difesa modulare del potere d’acquisto delle pensioni.
Questa Corte si era mossa in tale direzione già in epoca risalente, con il ritenere di dubbia legittimità costituzionale un intervento che incida «in misura notevole e in maniera definitiva» sulla garanzia di adeguatezza della prestazione, senza essere sorretto da una imperativa motivazione di interesse generale (sentenza n. 349 del 1985).
Deve rammentarsi che, per le modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensì sull’ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già stato intaccato.
10.– La censura relativa al comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con «irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività» (sentenza n. 349 del 1985).
Non è stato dunque ascoltato il monito indirizzato al legislatore con la sentenza n. 316 del 2010.
Si profila con chiarezza, a questo riguardo, il nesso inscindibile che lega il dettato degli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. (fra le più recenti, sentenza n. 208 del 2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993). Su questo terreno si deve esercitare il legislatore nel proporre un corretto bilanciamento, ogniqualvolta si profili l’esigenza di un risparmio di spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo «al fine di evitare che esso possa pervenire a valori critici, tali che potrebbero rendere inevitabile l’intervento correttivo della Corte» (sentenza n. 226 del 1993).
La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell’art. 81 Cost.).
L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.
La norma censurata è, pertanto, costituzionalmente illegittima nei termini esposti.




venerdì 9 ottobre 2015

Quale è il limite di pignorabilità da parte dell’agente della riscossione delle somme dovute a titolo di stipendi, pensioni e TFR?


In base all’art. 72-ter del DPR 1973 n. 602 ”Le somme dovute a titolo di stipendio, di  salario  o  di  altre indennità relative al rapporto di  lavoro  o  di  impiego,  comprese quelle dovute a causa  di  licenziamento,  possono  essere  pignorate dall'agente della riscossione in misura pari ad un decimo per importi fino a 2.500 euro  e  in  misura  pari  ad  un  settimo  per  importi superiori a 2.500 euro e non superiori a 5.000 euro.
2. Resta ferma la misura di cui all'articolo 545, quarto comma, del codice di procedura civile, se le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o  di
impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, superano  i cinquemila euro.

2-bis. Nel caso di accredito delle somme di cui ai commi  1  e  2 sul conto corrente intestato al  debitore,  gli  obblighi  del  terzo pignorato non si estendono  all'ultimo  emolumento  accreditato  allo stesso titolo.”

giovedì 8 ottobre 2015

Come è sanzionato l’inadempimento nell’erogazione della formazione?

In base all’art. 47 del  Dlgs 81 del 2015 “In caso di inadempimento nella  erogazione  della  formazione  a carico  del  datore  di  lavoro,  di  cui  egli  sia   esclusivamente responsabile e che  sia  tale  da  impedire  la  realizzazione  delle finalità di cui agli articoli 43 (Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma   di  istruzione   secondaria   superiore   e   il   certificato   di   specializzazione tecnica superiore, 44 (apprendistato professionalizzante)  e 45 (apprendistato di alta formazione e ricerca), il datore  di  lavoro  è tenuto a versare la differenza tra la contribuzione versata e  quella dovuta con  riferimento  al  livello  di  inquadramento  contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al  termine  del periodo  di  apprendistato,  maggiorata  del  100  per   cento,   con esclusione di qualsiasi sanzione per omessa contribuzione.  Nel  caso in cui rilevi un  inadempimento  nella  erogazione  della  formazione prevista nel piano formativo individuale, il personale ispettivo  del Ministero  del  lavoro  e   delle   politiche   sociali   adotta   un provvedimento di disposizione, ai sensi dell'articolo 14 del  decreto legislativo n. 124 del 2004, assegnando un congruo termine al  datore di lavoro per adempiere”.


mercoledì 7 ottobre 2015

Quanto deve durare il contratto di apprendistato professionalizzante?


In base al comma 2 dell’ art. 44 “2. Gli accordi interconfederali e i contratti collettivi  nazionali di lavoro stipulati  dalle  associazioni  sindacali  comparativamente più rappresentative sul piano nazionale stabiliscono, in ragione del tipo  di  qualificazione  professionale  ai  fini   contrattuali   da conseguire, la durata e le modalità di erogazione  della  formazione per l'acquisizione delle relative competenze tecnico-professionali  e specialistiche,  nonché  la  durata  anche  minima  del  periodo  di apprendistato, che non può essere superiore a tre anni ovvero cinque per i profili professionali caratterizzanti la figura  dell'artigiano individuati dalla contrattazione collettiva di riferimento”. 

martedì 6 ottobre 2015

Quali sono i limiti di età per l’assunzione di lavoratori con il contratto di apprendistato professionalizzante?


In base all’art. 44 del Dlgs 81 del 2015 “possono essere assunti in tutti i settori di attività, pubblici o privati, con contratto di apprendistato professionalizzante per  il conseguimento   di   una   qualificazione   professionale   ai   fini contrattuali, i soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni. Per i soggetti in possesso di una qualifica  professionale,  conseguita  ai sensi del decreto legislativo  n.  226  del  2005,  il  contratto  di apprendistato professionalizzante può essere stipulato a partire dal diciassettesimo anno di età”.


NB in base alla C.Min. del M.L.P.S n. 30 del 15/07/2005 (punto IV "Limiti di età"):"L'assunzione potrà essere effettuata fino al giorno antecedente al compimento del trentesimo anno di età, ovvero fino a 29 anni e 364 giorni".

lunedì 5 ottobre 2015

Posso assumere con contratto di apprendistato lavoratori beneficiari dell’indennità di mobilità o che percepiscono un trattamento di disoccupazione?

In forza del comma 4 dell’art. 47 del Dlgs 81 del 2015: “ai  fini   della   loro   qualificazione   o   riqualificazione professionale    e'    possibile    assumere     in     apprendistato professionalizzante, senza limiti di età, i  lavoratori  beneficiari”:
-          di indennità di mobilità
-           di un trattamento di disoccupazione.

Per tali lavoratori tuttavia non opera lo speciale regime di recesso previsto per il contratto di apprendistato ma le ordinarie norme sui licenziamenti individuali.

Per i lavoratori che beneficiano dell’indennità di mobilità è possibile accedere al regime contributivo previsto dal comma 9 art. 25 l. 223 del 1991 (“9. Per ciascun lavoratore iscritto nella lista di mobilità assunto a tempo indeterminato, la quota di contribuzione a carico del  datore di lavoro, e' per i primi diciotto  mesi,  quella  prevista  per  gli apprendisti  dalla  legge  19  gennaio  1955,  n.  25,  e  successive modificazioni) nonché l’incentivo di  cui all'articolo 8, comma 4, della medesima legge (“4. Al datore di lavoro che, senza esservi tenuto ai sensi del comma 1, assuma a tempo pieno e indeterminato i lavoratori  iscritti  nella lista di mobilità e' concesso, per ogni mensilità  di  retribuzione corrisposta al lavoratore, un contributo mensile  pari  al  cinquanta per cento della indennità di mobilità che sarebbe stata corrisposta al lavoratore. Il predetto contributo non può essere erogato per  un numero di mesi superiore  a  dodici,  e  per  i  lavoratori  di  età superiore a cinquanta anni, per un numero  superiore  a  ventiquattro mesi, ovvero a trentasei mesi per le  aree  di  cui  all'articolo  7, comma 6. Il presente comma non trova applicazione per i giornalisti”.)


venerdì 2 ottobre 2015

A quanto ammonta l’assegno sociale nel 2015?


La misura massima dell’assegno è pari a 448,52 euro per 13 mensilità e per l’anno 2015 il limite di reddito è pari ad 5.830,76 euro annui.




Hanno diritto all'assegno in misura intera:


- i soggetti non coniugati che non possiedono alcun reddito;


- i soggetti coniugati che abbiano un reddito familiare inferiore all’ammontare annuo dell’assegno.


Hanno diritto all'assegno in misura ridotta:


- i soggetti non coniugati che hanno un reddito inferiore all’importo annuo dell’assegno;





- i soggetti coniugati che hanno un reddito familiare inferiore al doppio dell’importo annuo dell’assegno.

giovedì 1 ottobre 2015

Come è ripartito l’onere della prova nelle cause di demansionamento?


Le sezioni Unite della Cassazione del 2009 n. 5454 hanno sancito: “l’art. 2103, prevede che il datore di lavoro, nell'esercizio del suo potere direttivo, possa conformare il contenuto dell'obbligazione del lavoratore avente ad oggetto la prestazione lavorativa. Da una parte l'esercizio di tale potere è esso stesso oggetto di un'obbligazione strumentale a carico del datore di lavoro che è tenuto a conformare la prestazione lavorativa del lavoratore, il quale ha diritto a svolgerla, sicché l'omessa assegnazione di mansioni configura ex se un inadempimento di tale obbligazione in relazione al quale, ove allegato dal lavoratore, rimasto (illegittimamente) privo di mansioni, a sostegno in ipotesi di una pretesa risarcitoria, nessun onere probatorio grava su quest'ultimo; con riferimento proprio all'ipotesi di allegata inattività del lavoratore e quindi di asserita astensione del datore di lavoro dall'esercizio del potere direttivo v. Cass., sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4766, che ha affermato che grava invece sul datore di lavoro l'onere di provare di aver adempiuto a tale obbligazione strumentale conformando la prestazione lavorativa del lavoratore con l'assegnazione di mansioni. D'altra parte l'effettivo esercizio del potere direttivo si colloca su un piano diverso che è quello dei poteri privati ascrivibili alla categoria dei diritti potestativi. Con l'assegnazione delle mansioni è il contenuto dell'obbligazione di svolgere la prestazione lavorativa che viene determinato sicchè con un atto unilaterale del datore di lavoro si hanno effetti giuridici nella sfera del lavoratore il quale, in tal caso, versa in una situazione di soggezione. Proprio perchè si tratta di un potere privato, tipico della subordinazione, il legislatore circonda il suo esercizio di limitazioni e prescrizioni a garanzia del lavoratore e per bilanciare la sua situazione di soggezione. Sotto più profili l'esercizio di tale potere può appalesarsi illegittimo: perchè le mansioni cosi come conformate non sono corrispondenti alla qualifica; o perchè in tal modo si determina una discriminazione; o perchè c'è un motivo illecito quale quello di indiretto contrasto dell'attività sindacale del dipendente. In tal caso il lavoratore può reagire all'esercizio illegittimo di tale potere allegando circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia di illegittimità. C'è quindi a suo carico un onere di allegazione, come ritenuto da Cass., sez. lav., 24 ottobre 2005, n. 20523 con riferimento ad un'ipotesi di insufficiente allegazione degli elementi di fatto significativi dell'illegittimità dell'esercizio del potere suddetto mediante l'assegnazione di mansioni non corrispondenti alla qualifica e di conseguente rigetto della domanda; cfr. anche Cass. 18 agosto 1997 n. 7641. Il datore di lavoro a sua volta, convenuto in giudizio in una controversia avente ad oggetto l'assunta illegittimità dell'esercizio di tale potere direttivo, è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda (art. 416 cpc) e può allegare altri fatti che, all'opposto, siano indicativi del legittimo esercizio del potere direttivo. Parimenti l'onere probatorio grava rispettivamente sull'uno e sull'altro in ordine ai fatti che ciascuno allega. Nella specie la Corte d'appello, confermando la valutazione del tribunale, ha ritenuto la "carenza di ogni allegazione quanto alla natura demansionante dei compiti lavorativi afferenti allo specifico incarico" ed ha aggiunto che "gli oneri di allegazione prima, e di prova poi, gravavano esclusivamente sulla parte attrice". Quest'ultima affermazione è corretta in diritto con le precisazioni che si sono sopra fatte, laddove il quarto motivo consiste esclusivamente - e si esaurisce - nella trascrizione della massima estratta da Cass. n. 4766 del 2006 cit. che - come sopra rilevato - riguarda l'ipotesi dell'illegittima astensione del datore di lavoro dall'esercizio del suddetto potere direttivo con conseguente inattività del lavoratore rimasto privo di mansioni e che non autorizza a ritenere che, laddove invece il potere direttivo sia esercitato, il lavoratore che ne denunci l'illegittimo esercizio non sia tenuto ad allegare ed a provare i fatti sintomatici del vizio denunciato.