mercoledì 30 giugno 2021

 Il permesso di soggiorno per cure mediche permette di lavorare?


Art. 36 (Ingresso e soggiorno per cure mediche)(Legge 6 marzo 1998, n. 40, art. 34)

1. Lo straniero che intende ricevere cure mediche in Italia e l'eventuale accompagnatore possono ottenere uno specifico visto di ingresso ed il relativo permesso di soggiorno. A tale fine gli interessati devono presentare una dichiarazione della struttura sanitaria italiana prescelta che indichi il tipo di cura, la data di inizio della stessa e la durata presunta del trattamento terapeutico, devono attestare l'avvenuto deposito di una somma a titolo cauzionale, tenendo conto del costo presumibile delle prestazioni sanitarie richieste, secondo modalità stabilite dal regolamento di attuazione, nonché documentare la disponibilità in Italia di vitto e alloggio per l'accompagnatore e per il periodo di convalescenza dell'interessato. La domanda di rilascio del visto o di rilascio o rinnovo del permesso può anche essere presentata da un familiare o da chiunque altro vi abbia interesse.


2. Il trasferimento per cure in Italia con rilascio di permesso di soggiorno per cure mediche è altresì consentito nell'ambito di programmi umanitari definiti ai sensi dell'articolo 12, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, come modificato dal decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517, previa autorizzazione del Ministero della sanità, d'intesa con il Ministero degli affari esteri. Le aziende sanitarie locali e le aziende ospedaliere, tramite le regioni, sono rimborsate delle spese sostenute che fanno carico al fondo sanitario nazionale.


3. Il permesso di soggiorno per cure mediche ha una durata pari alla durata presunta del trattamento terapeutico, è rinnovabile finché durano le necessità terapeutiche documentate e consente lo svolgimento di attività lavorativa. 


4. Sono fatte salve le disposizioni in materia di profilassi internazionale.


martedì 29 giugno 2021

Il permesso per motivi di salute ex art. 19 del dlgs 286 del 1998 è convertibile in permesso per lavoro? 



In forza dell'art. 19 comma 2 lettera d bis come introdotto dall’ art. 1, comma 1, lett. g), D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla L. 1° dicembre 2018, n. 132, e, successivamente, così modificata dall’ art. 1, comma 1, lett. e), nn. 3.1) e 3.2), D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 dicembre 2020, n. 173 prevede:

d-bis) degli stranieri che versano in gravi condizioni psico-fisiche o derivanti da gravi patologie, accertate mediante idonea documentazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, tali da determinare un rilevante pregiudizio alla salute degli stessi, in caso di rientro nel Paese di origine o di provenienza. In tali ipotesi, il questore rilascia un permesso di soggiorno per cure mediche, per il tempo attestato dalla certificazione sanitaria, comunque non superiore ad un anno, rinnovabile finché persistono le condizioni di cui al periodo precedente debitamente certificate, valido solo nel territorio nazionale e convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro







lunedì 28 giugno 2021

L'amministratore unico può essere lavoratore subordinato? 


Cass. 17-06-2021, n. 17338

Le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 1545 del 2017, proprio con riguardo alla figura dell'amministratore unico o del consigliere di amministrazione di una spa, hanno sottolineato che non può escludersi che possa essere instaurato, tra la società e la persona fisica che la rappresenta e la gestisce, un autonomo, parallelo e diverso rapporto che assuma, secondo l'accertamento esclusivo del giudice di merito, le caratteristiche di un rapporto subordinato, parasubordinato o d'opera, come già indicato da Cass. n. 1796/1996.

Cass: SU 1545 dl 2017




La natura del rapporto che lega la società per azioni ed il suo amministratore. La dottrina.

Giova premettere rapidissimi cenni circa le posizioni dottrinarie sul tema, visto che la giurisprudenza ne ha in qualche modo risentito gli echi, diversificandosi in ragione delle diverse teorie di volta in volta accolte, oppure tentando il connubio tra esse.

In estrema sintesi, sono identificabili due diversi orientamenti: 1) la teoria cd. contrattualistica, che individua la presenza di un vero e proprio contratto che legherebbe due soggetti distinti, l'amministratore da un lato, la società dall'altro, ciascuno autonomo centro di interessi, spesso anche contrapposti; 2) la teoria cd. organica, secondo cui, al contrario, mancherebbe ogni dualità, configurandosi solo un'immedesimazione dell'organo nella persona giuridica che rappresenta, senza possibilità di un regolamento negoziale interno, fonte di reciproci diritti e obblighi.

E' ovvio che la prima apre la strada alla configurabilità di un rapporto parasubordinato tra i due soggetti distinti costituiti dalla società ed il suo amministratore, mentre la seconda conduce ad escluderlo in forza dell'indistinguibilità dei due.

Più in dettaglio, poi, possono essere individuate nell'ambito della teoria cd. contrattualistica (la quale, come s'è visto, fa derivare il conferimento del potere rappresentativo all'amministratore non dalla legge o dallo statuto, bensì dal regolamento negoziale, con la conseguente negazione dell'immedesimazione organica): a) la tesi di coloro i quali hanno ravvisato un negozio sui generis, tipico di amministrazione, non riconducibile ad alcuna tipologia nota, ma assimilabile di volta in volta a questo o quel contratto (di mandato, d'opera, di lavoro subordinato, ecc.), senza tuttavia identificarsi in alcuno, salvo far riferimento alle rispettive, compatibili discipline; b) l'antica teoria che assimila la figura dell'amministratore a quella del mandatario, della quale ha ormai fatto giustizia il riformato testo dell'art. 2392 c.c., nel quale è stato eliminato il richiamo alla "diligenza del mandatario" di cui all'art. 1710 c.c.; c) la teoria più isolata che vede nell'amministratore un lavoratore subordinato della società (diversa da quella che ammette la possibilità di cumulare il rapporto di amministrazione con quello di lavoratore subordinato), in base alla quale il rapporto di amministrazione sarebbe esso stesso da ricondurre ad un rapporto di lavoro subordinato, con l'assemblea che ne ha il potere di nomina e revoca (quindi, di costituire ed estinguere il rapporto) nonchè quello direttivo e di controllo (esercitato unitamente al collegio sindacale) e l'amministratore, dal suo canto, con i suoi doveri di fedeltà e di collaborazione che si manifestano principalmente nell'obbligo di non concorrenza, di cui all'art. 2390 c.c., e nel diritto al compenso; d) la teoria che riconduce l'amministratore alla figura del prestatore d'opera professionale finalizzata a far conseguire un profitto alla società, con assunzione di responsabilità ed impiego di tempo ed energie lavorative; e) la teoria, infine, che riconduce il rapporto d'amministrazione alla fattispecie della parasubordinazione (che, come vedremo in seguito, è stata accolta da una pronunzia delle S.U. del 1994), configurando un rapporto negoziale autonomo tra amministratore e società, dal contenuto fissato dalla legge e dallo statuto, superando definitivamente l'idea di un'immedesimazione organica assoluta che avrebbe impedito il dualismo e la contrapposizione di interessi e costringendo il rapporto di amministrazione nell'area dei rapporti intrasoggettivi.

A fronte di quella finora sinteticamente descritta v'è, invece, la cd. teoria organica, per la quale gli amministratori rappresentano un organo necessario per l'operatività della società, secondo una precisa scelta del legislatore che ne ha regolato la struttura in modo tale da escludere che il loro rapporto possa operare secondo le regole della rappresentanza ordinaria. La configurazione non contrattuale del rapporto società - amministratori incide poi sulla ricostruzione della fonte dei loro poteri: gli amministratori risulterebbero titolari dei poteri gestori in via originaria, in quanto organi necessari per il funzionamento e la realizzazione del contratto sociale, analogamente ai poteri dell'assemblea dei soci, con cui vi sarebbe una semplice convivenza, senza alcuna possibilità di sovrapposizione o limitazione. I poteri degli amministratori derivando direttamente dalla legge sono dunque autonomi, non avocabili, nè disponibili, nè limitabili ad opera dell'assemblea dei soci a cui spetta solo di designare il titolare di prerogative gestorie già determinate. Ulteriore corollario del rapporto organico è quello della immedesimazione organica dell'amministratore nella società stessa, e quindi l'inesistenza di due contrapposti ed autonomi centri di interesse tra i quali instaurare non solo un rapporto contrattuale ma un qualsiasi rapporto intersoggettivo, data l'impossibilità di una diversificazione di posizioni contrapposte e l'inesistenza di separazione tra funzione gestoria e funzione esecutiva sottoponibile a verifica, controllo o disciplina.

La natura di organo riconosciuta all'amministratore diviene dunque il principale ostacolo giuridico alla configurabilità di qualsivoglia rapporto di natura patrimoniale tra la persona fisica e la società, a causa della mancanza di due distinti centri di interessi e di volontà, non solo nella fase genetica del rapporto, ma anche e soprattutto nella fase del suo svolgimento.

3.2 - Lo stato della giurisprudenza. La sentenza a S.U. del 1994 ed i suoi precedenti.

Il contrasto giurisprudenziale sul tema (che, come s'è detto, è stato riscontrato sia dalla sentenza oggi impugnata, sia dall'ordinanza interlocutoria di rimessione alle S.U.) è diretta conseguenza della variegata elaborazione dottrinale finora descritta e si può definire endemico alla giurisprudenza di legittimità.

Le molteplici pronunzie susseguitesi sin dagli anni ‘80 del secolo scorso (tutte rese per fini diversi da quelli che oggi ci riguardano e, soprattutto, per risolvere problemi di competenza e di rito) evidenziano un primo orientamento che escludeva potersi individuare nell'ambito del rapporto di amministrazione un rapporto tra due distinti centri di interesse tra i quali avviene lo scambio di prestazioni, siccome l'ordinamento della società per azioni è regolato in modo da attribuire all'amministratore-rappresentante le caratteristiche strutturali di organo, con esclusione dei connotati del rapporto inter-soggettivo della rappresentanza ordinaria.

Tutte queste pronunce erano favorevoli all'applicazione del rito ordinario, stante l'impossibilità di diversificare l'attività del prestatore di lavoro e l'attività del destinatario della prestazione per l'assenza dei due contrapposti centri di interesse e la conseguente necessità di escludere il rapporto di parasubordinazione, data la mancanza del rapporto di dipendenza sul piano economico e, quindi, di quella situazione di debolezza contrattuale che caratterizza tali rapporti e ne giustifica l'equiparazione alla subordinazione ai fini della tutela processuale.

Un diverso orientamento riconduceva invece le controversie in questione all'art. 409 c.p.c., n. 3, ritenendo che il rapporto tra amministratore e società per azioni presentasse i caratteri della continuità e del coordinamento con l'attività svolta dall'impresa societaria, richiesti da tale norma per affermare la competenza per materia del giudice del lavoro.

Il tentativo di dare soluzione al contrasto è stato compiuto da queste S.U. con la sentenza n. 10680 del 1994, la quale, ancora una volta per risolvere una questione di rito e competenza (si trattava di stabilire innanzi a quale giudice dovesse essere sottoposta l'azione proposta dall'amministratore contro la società da lui amministrata per il rimborso di spese da lui effettuate in adempimento del mandato), prese netta posizione a favore della qualificazione del rapporto di amministrazione in termini di rapporto di lavoro parasubordinato, ai sensi dell'art. 409 c.p.c., n. 3.

Il principio enunciato dalla sentenza è il seguente: La controversia nella quale l'amministratore di una società per azioni, o ente assimilato, chieda la condanna della società stessa al pagamento di una somma dovuta per effetto dell'attività di esercizio delle funzioni gestorie, è soggetta al rito del lavoro ai sensi dell'art. 409 c.p.c., n. 3, atteso che, se verso i terzi estranei all'organizzazione societaria è configurabile, tra amministrazione e società, un rapporto di immedesimazione organica, all'interno dell'organizzazione ben sono configurabili rapporti di credito nascenti da un'attività come quella resa dall'amministratore, continua, coordinata e prevalentemente personale, non rilevando in contrario il contenuto parzialmente imprenditoriale dell'attività gestoria e l'eventuale mancanza di una posizione di debolezza contrattuale dell'amministratore nei confronti della società.

L'enunciato si articola in quattro essenziali proposizioni: a) l'esistenza di un rapporto organico, in virtù del quale l'amministratore impersona la società all'esterno, non esclude la configurabilità, nei rapporti interni, di un vincolo di natura obbligatoria tra l'amministratore stesso e l'ente da lui gestito, nè la conseguente distinzione, in quest'ambito, di due centri d'interesse contrapposti facenti rispettivamente capo alle parti di tale ultimo rapporto; b) l'attività che l'amministratore è tenuto a prestare in favore della società presenta i caratteri della personalità, della continuazione e della coordinazione, e quindi rientra nella previsione dell'art. 409 c.p.c., n. 3; c) la circostanza che tale attività sia finalizzata al conseguimento dello scopo sociale, ed abbia perciò contenuto imprenditoriale, non impedisce di ritenerla parasubordinata, non foss'altro che un analogo contenuto è ravvisabile anche nell'attività dell'institore, il quale certamente opera in posizione di lavoratore subordinato; d) la difficoltà d'ipotizzare una situazione di debolezza contrattuale dell'amministratore nei confronti della società non vale ad escludere il carattere parasubordinato del relativo rapporto, perchè l'indicata situazione di debolezza non costituisce un presupposto di applicabilità della disciplina processuale delle controversie in materia di lavoro.

3.3 - La giurisprudenza successiva alla sentenza a S.U. del 1994.

Si diceva in precedenza del "tentativo" operato da queste S.U. nel 1994 di dare un definitivo assetto al tema, siccome quella sentenza ha avuto sicuramente il pregio di fondare l'orientamento giurisprudenziale maggioritario, senza tuttavia spegnere i contrasti che nei più di venti anni a seguire hanno caratterizzato le decisioni in argomento. Contrasti che, per un verso, sono stati fomentati dalla sempre più diversificata dottrina e che, per altro verso, sono la necessaria conseguenza del mutato quadro normativo, non solo in materia societaria.

A fronte, dunque, di numerosissime sentenze che hanno, per finalità varie, ribadito la natura parasubordinata del rapporto in questione, se ne individuano altre che, invece, sono tornate ad affermare la tesi del rapporto di lavoro autonomo, pur con generico riferimento all'immedesimazione organica. Altre ancora - come vedremo - hanno affermato la natura autonoma e tipica del rapporto societario.

In quest'ordine di idee, s'è affermata la legittimità della previsione statutaria di gratuità delle funzioni di amministratore di società (Cass. n. 2861/02), s'è esclusa l'applicabilità al rapporto del disposto dell'art. 36 Cost., con conseguente affermazione di disponibilità e rinunciabilità del compenso (Cass. n. 19714/12), oppure s'è affermato che, in caso di revoca senza giusta causa, la liquidazione dei relativi danni debba avvenire secondo i criteri generali degli artt. 1223 e 2697 c.c., e non equiparando la vicenda alla risoluzione di un contratto di lavoro subordinato (Cass. n. 23557/08).

Neppure da trascurare è il filone giurisprudenziale il quale, in maniera incontrastata, esclude da molti decenni che il privilegio ex art. 2751 bis c.c., n. 2, assista il credito del compenso in favore dell'amministratore o liquidatore di società. Teoria fondata sulla constatazione che l'attività svolta da quei soggetti non presenta gli elementi del perseguimento di un risultato con conseguente sopportazione del rischio ed, a differenza di quella del prestatore d'opera, non è determinata dai contraenti preventivamente, nè è determinabile aprioristicamente (tra le varie e più recenti, cfr. Cass. n. 22046/14, n. 4769/14, n. 11652/07, n. 13805/04).

Si dirà in seguito della recente ed innovativa tesi giurisprudenziale del "rapporto societario", riferita al disposto del D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 3, comma 2, lett. a), che detta criteri per l'individuazione della competenza per materia del tribunale delle imprese.

3.4 - Critiche alla teoria del rapporto parasubordinato.

Il mutato assetto normativo sviluppatosi in questo lungo lasso di tempo, la nuova configurazione dell'intero sistema societario derivante dalle novelle legislative, il diverso approccio alla materia che non tenga conto di problematiche attinenti solo alla competenza ed al rito, impongono alle S.U. un radicale ripensamento rispetto alla propria decisione del 1994 ed alle conseguenze che ne sono derivate e ne derivano trasversalmente in vasti campi dell'ordinamento.

Ponendo a raffronto i quattro enunciati sui quali fonda quella sentenza (cfr. supra par. 3.2) ed il disposto dell'art. 409 c.p.c., n. 3, (che fa riferimento ad "una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato") occorre rilevare che quello sub a) deve essere senz'altro concordato (seppure con i limiti dei quali si dirà in seguito), nella considerazione che l'immedesimazione organica può aver rilievo nei rapporti con i terzi, ma nei rapporti interni effettivamente sussiste una relazione obbligatoria tra soggetti affatto distinti tra loro. Difficilmente, invece, può essere prestata adesione agli altri enunciati contenuti in sentenza. Soprattutto all'affermata esistenza del fondamentale requisito del coordinamento, che in essa rimane mera asserzione, nè sviluppata, nè dimostrata.

Le perplessità sul punto, che furono avanzate dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito già all'indomani della pubblicazione della sentenza in commento, risultano oggi quanto mai rafforzate alla luce delle novelle susseguitesi in campo societario dal 2003 in poi.

E' opinione unanime, condivisa da dottrina e giurisprudenza, che il coordinamento presupposto dalla disposizione di cui all'art. 409 c.p.c., n. 3, deve essere inteso in senso verticale, ossia deve rappresentarsi come una situazione per cui il prestatore d'opera parasubordinata è soggetto ad un coordinamento che fa capo ad altri, in un rapporto che deve presentare connotati simili a quelli del rapporto gerarchico propriamente subordinato. E' per questo, ossia al fine di favorire la parte normalmente più debole, che il rapporto parasubordinato è assoggettato dal legislatore alla medesima disciplina processuale prevista per quello subordinato. In altri termini, l'attività coordinata è sinonimo di attività in qualche misura eterodiretta o, comunque, soggetta ad ingerenze o direttive altrui.

Requisito, questo, che - più che mai nell'attuale quadro normativo - non è affatto individuabile rispetto all'attività dell'amministratore societario, neanche se si volesse ritenere (come sembra, per fugaci accenni, ritenere la sentenza del 1994) che questi sia soggetto al coordinamento dell'assemblea dei soci.

Al contrario, la riforma del diritto societario rende l'amministratore il vero egemone dell'ente sociale. A lui spetta in via esclusiva la gestione dell'impresa, con il solo limite di quegli atti che non rientrano nell'oggetto sociale (art. 2380 bis c.c.); il suo potere di rappresentanza è generale e concerne anche gli atti estranei all'oggetto sociale (art. 2384 c.c., comma 1); se è amministratore unico ha sia il potere di gestione, sia quello di rappresentanza; in eccezione ai principi generali, è stabilito che le limitazioni ai suoi poteri (sia di rappresentanza, sia di gestione) che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti (non quelle legali) non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, fatta salva la cd. exceptio doli (art. 2384, comma 2, c.c.).

Quanto, poi, al rapporto tra assemblea ed amministratore, la novella consente di escludere affatto l'ipotizzabilità di un coordinamento imposto dalla prima al secondo.

Questo rapporto emerge da due disposizioni: il già citato art. 2380 bis c.c., che, come s'è visto, attribuisce la gestione dell'impresa in via esclusiva all'amministratore, e l'art. 2364 c.c., n. 5, per il quale l'assemblea ordinaria delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell'assemblea, nonchè sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori.

Dal raffronto si deduce che la competenza gestoria dell'assemblea ha carattere delimitato e specifico: ossia, sussiste solo per gli atti espressamente attribuiti dalla legge alla competenza dell'assemblea, mentre quella degli amministratori ha carattere generale e sussiste per tutti gli atti d'impresa che non sono riservati all'assemblea e che si pongono in rapporto di mezzo a fine rispetto al conseguimento dell'oggetto sociale. Quest'ultima cessa, per lasciare il campo a quella dell'assemblea, solo quando si tratta di iniziative che comportino una sostanziale modifica, diretta o indiretta, dell'oggetto sociale.

Inoltre, non è possibile riservare statutariamente all'assemblea la decisione di compiere l'atto ma può essere solo prevista una mera autorizzazione a compiere l'atto, nel senso che la decisione del compimento dell'atto rimane pur sempre riservata all'amministratore, il quale può decidere di non compiere l'atto, benchè l'assemblea l'abbia autorizzato a farlo. In ogni caso, l'autorizzazione al compimento degli atti deve essere oggi prevista dallo statuto.

In conclusione, se per "coordinamento" (quale presupposto indispensabile perchè ai sensi dell'art. 409 c.p.c., n. 3, possa individuarsi un'attività parasu-bordinata) deve intendersi l'eterodirezione dell'attività stessa, si può categoricamente escludere che la funzione dell'amministratore societario ne sia soggetto.

Per altro verso, non può farsi a meno di rilevare che la soggezione al coordinamento è riflesso di una situazione di debolezza contrattuale che costituisce il senso stesso della summenzionata disposizione, dal momento che è proprio la presupposta inferiorità di una parte rispetto all'altra a giustificare l'equiparazione del lavoratore parasubordinato a quello subordinato. La sentenza del 1994 liquida l'argomento ritenendo che "quest'elemento è di incerta definizione e, quel che più conta, è di contenuto sociologico, ossia valido quale ausilio interpretativo in quanto idoneo a ricostruire la ratio legis, ma non è assumibile quale presupposto di applicabilità di una norma".

Ritengono, piuttosto, oggi le S.U. che, se quest'elemento è idoneo a ricostruire la ratio legis, nella vicenda che ci occupa l'accertata assenza di una situazione di debolezza contrattuale conforta la tesi dell'inconfigurablità dell'amministratore societario quale lavoratore parasubordinato.

3.5 - La tesi del rapporto societario.

Tutto ciò premesso, è indispensabile rappresentare che la giurisprudenza di legittimità è recentemente pervenuta alla profonda rivisitazione del tema ed al superamento degli ambiti tra i quali finora s'era mossa, sostenendo che il rapporto fra l'amministratore e la società debba essere ricondotto nell'ambito dei "rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l'accertamento, la costituzione, la modificazione o l'estinzione di un rapporto societario" cui fa riferimento il D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 3, comma 2, lett. a), per l'individuazione della competenza per materia del tribunale delle imprese.

In questo condivisibile ordine d'idee, tutta la giurisprudenza (che ha trovato la sua basilare affermazione proprio nella pronuncia delle S.U. n. 10680 del 1994) non è più compatibile con il citato intervento legislativo che, appunto, ha attribuito al tribunale delle imprese la competenza relativa alle controversie in materia di rapporti societari, nella loro complessità, che coinvolgano amministratori e società, rendendo ormai irrilevante la distinzione fra l'attività a rilevanza esterna degli amministratori e il rapporto di natura obbligatoria di questi ultimi con la società.

Nell'esegesi dell'ultima disposizione normativa in commento, è stato correttamente osservato (in particolare da Cass. n. 14369/15) che tra i "rapporti societari" ai quali essa fa riferimento deve necessariamente comprendersi il rapporto tra società ed amministratori, data l'essenzialità del rapporto di rappresentanza in capo a questi ultimi come rapporto che, essendo funzionale, secondo la figura della c.d. immedesimazione organica, alla vita della società, consente alla stessa di agire. In altri termini, tale rapporto è rapporto "di società" perchè serve ad assicurare l'agire della società, non assimilabile, in quest'ordine di idee, nè ad un contratto d'opera (in questo senso, cfr. già Cass. 22046/14), nè tanto meno ad un rapporto di tipo subordinato o parasubordinato.

Così ragionando, ossia facendo riferimento alla natura del rapporto come di tipo "societario", la citata Cass. n. 14369/15 ha ricompreso nella competenza del tribunale delle imprese la controversia avente ad oggetto l'impugnazione di delibera di revoca di un intero consiglio di amministrazione per giusta causa, mentre Cass. n. 2759/16 ha ammesso il ricorso ad arbitri anche nelle controversie tra amministratori e società attinenti al profilo interno dell'attività gestoria ed ai diritti che ne derivano (quale, ad esempio, il diritto al compenso), ove tale possibilità sia prevista dagli statuti societari. Giova, infine, ricordare che già il D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, art. 130, introducendo l'art. 144 ter disp. att. c.p.c., aveva escluso che tra le controversie previste dall'art. 409 c.p.c., fossero comprese quelle di cui all'art. 50 bis c.p.c., comma 1, n. 5, seconda parte, (tra cui l'azione di responsabilità promossa dalla società nei confronti dei suoi amministratori), controversie per le quali il tribunale giudica in composizione collegiale. L'art. 50 bis c.p.c., è stato poi modificato dalla L. n. 262 del 2005, art. 15, (Tutela del risparmio e disciplina dei mercati finanziari).

4 - Un'opportuna precisazione.

E' indispensabile precisare che tutto quanto finora affermato concerne la figura dell'amministratore societario nelle sue funzioni tipiche di gestione e rappresentanza dell'ente, ossia come soggetto che, immedesimandosi nella società, le consente di agire e raggiungere i propri fini imprenditoriali. Non è escluso, però, che s'instauri, tra la società e la persona fisica che la rappresenta e la gestisce, un autonomo, parallelo e diverso rapporto che assuma, secondo l'accertamento esclusivo del giudice del merito, le caratteristiche di un rapporto subordinato, parasubordinato o d'opera.

E' il caso ben delineato dalla risalente Cass. n. 1796/96, la quale, affermata la compatibilità giuridica tra le funzioni del lavoratore dipendente e quelle di amministratore di una società, precisa che la sussistenza di un simile rapporto deve essere verificata in concreto; essendo indispensabile, da una parte, accertare l'oggettivo svolgimento di attività estranee alle funzioni inerenti al rapporto organico, dall'altra, la ricorrenza della subordinazione, sia pure nelle forme peculiari compatibili con la prestazione lavorativa dirigenziale. Nella specie, si trattava di un soggetto che originariamente era stato assunto dalla società con la qualifica di dirigente e, solo successivamente, era stato investito della carica di componente nel consiglio di amministrazione, da lui in alcune occasioni presieduto. Il menzionato precedente di legittimità ha così respinto il ricorso avverso la sentenza che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento del dirigente in assenza di prova, da parte della società, della cessazione del rapporto subordinato e della sua sostituzione con un rapporto diverso che attribuiva all'ex lavoratore il potere di assumere decisioni imprenditoriali travalicanti la sfera di attribuzioni di un dirigente, stante l'ammissibilità della coesistenza del rapporto di lavoro subordinato con le diverse e non interferenti funzioni amministrative.

sabato 26 giugno 2021

 Cosa prevede il trattato di funzionamento dell'Unione Europea del 25 marzo 1957  come modificato dal trattato di Lisbona in tema di parità uomo donna?







Articolo 157 [Testo post Trattato di Lisbona]

1. Ciascuno Stato membro assicura l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.


2. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell'impiego di quest'ultimo.
La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica:

a) che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura;
b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro.



3. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adottano misure che assicurino l'applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.


4. Allo scopo di assicurare l'effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l'esercizio di un'attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali.


venerdì 25 giugno 2021

Come si determina la soglia dei 1000 euro degli sgravi fiscali previsti dal DL 2018 n. 119?  

Cass. 18/06/2021, n. 17506

In tema di sgravi fiscali, il D.L. 23 ottobre 2018 n. 119, convertito con modifiche in L. 17 dicembre 2018 n. 136, prevede lo stralcio "ex lege" dei debiti tributari che non superano l'importo di Euro 1.000,00, affidati agli agenti di riscossione nel periodo compreso tra il 2000 e il 2010. Gli elementi per individuare i debiti oggetto di stralcio sono: la sorte capitale; gli interessi per ritardata iscrizione a ruolo; le sanzioni, risultanti dai singoli carichi affidati all'Agenzia della riscossione da 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2010. Il limite di valore si riferisce ai debiti di importo residuo comprensivi di sorte capitale, interessi e sanzioni e non si tiene conto, invece, degli interessi di mora e dell'aggio della riscossione; il predetto limite, in tale contesto, è riferito al "singolo carico affidato", di tal ché nell'ambito operativo della norma rientrano tutte quelle cartelle, anche di importo complessivamente superiore a 1.000 euro, il cui singolo carico affidato al riscossore non superi l'importo di mille euro

giovedì 24 giugno 2021

Quando decorre il termine per  l'avvio della procedura disciplinare nel pubblico impiego?


cass. 21/06/2021, n. 17603

L'art. 55-bis del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, applicabile "ratione temporis", laddove fa decorrere il termine per la conclusione del procedimento disciplinare dalla data "di prima acquisizione della notizia della infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora", si riferisce non già all'acquisizione della notizia da parte di un qualsiasi ufficio dell'amministrazione, ma soltanto alla sua acquisizione da parte dell'ufficio per i procedimenti disciplinari e/o del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora. Il medesimo principio si applica anche qualora venga in rilievo la tempestività della contestazione (dovendo aversi riguardo, in tal caso, alla data in cui l'ufficio per i procedimenti disciplinari riceve gli atti trasmessi dal responsabile della struttura o nella quale il medesimo ufficio ha altrimenti acquisito notizia dell'infrazione), poiché la contestazione può essere ritenuta tardiva solo qualora l'amministrazione rimanga ingiustificatamente inerte e, quindi, non proceda ad avviare il procedimento, pur essendo in possesso degli elementi necessari per il suo valido avvio.

mercoledì 23 giugno 2021

 Come devono essere pagate le retribuzioni ai lavoratori subordinati ed ai collaboratori?


In base ai commi 910 e ss. dell'art. della legge 205 del 2017:


Art. 1 - Commi

910. A far data dal 1° luglio 2018 i datori di lavoro o committenti corrispondono ai lavoratori la retribuzione, nonché ogni anticipo di essa, attraverso una banca o un ufficio postale con uno dei seguenti mezzi:

a) bonifico sul conto identificato dal codice IBAN indicato dal lavoratore;
b) strumenti di pagamento elettronico;
c) pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento;
d) emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato. L'impedimento s'intende comprovato quando il delegato a ricevere il pagamento è il coniuge, il convivente o un familiare, in linea retta o collaterale, del lavoratore, purché di età non inferiore a sedici anni.



911. I datori di lavoro o committenti non possono corrispondere la retribuzione per mezzo di denaro contante direttamente al lavoratore, qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato.

912. Per rapporto di lavoro, ai fini del comma 910, si intende ogni rapporto di lavoro subordinato di cui all'articolo 2094 del codice civile, indipendentemente dalle modalità di svolgimento della prestazione e dalla durata del rapporto, nonché ogni rapporto di lavoro originato da contratti di collaborazione coordinata e continuativa e dai contratti di lavoro instaurati in qualsiasi forma dalle cooperative con i propri soci ai sensi della legge 3 aprile 2001, n. 142. La firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituisce prova dell'avvenuto pagamento della retribuzione.

913. Le disposizioni di cui ai commi 910 e 911 non si applicano ai rapporti di lavoro instaurati con le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, a quelli di cui alla legge 2 aprile 1958, n. 339, né a quelli comunque rientranti nell'ambito di applicazione dei contratti collettivi nazionali per gli addetti a servizi familiari e domestici, stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Al datore di lavoro o committente che viola l'obbligo di cui al comma 910 si applica la sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da 1.000 euro a 5.000 euro.

914. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge il Governo stipula con le associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative a livello nazionale, con l'Associazione bancaria italiana e con la società Poste italiane Spa una convenzione con la quale sono individuati gli strumenti di comunicazione idonei a promuovere la conoscenza e la corretta attuazione delle disposizioni di cui ai commi 910, 911 e 912. Gli obblighi di cui ai commi 910, 911 e 912 e le relative sanzioni si applicano a decorrere dal centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della presente legge. La Presidenza del Consiglio dei ministri, in collaborazione con il Ministero dell'economia e delle finanze, predispone campagne informative, avvalendosi dei principali mezzi di comunicazione, nonché degli organi di comunicazione e di stampa e di soggetti privati. Ai fini dell'attuazione delle disposizioni di cui al presente comma, è autorizzata la spesa di 100.000 euro per l'anno 2018.

martedì 22 giugno 2021

Quali obblighi impone l'art. 2087 cc?

Cass. 18/06/2021, n. 17576


La responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro, in concreto, svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori. Ne discende che nel caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa pericolosa, la responsabilità del datore di lavoro-imprenditore ai sensi dell'art. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non può essere, tuttavia, circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psico-fisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto, della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio.

lunedì 21 giugno 2021

 Quali sono le conseguenze del licenziamento intimato prima della scadenza del termine?



cass. 17/06/2021, n. 17423

In caso di non giustificato recesso ante tempus del datore di lavoro da rapporto di lavoro a tempo determinato, il risarcimento del danno dovuto al lavoratore va commisurato all'entità dei compensi retributivi che lo stesso avrebbe maturato dalla data del recesso fino alla prevista scadenza del contratto.

venerdì 18 giugno 2021

La fruizione dei permessi della legge 104 del 1992 per finalità diverse dall'assistenza ha rilevanza disciplinare? 


Cass. 16-06-2021, n. 17102

Alla luce del consolidato principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in forza del quale l'assenza dal lavoro per usufruire di permesso ai sensi della L. n. 104 del 1992 deve porsi in relazione causale diretta con lo scopo di assistenza al disabile, con la conseguenza che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari (Cass. n. 17968 del 13/09/2016);




NB

Oggetto del giudizio:

i giudici del merito rilevavano che il L., dipendente di Poste Italiane s.p.a., aveva ricevuto comunicazione del 20/9/2017 con cui la società, a seguito di accertamento investigativo, aveva evidenziato che il lavoratore, il quale per le giornate del 24 e 25 agosto 2017 aveva usufruito di giorni di permesso ai sensi della L. n. 104 del 1992, per assistere la madre, si era intrattenuto in attività incompatibili con l'assistenza, essendosi recato prima presso il mercato, poi al supermercato e infine al mare con la famiglia, piuttosto che presso l'abitazione della madre, convivente con il marito; che il cambio di residenza della madre presso l'abitazione del L. non era mai stato comunicato a Poste Italiane s.p.a., se non dopo le contestazioni disciplinari, con conseguente impossibilità per il datore di lavoro di svolgere i controlli; ritenevano, quindi, corretta l'applicazione della sanzione espulsiva prevista dall'art. 54 CCNL in caso di violazioni dolosamente gravi, tali da non consentire la prosecuzione del rapporto e da reputare lecito l'utilizzo di attività investigativa in relazione alla verifica della sussistenza di atti illeciti compiuti dai dipendenti durante la fruizione di un permesso;

giovedì 17 giugno 2021

Come va valutata la volontà delle parti ai fini della subordinazione?




Cass. 14/06/2021, n. 16720

Ai fini della distinzione fra lavoro subordinato e lavoro autonomo, la originaria volontà delle parti, intesa come programma negoziale pattuito, rileva fino a quando non sia comprovato uno scostamento consensuale da tale programma nella concreta fase di attuazione del rapporto, manifestandosi in tal caso per fatti concludenti una volontà successiva che prevale sulla precedente; ciò dicasi anche con specifico riguardo al contratto a progetto, dovendo attribuirsi maggiore rilevanza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto, da cui è ricavabile l'effettiva volontà delle parti (iniziale o sopravvenuta), rispetto al "nomen iuris" adottato dalle parti.

mercoledì 16 giugno 2021

 Entro quali limiti possono essere impugnati i verbali di conciliazione?



cass. 09/06/2021, n. 16154

In materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura.

martedì 15 giugno 2021

 Il lavoratore può agire per tutelare la propria posizione pensionistica  prima del maturare del diritto alle prestazioni previdenziali?

Cass. 08/06/2021, n. 15947


Sussiste l'interesse del lavoratore ad agire per la tutela della propria posizione contributiva ancor prima del maturare del diritto alle prestazioni previdenziali, mediante la proposizione di una domanda di condanna generica volta ad accertare la eventualità dell'omissione, salva poi la facoltà di esperire, al momento del prodursi dell'evento dannoso, coincidente con il raggiungimento dell'età pensionabile, l'azione risarcitoria ex art. 2116, comma 2, c.c., ovvero quella in forma specifica ex art. 13 della L. 12 agosto 1962, n. 1338.

giovedì 10 giugno 2021

 Quando si ha cessione di ramo d'azienda?



Cass. 16/03/2021, n. 7364

Ai fini del trasferimento di ramo d'azienda previsto dall'art. 2112 c.c., rappresenta elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere - autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario - il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione.

Quando è derogabile il principio della graduatoria di data anteriore?


Cass. 07/06/2021, n. 15790

Il criterio della prevalenza della graduatoria di data anteriore, in quanto tale destinata a scadere per prima, può essere derogato solo in presenza di ragioni di interesse pubblico che giustifichino la deroga, ragioni che non possono esaurirsi nella contestuale presenza di più graduatorie, di per sé non sufficiente a comprimere il diritto allo "scorrimento prioritario" degli idonei utilmente classificatisi nella graduatoria più antica. Tale criterio si fonda sulla necessità di individuare una regola generale che assicuri imparzialità, trasparenza ed efficienza all'agire delle amministrazioni pubbliche: detta regola è stata individuata nel tendenziale "favor" per la graduatoria meno recente, motivato dalla necessità di salvaguardare sia l'aspettativa di nomina di coloro che per primi l'hanno acquisita, sia il buon andamento della P.A., giacché il ricorso alla graduatoria più risalente, destinata a perdere efficacia prima delle altre, comporta una maggiore durata complessiva della riserva di persone da nominare, costituita dall'insieme delle graduatorie in corso di validità.

mercoledì 9 giugno 2021

 Quando sorge il diritto al buono pasto nel pubblico impiego?

Cass 04/06/2021, n. 15629


In tema di pubblico impiego privatizzato, l'attribuzione del buono pasto, in quanto agevolazione di carattere assistenziale che, nell'ambito dell'organizzazione dell'ambiente di lavoro è diretta a conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del dipendente, al fine di garantirne il benessere fisico necessario per proseguire l'attività lavorativa quando l'orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente previsto per la fruizione del beneficio, è condizionata all'effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, solo che il lavoratore, osservando un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore, abbia diritto ad un intervallo non lavorato.

martedì 8 giugno 2021

I precedenti disciplinari del la lavoratore quando vanno indicati nella sanzione? 


Tribunale Taranto Sez. lavoro, 01/06/2021

La preventiva contestazione dell'addebito al lavoratore incolpato deve riguardare, a pena di nullità della sanzione o del licenziamento disciplinare, anche la recidiva, o comunque i precedenti disciplinari che la integrano, ove questa rappresenti elemento costitutivo della mancanza addebitata e non già mero criterio di determinazione della sanzione ad essa proporzionata, rilevando, ai fini della necessaria precisione della contestazione, il riferimento ai precedenti disciplinari già comunicati per iscritto al lavoratore.

lunedì 7 giugno 2021

 Nel pubblico impiego la mancata comunicazione all'interessato degli atti da parte del responsabile della struttura amministrativa ex art. 55 bis comma Dlgs 165 del  2001 che effetti ha sul procedimento disciplinare?


Cass. 03/06/2021, n. 15464

In tema di illeciti disciplinari di maggiore gravità imputabili al pubblico impiegato, la comunicazione all'interessato, della trasmissione degli atti da parte del responsabile della struttura amministrativa, nella quale l'impiegato presta servizio, all'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, prevista dall'art. 55-bis, comma 3, del D.Lgs. n. 165 del 2001, ha una funzione meramente informativa, sicché gli effetti dell'eventuale omissione di tale adempimento non si riverberano sul procedimento disciplinare e sul suo svolgimento, che prosegue regolarmente.

sabato 5 giugno 2021

 Come valutare l'incidenza della condotta del lavoratore nella causazione dell'infortunio?



Cass. 01/06/2021, n. 15238

La condotta incauta del lavoratore non comporta un concorso idoneo a ridurre la misura del risarcimento ogni qualvolta la violazione di un obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro sia munita di incidenza esclusiva rispetto alla determinazione dell'evento dannoso; in particolare, tanto avviene quando l'infortunio si sia realizzato per l'osservanza di specifici ordini o disposizioni datoriali che impongano colpevolmente al lavoratore di affrontare il rischio, quando l'infortunio scaturisca dall'integrale impostazione della lavorazione su disposizioni illegali e gravemente contrarie ad ogni regola di prudenza o, infine, quando vi sia inadempimento datoriale rispetto all'adozione di cautele, tipiche o atipiche, concretamente individuabili, nonché esigibili ex ante ed idonee ad impedire, il verificarsi dell'evento nonostante l'imprudenza del lavoratore, che in questa ipotesi degrada a mera occasione dell'infortunio ed è, pertanto, giuridicamente irrilevante.

venerdì 4 giugno 2021

 Cosa determina l'assenza di determinazione dei criteri di scelta nei licenziamenti collettivi


Cass. 24/05/2021, n. 14180

In tema di licenziamenti collettivi, la totale mancanza di indicazione dei criteri di scelta e delle modalità di applicazione di essi non può che risolversi nella illegittimità dei licenziamenti, confluendo in tal caso la violazione formale in una sostanziale, trasformando in sostanza il licenziamento collettivo, soggetto alla rigorosa procedura di controllo prevista dalla legge, in un licenziamento "ad nutum", ove solo resta irrilevante la ragione del recesso, non potendo soggetti destinatari della comunicazione, e neppure il giudice, minimamente valutare la correttezza e legittimità del recesso, anche sotto il profilo discriminatorio, perché la selezione dei lavoratori da licenziare potrebbe essere arbitrariamente effettuata senza il rispetto dei criteri di oggettività e trasparenza.

giovedì 3 giugno 2021

 La cartella di pagamento non opposta  in quanti anni si prescrive?

Cass. 26/05/2021, n. 14690


La scadenza del termine, pacificamente perentorio, per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui al D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 5, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche la c.d. "conversione" del termine di prescrizione breve in quello ordinario (decennale), ai sensi dell'art. 2953 c.c. Si è ritenuto che tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell'attitudine ad acquistare efficacia di giudicato.

mercoledì 2 giugno 2021

 La domanda amministrativa è condizione di procedibilità del giudizio previdenziale?

Cass. 26/05/2021, n. 14696


La mancanza della preventiva presentazione della domanda amministrativa, nei giudizi di previdenza e assistenza, è sempre rilevabile d'ufficio, a prescindere dal comportamento processuale tenuto dall'ente previdenziale convenuto, trattandosi di condizione di proponibilità della domanda giudiziaria e non già di elemento costitutivo della pretesa azionata in giudizio. La mancanza del previo esperimento del procedimento amministrativo determina l'improponibilità della domanda giudiziaria, salvo l'effetto preclusivo di cui all'art. 324 c.p.c.