Perché l’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre
2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici , convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214,) è incostituzionale?
Secondo la sentenza della Corte Costituzionale 70 del 2015
la norma è incostituzionale “nella parte
in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria,
la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il
meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n.
448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti
pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo
INPS, nella misura del 100 per cento”;
Ecco di seguito la motivazione:
“5.– La questione
prospettata con riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma,
Cost. è fondata.
La perequazione
automatica, quale strumento di adeguamento delle pensioni al mutato potere di
acquisto della moneta, fu disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903
(Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della
previdenza sociale), all’art. 10, con la finalità di fronteggiare la
svalutazione che le prestazioni previdenziali subiscono per il loro carattere
continuativo.
Per perseguire un
tale obiettivo, in fasi sempre mutevoli dell’economia, la disciplina in
questione ha subito numerose modificazioni.
Con l’art.19 della
legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme
in materia di sicurezza sociale), nel prevedere in via generalizzata
l’adeguamento dell’importo delle pensioni nel regime dell’assicurazione
obbligatoria, si scelse di agganciare in misura percentuale gli aumenti delle
pensioni all’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT, ai fini della
scala mobile delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria.
Con l’art. 11,
comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, recante «Norme per
il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a
norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421», oltre alla cadenza
annuale e non più semestrale degli aumenti a titolo di perequazione automatica,
si stabilì che gli stessi fossero calcolati sul valore medio dell’indice ISTAT
dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. Tale modifica
mirava a compensare l’eliminazione dell’aggancio alle dinamiche salariali, al
fine di garantire un collegamento con l’evoluzione del livello medio del tenore
di vita nazionale. L’art. 11, comma 2, previde, inoltre, che ulteriori aumenti
potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in relazione all’andamento
dell’economia.
Il meccanismo di
rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici governato dall’art. 34,
comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per
la stabilizzazione e lo sviluppo) si prefigge di tutelare i trattamenti
pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta, che tende a
colpire le prestazioni previdenziali anche in assenza di inflazione. Con
effetto dal 1° gennaio 1999, il meccanismo di rivalutazione delle pensioni si
applica per ogni singolo beneficiario in funzione dell’importo complessivo dei
trattamenti corrisposti a carico dell'assicurazione generale obbligatoria.
L’aumento della rivalutazione automatica opera, ai sensi del comma 1 dell’art.
34 citato, in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare
rispetto all’ammontare complessivo.
Tuttavia, l’art
69, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria
2001), con riferimento al meccanismo appena illustrato di aumento della
perequazione automatica, prevede che esso spetti per intero soltanto per le
fasce di importo dei trattamenti pensionistici fino a tre volte il trattamento
minimo INPS. Spetta nella misura del 90 per cento per le fasce di importo da
tre a cinque volte il trattamento minimo INPS ed è ridotto al 75 per cento per
i trattamenti eccedenti il quintuplo del predetto importo minimo. Questa
impostazione fu seguita dal legislatore in successivi interventi, a conferma di
un orientamento che predilige la tutela delle fasce più deboli. Ad esempio,
l’art. 5, comma 6, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81 (Disposizioni urgenti
in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art.1, comma 1,
della legge 3 agosto 2007, n. 127, prevede, per il triennio 2008-2010, una
perequazione al 100 per cento per le fasce di importo tra tre e cinque volte il
trattamento minimo INPS.
In conclusione, la
disciplina generale che si ricava dal complesso quadro storico-evolutivo della
materia, prevede che soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate
dall’erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche o, in generale, dal
ridotto potere di acquisto delle pensioni.
6.– Quanto alle
sospensioni del meccanismo perequativo, affidate a scelte discrezionali del
legislatore, esse hanno seguito nel corso degli anni orientamenti diversi, nel
tentativo di bilanciare le attese dei pensionati con variabili esigenze di
contenimento della spesa.
L’art. 2 del
decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di
previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali)
previde che, in attesa della legge di riforma del sistema pensionistico e,
comunque, fino al 31 dicembre 1993, fosse sospesa l’applicazione di ogni
disposizione di legge, di regolamento o di accordi collettivi, che introducesse
aumenti a titolo di perequazione automatica delle pensioni previdenziali ed
assistenziali, pubbliche e private, ivi compresi i trattamenti integrativi a
carico degli enti del settore pubblico allargato, nonché aumenti a titolo di
rivalutazione delle rendite a carico dell’INAIL. In sede di conversione di tale
decreto, tuttavia, con l’art. 2, comma 1-bis, della legge 14 novembre 1992, n.
438 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 settembre
1992, n. 384, recante misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di
pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), si provvide a mitigare gli
effetti della disposizione, che dunque operò non come provvedimento di blocco
della perequazione, bensì quale misura di contenimento della rivalutazione,
alla stregua di percentuali predefinite dal legislatore in riferimento al tasso
di inflazione programmata.
In seguito, l’art.
11, comma 5, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di
finanza pubblica), provvide a restituire, mediante un aumento una tantum
disposto per il 1994, la differenza tra inflazione programmata ed inflazione
reale, perduta per effetto della disposizione di cui all’art. 2 della legge n.
438 del 1992. Conseguentemente, il blocco, originariamente previsto in via
generale e senza distinzioni reddituali dal legislatore del 1992, fu convertito
in una forma meno gravosa di raffreddamento parziale della dinamica
perequativa.
Dopo l’entrata in
vigore del sistema contributivo, il legislatore (art. 59, comma 13 della legge
27 dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la stabilizzazione della finanza
pubblica») ha imposto un azzeramento della perequazione automatica, per l’anno
1998. Tale norma, ritenuta legittima da questa Corte con ordinanza n. 256 del 2001, ha limitato il
proprio campo di applicazione ai soli trattamenti di importo medio - alto,
superiori a cinque volte il trattamento minimo.
Il blocco,
introdotto dall’art. 24, comma 25, come convertito, del d.l. n. 201 del 2011,
come convertito, ora oggetto di censura, trova un precedente nell’art. 1, comma
19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo
del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità
e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e
previdenza sociale) che, tuttavia, aveva limitato l’azzeramento temporaneo
della rivalutazione ai trattamenti particolarmente elevati, superiori a otto
volte il trattamento minimo INPS.
Si trattava – come
si evince dalla relazione tecnica al disegno di legge approvato dal Consiglio
dei ministri il 13 ottobre 2007 – di una misura finalizzata a concorrere
solidaristicamente al finanziamento di interventi sulle pensioni di anzianità,
a seguito, dell’innalzamento della soglia di accesso al trattamento
pensionistico (il cosiddetto “scalone”) introdotto, a decorrere dal 1° gennaio
2008, dalla legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e
deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla
previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti
di previdenza ed assistenza obbligatoria).
L’azzeramento
della perequazione, disposto per effetto dell’art. 1, comma 19, della legge n.
247 del 2007, prima citata, è stato sottoposto al vaglio di questa Corte, che
ha deciso la questione con sentenza n. 316 del 2010. In tale pronuncia
questa Corte ha posto in evidenza la discrezionalità di cui gode il
legislatore, sia pure nell’osservare il principio costituzionale di
proporzionalità e adeguatezza delle pensioni, e ha reputato non illegittimo
l’azzeramento, per il solo anno 2008, dei trattamenti pensionistici di importo elevato
(superiore ad otto volte il trattamento minimo INPS).
Al contempo, essa
ha indirizzato un monito al legislatore, poiché la sospensione a tempo
indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure
intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi
di ragionevolezza e proporzionalità. Si afferma, infatti, che «[…] le pensioni,
sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese
in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta».
7.– L’art. 24,
comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, oggetto di censura nel
presente giudizio, si colloca nell’ambito delle “Disposizioni urgenti per la
crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” (manovra denominata
“salva Italia”) e stabilisce che «In considerazione della contingente
situazione finanziaria», la rivalutazione automatica dei trattamenti
pensionistici, in base al già citato meccanismo stabilito dall’art. 34, comma
1, della legge n. 448 del 1998, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013,
esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre
volte il trattamento minimo INPS, nella misura del cento per cento.
Per effetto del
dettato legislativo si realizza un’indicizzazione al 100 per cento sulla quota
di pensione fino a tre volte il trattamento minimo INPS, mentre le pensioni di
importo superiore a tre volte il minimo non ricevono alcuna rivalutazione. Il
blocco integrale della perequazione opera, quindi, per le pensioni di importo
superiore a euro 1.217,00 netti.
Tale meccanismo si
discosta da quello originariamente previsto dall’art. 24, comma 4, della legge
28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986) e confermato dall’art. 11 del
decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del
sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo
3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che non discriminava tra trattamenti
pensionistici complessivamente intesi, bensì tra fasce di importo.
Secondo la
normativa antecedente, infatti, la percentuale di aumento si applicava
sull'importo non eccedente il doppio del trattamento minimo del fondo pensioni
per i lavoratori dipendenti. Per le fasce di importo comprese fra il doppio ed
il triplo del trattamento minimo la percentuale era ridotta al 90 per cento.
Per le fasce di importo superiore al triplo del trattamento minimo la
percentuale era ridotta al 75 per cento.
Le modalità di
funzionamento della disposizione censurata sono ideate per incidere sui
trattamenti complessivamente intesi e non sulle fasce di importo. Esse trovano
un unico correttivo nella previsione secondo cui, per le pensioni di importo
superiore a tre volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite
incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante, l’aumento di
rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite
maggiorato.
La norma censurata
è frutto di un emendamento che, all’esito delle osservazioni rivolte al
Ministro del lavoro e delle politiche sociali (Camera dei Deputati, Commissione
XI, Lavoro pubblico e privato, audizione del 6 dicembre 2011), ha determinato
la sostituzione della originaria formula. Quest’ultima prevedeva l’azzeramento
della perequazione per tutti i trattamenti pensionistici di importo superiore a
due volte il trattamento minimo INPS e, quindi, ad euro 946,00. Il Ministro
chiarì nella stessa audizione che la misura da adottare non confluiva nella
riforma pensionistica, ma era da intendersi quale «provvedimento da emergenza
finanziaria».
La disposizione
censurata ha formato oggetto di un’interrogazione parlamentare (Senato della
Repubblica, seduta n. 93, interrogazione presentata l’8 agosto 2013, n. 3 –
00321) rimasta inevasa, in cui si chiedeva al Governo se intendesse promuovere
la revisione del provvedimento, alla luce della giurisprudenza costituzionale.
Dall’excursus
storico compiuto traspare che la norma oggetto di censura si discosta in modo
significativo dalla regolamentazione precedente. Non solo la sospensione ha una
durata biennale; essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo
meno elevato.
Il provvedimento
legislativo censurato si differenzia, altresì, dalla legislazione ad esso
successiva.
L’art. 1, comma
483, lettera e), della legge di stabilità per l’anno 2014 (legge 27 dicembre
2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato-legge di stabilità») ha previsto, per il triennio
2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di
perequazione automatica sul complesso dei trattamenti pensionistici, secondo il
meccanismo di cui all’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, con
l’azzeramento per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento
minimo INPS e per il solo anno 2014. Rispetto al disegno di legge originario le
percentuali sono state, peraltro, parzialmente modificate.
Nel triennio in
oggetto la perequazione si applica nella misura del 100 per cento per i
trattamenti pensionistici di importo fino a tre volte il trattamento minimo,
del 95 per cento per i trattamenti di importo superiore a tre volte il
trattamento minimo e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo del
75 per cento per i trattamenti oltre quattro volte e pari o inferiori a cinque
volte il trattamento minimo, del 50 per cento per i trattamenti oltre cinque
volte e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS. Soltanto per
il 2014 il blocco integrale della perequazione ha riguardato le fasce di
importo superiore a sei volte il trattamento minimo. Il legislatore torna
dunque a proporre un discrimen fra fasce di importo e si ispira a criteri di
progressività, parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità e
della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza. Anche tale circostanza
conferma la singolarità della norma oggetto di censura.
8.– Dall’analisi
dell’evoluzione normativa in subiecta materia, si evince che la perequazione
automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica,
volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui
all’art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente a
innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36
Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai
trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (fra le altre,
sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del 2013).
Per le sue
caratteristiche di neutralità e obiettività e per la sua strumentalità rispetto
all’attuazione dei suddetti principi costituzionali, la tecnica della
perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte
discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in
concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento
deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, primo comma, e
38, secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in
ragione delle finalità che perseguono.
La ragionevolezza
di tali finalità consente di predisporre e perseguire un progetto di
eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost.
così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei
trattamenti pensionistici. Nell’applicare al trattamento di quiescenza,
configurabile quale retribuzione differita, il criterio di proporzionalità alla
quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) e
nell’affiancarlo al criterio di adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.),
questa Corte ha tracciato un percorso coerente per il legislatore, con
l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli (fra le
altre, sentenze n. 208 del 2014 e n. 316 del 2010). Il rispetto dei parametri
citati si fa tanto più pressante per il legislatore, quanto più si allunga la
speranza di vita e con essa l’aspettativa, diffusa fra quanti beneficiano di
trattamenti pensionistici, a condurre un’esistenza libera e dignitosa, secondo
il dettato dell’art. 36 Cost.
Non a caso, fin
dalla sentenza n. 26 del 1980, questa Corte ha proposto una lettura sistematica
degli artt. 36 e 38 Cost., con la finalità di offrire «una particolare
protezione per il lavoratore». Essa ha affermato che proporzionalità e
adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento del collocamento a
riposo, «ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai
mutamenti del potere d’acquisto della moneta», senza che ciò comporti
un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima
retribuzione, poiché è riservata al legislatore una sfera di discrezionalità
per l’attuazione, anche graduale, dei termini suddetti (ex plurimis, sentenze
n. 316 del 2010; n. 106 del 1996; n. 173 del 1986; n. 26 del 1980; n. 46 del
1979; n. 176 del 1975; ordinanza n. 383 del 2004). Nondimeno, dal canone
dell’art. 36 Cost. «consegue l’esigenza di una costante adeguazione del
trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo» (sentenza n.
501 del 1988; fra le altre, negli stessi termini, sentenza n. 30 del 2004).
Il legislatore,
sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali deve
«dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, alla stregua
delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile
delle esigenze minime di protezione della persona» (sentenza n. 316 del 2010).
Per scongiurare il verificarsi di «un non sopportabile scostamento» fra
l’andamento delle pensioni e delle retribuzioni, il legislatore non può eludere
il limite della ragionevolezza (sentenza n. 226 del 1993).
Al legislatore
spetta, inoltre, individuare idonei meccanismi che assicurino la perdurante
adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita. Così è avvenuto
anche per la previdenza complementare, che, pur non incidendo in maniera
diretta e immediata sulla spesa pubblica, non risulta del tutto indifferente
per quest’ultima, poiché contribuisce alla tenuta complessiva del sistema delle
assicurazioni sociali (sentenza n. 393 del 2000) e, dunque, all’adeguatezza
della prestazione previdenziale ex art. 38, secondo comma, Cost.
Pertanto, il
criterio di ragionevolezza, così come delineato dalla giurisprudenza citata in
relazione ai principi contenuti negli artt. 36, primo comma, e 38, secondo
comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue
scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali.
9.– Nel vagliare
la dedotta illegittimità dell’azzeramento del meccanismo perequativo per i
trattamenti pensionistici superiori a otto volte il minimo INPS per l’anno 2008
(art. 1, comma 19 della già citata legge n. 247 del 2007), questa Corte ha
ricostruito la ratio della norma censurata, consistente nell’esigenza di
reperire risorse necessarie «a compensare l’eliminazione dell’innalzamento
repentino a sessanta anni a decorrere dal 1° gennaio 2008, dell’età minima già
prevista per l’accesso alla pensione di anzianità in base all’articolo 1, comma
6, della legge 23 agosto 2004, n. 243», con «lo scopo dichiarato di contribuire
al finanziamento solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità,
contestualmente adottati con l’art. 1, commi 1 e 2, della medesima legge»
(sentenza n. 316 del 2010).
In quell’occasione
questa Corte non ha ritenuto che fossero stati violati i parametri di cui agli
artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. Le pensioni incise per un
solo anno dalla norma allora impugnata, di importo piuttosto elevato,
presentavano «margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno
inflattivo». L’esigenza di una rivalutazione costante del correlativo valore
monetario è apparsa per esse meno pressante.
Questa Corte ha
ritenuto, inoltre, non violato il principio di eguaglianza, poiché il blocco
della perequazione automatica per l’anno 2008, operato esclusivamente sulle
pensioni superiori ad un limite d’importo di sicura rilevanza, realizzava «un
trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diverse rispetto a
quelle, non incise dalla norma impugnata, dei titolari di pensioni più
modeste». La previsione generale della perequazione automatica è definita da
questa Corte «a regime», proprio perché «prevede una copertura decrescente, a
mano a mano che aumenta il valore della prestazione». La scelta del legislatore
in quel caso era sostenuta da una ratio redistributiva del sacrificio imposto,
a conferma di un principio solidaristico, che affianca l’introduzione di più
rigorosi criteri di accesso al trattamento di quiescenza. Non si viola il
principio di eguaglianza, proprio perché si muove dalla ricognizione di
situazioni disomogenee.
La norma, allora
oggetto d’impugnazione, ha anche superato le censure di palese
irragionevolezza, poiché si è ritenuto che non vi fosse riduzione quantitativa
dei trattamenti in godimento ma solo rallentamento della dinamica perequativa
delle pensioni di valore più cospicuo. Le esigenze di bilancio, affiancate al
dovere di solidarietà, hanno fornito una giustificazione ragionevole alla
soppressione della rivalutazione automatica annuale per i trattamenti di
importo otto volte superiore al trattamento minimo INPS, «di sicura rilevanza»,
secondo questa Corte, e, quindi, meno esposte al rischio di inflazione.
La richiamata
pronuncia ha inteso segnalare che la sospensione a tempo indeterminato del
meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a
paralizzarlo, «esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli
invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità», poiché risulterebbe
incrinata la principale finalità di tutela, insita nel meccanismo della
perequazione, quella che prevede una difesa modulare del potere d’acquisto
delle pensioni.
Questa Corte si
era mossa in tale direzione già in epoca risalente, con il ritenere di dubbia
legittimità costituzionale un intervento che incida «in misura notevole e in
maniera definitiva» sulla garanzia di adeguatezza della prestazione, senza
essere sorretto da una imperativa motivazione di interesse generale (sentenza
n. 349 del 1985).
Deve rammentarsi
che, per le modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni
eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi
brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno,
infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensì sull’ultimo importo
nominale, che dal mancato adeguamento è già stato intaccato.
10.– La censura
relativa al comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, se vagliata sotto i
profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico,
induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e
proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del
trattamento stesso e con «irrimediabile vanificazione delle aspettative
legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione
della propria attività» (sentenza n. 349 del 1985).
Non è stato dunque
ascoltato il monito indirizzato al legislatore con la sentenza n. 316 del 2010.
Si profila con
chiarezza, a questo riguardo, il nesso inscindibile che lega il dettato degli
artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. (fra le più recenti, sentenza
n. 208 del 2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993). Su questo terreno
si deve esercitare il legislatore nel proporre un corretto bilanciamento,
ogniqualvolta si profili l’esigenza di un risparmio di spesa, nel rispetto di
un ineludibile vincolo di scopo «al fine di evitare che esso possa pervenire a
valori critici, tali che potrebbero rendere inevitabile l’intervento correttivo
della Corte» (sentenza n. 226 del 1993).
La disposizione
concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art.
25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente
la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno
complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti
oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così
fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n.
214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese
maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre
2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26
del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica»
dell’art. 81 Cost.).
L’interesse dei
pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali
modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme
percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione
previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta
irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate
in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al
rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la
proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione
differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo
comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se
non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al
contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3,
secondo comma, Cost.
La norma censurata
è, pertanto, costituzionalmente illegittima nei termini esposti.