sabato 31 marzo 2018

Quali sono i carichi familiari da prendere in considerazione  del diritto di precedenza dei lavoratori a tempo parziale?

Cass. civ. Sez. lavoro, 12/01/2016, n. 275

In tema di diritto di precedenza per i lavoratori a tempo parziale, il criterio preferenziale dei "maggiori carichi familiari" di cui all'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 61 del 2000, si riferisce non solo al numero di familiari a carico, ma include anche le condizioni economiche e patrimoniali complessive del nucleo familiare, attesa la finalità di tutela della situazione patrimoniale deteriore del dipendente "part time".

mercoledì 28 marzo 2018

Il datore di lavoro deve sempre intervenire in caso di condotte illegittime tra dipendenti?

Cass. 22/03/2018, n. 7097

Nel rapporto di impiego pubblico contrattualizzato, qualora un dipendente ponga in essere sul luogo di lavoro, una condotta lesiva nei confronti di un altro dipendente, il datore di lavoro, rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo e chiamato a rispondere ai sensi dell'art. 2087 c.c. nei confronti del lavoratore leso, ha diritto a rivalersi a titolo contrattuale nei confronti del dipendente, per la percentuale attribuibile alla responsabilità del medesimo. Ciò in quanto il dipendente, nel porre in essere la suddetta condotta lesiva, è venuto meno ai doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 c.c. e ai principi generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. che devono conformare non solo lo svolgimento dell'attività lavorativa ma anche i rapporti tra i dipendenti pubblici sul luogo di lavoro.

martedì 27 marzo 2018


Lo sciopero può essere indetto spontaneamente dai lavoratori?

Pret. Milano, 27/05/1986

Poiché lo sciopero è un diritto che compete a ciascun lavoratore, salva la necessità di esercitarlo collettivamente, non è necessario che questo sia promosso da un organismo sindacale; conseguentemente, un'astensione collettiva dal lavoro non può essere qualificata dal datore di lavoro come abbandono del posto di lavoro, e come tale sanzionata, per il solo fatto di essere stata organizzata spontaneamente da una pluralità di lavoratori non costituitisi in gruppo sindacale.

lunedì 26 marzo 2018

La violazione delle procedure stabilite dalla legge 223 del 1991 nei contratti a tutele crescenti cosa determina?


In base all'art. 10 del dlgs 23 del 2015

1. In caso di licenziamento collettivo ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, intimato senza l'osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all'articolo 2 del presente decreto. In caso di violazione delle procedure richiamate all'articolo 4, comma 12, o dei criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991, si applica il regime di cui all'articolo 3, comma 1.

venerdì 23 marzo 2018

Quali criteri bisogna valutare in caso s'impugnazione del licenziamento collettivo?

Cass. civ. Sez. lavoro, 14/11/2016, n. 23149

In tema di licenziamento collettivo, anche ove sia impugnato perché ritorsivo, i presupposti del legittimo esercizio del potere di recesso, il cui onere probatorio incombe sul datore di lavoro, riguardano la sussistenza delle ragioni oggettive della procedura, i criteri di scelta e il nesso di causalità, consistente nell'esatta individuazione dei lavoratori licenziati sulla base dei criteri legali o concordati. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, pur essendovi la prova dell'esubero del personale, aveva ritenuto nullo, perché ritorsivo, il licenziamento collettivo di lavoratori individuati in quanto vincitori di un precedente contenzioso). (Rigetta, App. Roma, 15/04/2015)

giovedì 22 marzo 2018

La possibilità di accedere al prepensionamento può essere un criterio di scelta da concordare con il sindacato nei licenziamenti collettivi?


Cass. civ. Sez. lavoro, 30/09/2015, n. 19457

"In tema di licenziamenti collettivi diretti a ridimensionare l'organico al fine di diminuire il costo del lavoro, il criterio di scelta unico della possibilità di accedere al prepensionamento, adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali, è applicabile a tutti i dipendenti dell'impresa a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati, senza che rilevino i settori aziendali di manifestazione della crisi cui il datore di lavoro ha fatto riferimento nella comunicazione di avvio della procedura, valorizzando tale soluzione, in linea con la volontà del legislatore sovranazionale, espressa nelle direttive comunitarie recepite dalla l. n. 223 del 1991 e codificata nell'art. 27 della Carta di Nizza, il ruolo del sindacato nella ricerca di criteri che minimizzino il costo sociale della riorganizzazione produttiva, a vantaggio dei lavoratori che non godono neppure della minima protezione della prossimità al trattamento pensionistico". (Cassa e decide nel merito, App. Napoli, 26/01/2009)


mercoledì 21 marzo 2018


Come devono formulati i criteri nel licenziamento collettivo?

App. Genova Sez. lavoro, 25/01/2018

In materia di licenziamento collettivo per riduzione personale, ai fini della formazione della graduatoria dei lavoratori con metodo obbiettivo e univoco va esclusa la idoneità di accordi sindacali carenti della indicazione delle modalità in cui i vari criteri, pur razionali, concorrano tra loro, giacché ciò consente la esplicazione di una discrezionalità non controllabile del datore di lavoro, in aperta violazione del principio di trasparenza che rappresenta l'unica ed effettiva garanzia per il lavoratore nella procedura di licenziamento in parola.

martedì 20 marzo 2018

Quando il licenziamento collettivo può limitarsi ai soli lavoratori di un'unità produttiva o reparto?

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 14-03-2018, n. 6147
In linea con quanto osservato da questa Corte in materia (Cass. n. 7011/11, n. 9711/11, n. 2429/11, n. 6959/13, n. 6112/14 e Cass. n. 203/15 e Cass. n. 18190/2016)….. questa Corte ha osservato che in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale. Tuttavia il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perchè impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative, spettando - in ogni caso - ai lavoratori l'onere della deduzione e della prova della fungibilità nelle diverse mansioni.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 16-09-2016, n. 18190
Questa Corte ha in realtà più volte affermato che in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo a un'unità produttiva o a un settore dell'azienda, la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità, può essere limitata agli addetti dell'unità o del settore da ristrutturare, in quanto ciò non sia l'effetto dell'unilaterale determinazione del datore di lavoro, ma sia obiettivamente giustificato (come nella specie) dalle esigenze organizzative fondanti la riduzione di personale; i motivi di restrizione della platea dei lavoratori da comparare devono essere adeguatamente esposti nella comunicazione della L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 3, come avvenuto nella specie, onde consentire alle organizzazioni sindacali di verificare il nesso tra le ragioni che determinano l'esubero di personale e le unità lavorative che l'azienda intende concretamente espellere (Cass. n. 2429/12, Cass. n. 13705/12, Cass. n. 22655/12, Cass. n. 4678/15). Nella specie la sentenza impugnata ha accertato, come visto, che il personale in esubero era esclusivamente quello addetto al reparto produzione moquette per auto, sicchè anche la presente censura finisce per contestare inammissibilmente accertamenti di fatto congruamente compiuti dal giudice di merito.
Per completezza espositiva può aggiungersi che seppure è vero che secondo un recente e condiviso orientamento di questa Corte il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto se essi siano idonei - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti (Cass. n. 203/15, Cass. n. 13698/15), è parimenti vero che nella specie tale fungibilità non è emersa, che la prova di tale circostanza grava sui lavoratori, che, secondo la corte di merito, "nulla hanno dedotto in ordine alla fungibilità delle mansioni proprie, rispetto a quelle svolte dagli altri operai ella società" (pag. 5 sentenza impugnata).

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-01-2015, n. 203
E' oramai acquisito alla giurisprudenza di questa Corte il principio secondo il quale in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale. Tuttavia poichè ai fini della corretta applicazione del criterio delle esigenze tecnico- produttive dell'azienda, previsto dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, per l'individuazione dei lavoratori da licenziare, la comparazione delle diverse posizioni dei lavoratori deve essere effettuata nel rispetto del principio di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto se detti lavoratori sono idonei - per pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perchè impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative (V. sostanzialmente in tal senso per tutte Cass. 13783/2006, 22824/2009, 22825/2009, 9711/2011).
Nella specie la Corte del merito non si è attenuta a siffatto principio poichè, pur rilevando che i lavoratori di cui trattasi avevano svolto anche se solo saltuariamente mansioni di autisti, ha considerato il loro licenziamento legittimo solo sulla base dell'esclusivo rilievo della loro adibizione al reparto manutenzione (soppresso) senza valutare l'attività svolta presso il reparto trasporti al fine della necessità della comparazione della loro posizione con quella dei di colleghi addetti ad altri reparti.
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 03-05-2011, n. 9711
3. Con il terzo mezzo si denunzia violazione della L. n. 223 del 1991, art. 5 sulla ritenuta illegittimità del licenziamento, che invece sarebbe legittimo in quanto aveva investito tutti gli addetti al ramo d'azienda Ansaldo che si era deliberato di chiudere definitivamente. La scelta dei lavoratori da mettere in mobilità era dunque avvenuta attribuendo preminente rilievo alle esigenze tecnico organizzative e produttive e quindi sarebbe legittima la limitazione del campo di applicazione della messa in mobilità al solo reparto o stabilimento interessato. La censura è infondata.
Questa Corte si è già approfonditamente espressa in materia con la sentenza n. 9991 del 2009, con cui si è affermato "La giurisprudenza della Corte ha precisato più volte che, in caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità, non deve necessariamente interessare l'intera azienda, ma può avvenire, secondo una legittima scelta dell'imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico - produttive, nell'ambito della singola unità produttiva, ovvero del settore interessato alla ristrutturazione, in quanto ciò non è il frutto di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma è obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale.
Infatti, la prima parte dell'art. 5, dispone che la "l'individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico produttive ed organizzative del complesso aziendale".
Dunque, in via preliminare, la delimitazione del personale "a rischio" si opera in relazione a quelle esigenze tecnico produttive ed organizzative che sono state enunciate dal datore con la comunicazione di cui all'art. 4, comma 3; è ovvio che, essendo la riduzione di personale conseguente alla scelta del datore sulla dimensione quantitativamente e qualitativamente ottimale dell'impresa per addivenire al suo risanamento, dalla medesima scelta non si può prescindere quando si voglia determinare la platea del personale da selezionare.
Ma va attribuito il debito rilievo anche alla previsione testuale della norma secondo cui le medesime esigenze tecnico produttive devono essere riferite al "complesso aziendale"; ciò in forza dell'esigenza di ampliare al massimo l'area in cui operare la scelta, onde approntare idonee garanzie contro il pericolo di discriminazioni a danno del singolo lavoratore, in cui tanto più facilmente si può incorrere quanto più si restringe l'ambito della selezione. D'altra parte, sarebbe incongruo che questo ambito venisse già predeterminato dalla legge, perchè ciò varrebbe indebitamente a presupporre una assoluta e generalizzata incomunicabilità tra parti o settori dell'impresa.
Se tale è il contesto, si arguisce facilmente che non vi è spazio per una restrizione dell'ambito di applicazione dei criteri di scelta che sia frutto dell'iniziativa datoriale pura e semplice, perchè, come già detto, ciò finirebbe nella sostanza con l'alterare la corretta applicazione dei criteri stessi, che la L. n. 223 del 1991, art. 5, intende espressamente sottrarre al datore, imponendo che questa venga effettuata o sulla base dei criteri concordati con le associazioni sindacali, ovvero, in mancanza, secondo i criteri legali.
E dunque arbitraria e quindi illegittima ogni decisione del datore diretta a limitare l'ambito di selezione ad un singolo settore o ad un reparto, se ciò non sia strettamente giustificato dalle ragioni che hanno condotto alla scelta di riduzione del personale. La delimitazione dell'ambito di applicazione dei criteri dei lavoratori da porre in mobilità è dunque consentita solo quando dipenda dalle ragioni produttive ed organizzative, che si traggono dalle indicazioni contenute nella comunicazione di cui all'art. 4, comma 3, quando cioè gli esposti motivi dell'esubero, le ragioni per cui lo stesso non può essere assorbito, conducono coerentemente a limitare la platea dei lavoratori oggetto della scelta.
Per converso, non si può, invece, riconoscere, in tutti i casi, una necessaria corrispondenza tra il dato relativo alla "collocazione del personale" indicato dal datore nella comunicazione di cui all'art. 4, e la precostituzione dell'area di scelta. Il datore infatti segnala la collocazione del personale da espungere (reparto, settore produttivo ecc), ma ciò non comporta automaticamente che l'applicazione dei criteri di scelta coincida sempre con il medesimo ambito e che i lavoratori interessati siano sempre esclusi dal concorso con tutti gli altri, giacchè ogni delimitazione dell'area di scelta è soggetta alla verifica giudiziale sulla ricorrenza delle esigenze tecnico produttive ed organizzative che la giustificano. A mero titolo esemplificativo, si può rilevare che ove il datore, nella comunicazione di cui all'art. 4, indicasse che tutto il personale in esubero è collocato all'interno dì un unico reparto, essendo solo questo oggetto di soppressione o di ristrutturazione, non sarebbe giustificato limitare l'ambito di applicazione dei criteri di scelta a quegli stessi lavoratori nel caso fossero addetti a mansioni assolutamente identiche a quelle ordinariamente svolte anche in altri reparti, salva la dimostrazione di ulteriori ragioni tecnico produttive ed organizzative comportanti la limitazione della selezione. Ed ancora, quando la riduzione del personale fosse necessitata dall'esistenza di una crisi che induca alla riduzione, genericamente, dei costi, non vi sarebbe, quanto meno in via teorica, alcun motivo di limitare la scelta ad uno dei settori dell'impresa, e quindi la selezione andrebbe operata in relazione al complesso aziendale".
Con il che si può spiegare, nell'art. 5 citato, la duplicità - altrimenti scarsamente comprensibile - del richiamo alle "esigenze tecnico-produttive ed organizzative", perchè, nella prima parte, esse si r riferiscono all'ambito di selezione, mentre, nella seconda parte, le medesime esigenze concorrono poi nel momento successivo, con gli altri criteri dell'età e del carico di famiglia, all'individuazione del singolo lavoratore (salvo che non operino altri criteri concordati con i sindacati). Pertanto, la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale, ed è onere del datore provare il fatto che determina l'oggettiva limitazione di queste esigenze, e giustificare il più ristretto spazio nel quale la scelta è stata effettuata (Cass. 23 giugno 2006, n. 14612). Cosicchè, non può essere ritenuta legittima la scelta dì lavoratori solo perchè impiegati nel reparto lavorativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative (Cass. n. 26376/2008, cit; 12 maggio 2006, n. 11034; 15 giugno 2006, n. 13783).
3.1. Dall'applicazione dei principi sopra richiamati discende la conformità al diritto della decisione impugnata, la quale ha considerato che la comparazione dei lavoratori da avviare alla mobilità può ben essere effettuata avendo riguardo solo al singolo ramo interessato, ma ha aggiunto che ciò è consentito, però, solo dimostrando che tra detti lavoratori non risultino professionalità idonee ai settori mantenuti. Ha poi concluso che la S., svolgendo mansioni di segretaria addetta al coordinamento dei fornitori e all'organizzazione dell'archivio, ben poteva trovare utile collocazione nei settori mantenuti. La censura va quindi rigettata.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 28-10-2009, n. 22825
Secondo tale giurisprudenza, il doppio richiamo operato dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1 alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative ("L'individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico- produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti dai contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all'art. 4, comma 2 ovvero, in mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative"), assume il seguente significato: al primo di essi è attribuibile la funzione di individuare l'ambito aziendale antro il quale dovranno operare i criteri di scelta veri e propri, tra i quali, ove siano applicabili quelli legali, va considerato anche il criterio delle esigenze tecnico produttive e organizzative.
Sotto il primo profilo, "la riduzione di personale deve, in linea generale, investire l'intero complesso aziendale, potendo essere limitato a specifici rami aziendali soltanto se caratterizzati da autonomia e specificità delle professionalità utilizzate, infungibili rispetto alle altre" (cfr. al riguardo, Cass. 14 giugno 2007 n. 13876 e, in precedenza, Cass. sentt. nn. 7752/06, 9888/06, 11034/06 e 11886/06; ma, in senso parzialmente diverso, cfr. Cass. n. 26376/08 e 13381/08).
Il primo richiamo della norma di legge in esame è infatti significativamente riferito al "complesso aziendale" nella sua interezza; a ciò va aggiunto il riferimento al "personale abitualmente impiegato" aggiunto all'originario testo della L. n. 223, art. 4, comma 3, dal D.Lgs. n. 151 del 1997, art. 1 per cui i "profili professionali da prendere in considerazione sono anche quelli propri di tutti i dipendenti potenzialmente interessati (in negativo) alla mobilità, tra i quali potrà, all'esito della procedura, operarsi la scelta dei lavoratori da collocare in mobilità" (sono parole di questa Corte nella citata sentenza n. 13876/07).
Da ciò deriva il principio enunciato, il cui limite è rappresentato dalla presenza di specifiche professionalità o comunque situazioni oggettive che rendano impraticabile qualunque comparazione (Cass. sentt. nn. 7169/03 e 2188/01), la dimostrazione della cui ricorrenza costituisce onere probatorio del datore di lavoro (Cass. n. 1485/06).
Per quanto riguarda gli oneri di comunicazione, sia in sede di apertura che al momento della chiusura della procedura di mobilità di cui alla L. n. 223 del 1991, va ribadito che sulla sufficiente specificità di essi, secondo le coordinate indicate dall'art. 4, commi 3 e 9 della Legge, fonda la possibilità di controllo sindacale e individuale dell'operazione, altrimenti insindacabile in sede giudiziaria (cfr. per tutte, Cass. 23 maggio 2008 n. 13381 e Cass. 2 marzo 2009 n. 5034).
L'importanza di tali adempimenti nel sistema delineato dalla legge n. 223 del 1991 è poi confermata dalla previsione della sanzione della inefficacia dei licenziamenti, stabilita dall'art. 4 cit., comma 12 e dal successivo art. 5, comma 3 anche nel caso di comunicazione iniziale ex comma 3 o finale ex comma 9 incompleta o infedele (Cass. S.U. 13 giugno 2000 n. 419, cui si è adeguata la giurisprudenza successiva di questa Corte: cfr., ad es., Cass. n. 5034/09 cit.).
In particolare, per quanto riguarda i criteri di scelta del personale da licenziare, la comunicazione, ai sensi dell'art. 4, comma 9 della Legge, delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta legali o contrattuali che siano (Cass. n. 29831/08) deve essere specifica e dare pienamente conto dei criteri concretamente ed effettivamente seguiti.
Nel presente giudizio, la società ricorrente non nega che l'ambito della scelta sia stato ristretto al cantiere edile derivante dalla commessa Arin, spiegando che altri cantieri a (OMISSIS) e in (OMISSIS) erano stati già chiusi al momento dell'avvio della procedura di mobilità, ma da altresì atto che non tutte le unità produttive erano cessate, rimanendo in funzione quantomeno (ma alle pagg. 16 e 17 del ricorso sembra di capire che esistevano o comunque erano facilmente attivabili anche cantieri di "edilizia privata") quelle in cui operavano dipendenti inquadrati secondo il C.C.N.L. metalmeccanico, alle quali non era stata effettuata, da parte dell'organo governativo, la comunicazione relativa al diniego di nulla osta prefettizio.
Ma, come rilevato dalla sentenza impugnata, la ricorrente non ha spiegato nella comunicazione di chiusura della procedura nè spiega in giudizio, se non per assiomi, le ragioni oggettive per le quali tale chiusura dei cantieri abbia comportato la limitazione dell'ambito della scelta ai dipendenti degli stessi (tanto più necessario in quanto le mansioni generiche del personale licenziato potevano essere ritenute facilmente fungibili anche con quelle di settori diversi da quello edile).
Una tale limitazione potrebbe infatti derivare in concreto, sulla base dei principi desumibili alla giurisprudenza di questa Corte prima richiamata, anche dalla collocazione geografica di tali unità produttive rispetto ad altre (come ad es. ritenuto da Cass. n. 8474/05), che renda improponibile la mobilità tra esse e quelle rimaste integre e soprattutto potrebbe derivare dal tipo di specializzazioni, tra di loro non omogenee, applicato nelle une e non nelle altre o ancora da analoghe circostanze ostative di tipo oggettivo, ma mai dal fatto puro e semplice che la esigenza di riduzione sia originata dalla situazione verificatasi in una determinata unità e non in un'altra, ancorchè nelle diverse unità produttive vengano applicati diversi contratti collettivi (nel senso che ciò che rileva nella delimitazione della scelta non è la categoria di inquadramento - e l'assunto è riferibile anche al tipo di contratto collettivo applicato, ma unicamente il profilo professionale coinvolto nella mobilità, cfr. Cass. n. 10590/05 e 9888/06), come nel caso in esame viceversa motivato in giudizio dalla società, con ciò concretando una prima violazione dell'art. 5, comma 1 della Legge.
Inoltre, la ricorrente ha sostanzialmente affermato in giudizio di avere privilegiato, nella scelta, il personale dotato di una qualche specializzazione, in quanto meglio utilizzabile in futuro in altri cantieri dell'edilizia privata, limitando il licenziamento alla manovalanza generica.
In tal modo la società finisce per affermare, secondo quanto accertato dalla sentenza impugnata, di avere applicato un criterio attinente alle esigenze tecnico-produttive e organizzative mai comunicato nella sede propria rappresentata dall'adempimento di cui alla L. n. 223, art. 4, comma 9 nè ritenuto giustificabile alla luce dalla comunicazione iniziale di cui al comma 3 della Legge.
Una tale conclusione da parte della Corte (e che, con l'altra prima evidenziata, è alla base della dichiarazione di illegittimità del licenziamento) non viene specificatamente contestata, quantomeno in maniera intelligibile dalla ricorrente, che si limita ad affermare di avere effettuato in sede di apertura della procedura la comunicazione di cui all'art. 4, commi 2 e 3 della Legge, completa di tutti i dati ivi richiesti e a motivare nel senso che una tale limitazione della scelta era da ritenersi normale nelle condizioni date e sarebbe comunque normale in ogni caso di licenziamento collettivo (in quanto finalizzata alla salvezza delle risorse umane ritenute utili per la prosecuzione dell'attività).

Cass. civ. Sez. lavoro, (ud. 08-02-2006) 15-06-2006, n. 13783
Questa Corte ha più volte statuito che in materia di licenziamenti collettivi, ai fini della corretta applicazione del criterio delle esigenze tecnico-produttive dell'azienda, previsto dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, per l'individuazione dei lavoratori da licenziare, la comparazione delle diverse posizioni dei lavoratori deve essere effettuata nel rispetto del principio di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., inteso come regola di equilibrata conciliazione dei conflittuali interessi delle parti (cfr. tra le altre che di recente: Cass. 1 settembre 2004 n. 17556), nella specie, sulla base della suddetta regola, ha confermato la decisione del giudice d'appello che aveva dato rilievo alla disponibilità di alcuni dipendenti a prestare servizio anche in settori diversi da quelli di abituale adibizione e non in prossimità del luogo di residenza, tale da escludere per l'azienda i costi derivanti dalla corresponsione dell'indennità di trasferta e chilometrica). Ed ancora i giudici di legittimità hanno avuto occasione di precisare che, seppure nel licenziamento collettivo per riduzione del personale l'applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità può essere ristretta in ambito più licitato rispetto al "complesso aziendale", cui fa riferimento la L. n. 223 del 1991, art. 5, ciò tuttavia non può avvenire in base ad una determinazione unilaterale del datore di lavoro ma richiede che la predeterminazione del limitato campo di selezione(reparto, stabilimento ecc., e/o singole lavorazioni o settori produttivi) sia giustificato dalle esigenze tecnico-produttive ed organizzative che hanno dato luogo alle riduzione del personale (cfr. in tali sensi: Cass. 24 gennaio 2002 n. 809).
Corollario delle considerazioni sinora esposte è il principio che, nei casi in cui il datore di lavoro, che procede alla riduzione del personale ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 24, intenda sopprimere in applicazione del criterio tecnico-produttivo - cui fa riferimento l'art. 5 della citata legge - un reparto della sua impresa, non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto se detti lavoratori sono idonei - per acquisite esperienze e per pregresso e frequente svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda con politivi risultati - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti. Ed invero, in tali casi - per il criterio della correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., deputato a presiedere la soluzione in forma equilibrata di conflittuali interessi delle parti - la scelta dei lavoratori da porre in mobilità non può essere limitata ad un solo reparto, ma deve riguardare un ben più esteso numero di dipendenti.
E proprio tale principio ha osservato la decisione impugnata che, come già evidenziato, ha ritenuto non legittima la scelta dei lavoratori solo perchè addetti al reparto lavorativo soppresso, trascurando così di tenere conto che gli stessi avevano con frequenza ed in tempi non remoti ("per prassi aziendali"), sostituito colleghi addetti ad altri reparti con una indubbia e non contestata professionalità, come era attestato sia dal fatto che sovente si verificava tra i lavoratori dell'azienda un mutamento di mansioni ed un trasferimento nelle diverse strutture aziendali, sia dalla circostanza che dopo il suddetto licenziamento erano (stati assunti nuovi lavoratori chiamati a svolgere proprio le mansioni che i licenziati in precedenza avevano svolto.
 

lunedì 19 marzo 2018


Quali comunicazioni devo effettuare una volta effettuato un licenziamento collettivo?

In base al comma 9 dell'art. 4 della legge 223 del 1991:

Entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi, l'elenco dei lavoratori licenziati, con l'indicazione per ciascun soggetto del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell'età, del carico di famiglia, nonché con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1, deve essere comunicato per iscritto all'Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione competente, alla Commissione regionale per l'impiego e alle associazioni di categoria di cui al comma 2.

venerdì 16 marzo 2018


Quali sono le sanzioni previste in caso di violazione delle regole stabilite per il licenziamento collettivo?



In base al comma 3 dell'art. 5 della legge 223 del 1991

"Qualora il licenziamento sia intimato senza l'osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all'articolo 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni. In caso di violazione delle procedure richiamate all'articolo 4, comma 12, si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18. In caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al quarto comma del medesimo articolo 18. Ai fini dell'impugnazione del licenziamento si applicano le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni".

giovedì 15 marzo 2018

Nella fase di opposizione al decreto ex art. 28 legge 300 del 1970 è possibile formulare domande riconvenzionali?


Il tema di repressione della condotta antisindacale, qualora il pretore adito con ricorso ex art. 28, l. 20 maggio 1970, n. 300 riconosca, nella fase sommaria dello speciale procedimento ivi delineato, l'illegittimità di alcuni soltanto, fra i molteplici comportamenti denunciati dall'associazione ricorrente, lo svolgimento del successivo giudizio di opposizione al relativo decreto, introdotto a istanza del datore di lavoro, legittima l'associazione medesima, anche quando non abbia proposto, nel termine di legge, autonoma opposizione, a domandare, nel detto giudizio, l'accertamento della natura antisindacale di quegli stessi comportamenti per i quali tale natura è stata negata all'esito della fase sommaria del procedimento (nella specie, la corte suprema ha enunciato l'esposto principio sia con il considerare il giudizio di opposizione come un ordinario giudizio di cognizione di primo grado, configurandosi, in tal caso, come riconvenzionale la domanda del sindacato; sia con il ritenere il giudizio di opposizione come un giudizio di gravame avverso il decreto conclusivo della fase sommaria, configurandosi la domanda stessa come impugnazione incidentale, che può essere ai sensi dell'art. 334 c. p. c., tardivamente proposta anche se attinente a capi autonomi rispetto a quelli investiti dall'impugnazione principale). Cass. civ. Sez. lavoro, 05/11/1991, n. 11769 

Nel giudizio di opposizione a decreto ex art. 28 st. lav. è ammissibile la riproposizione, tramite domanda riconvenzionale, di domande già azionate e respinte nella fase sommaria e non riproposte autonomamente mediante opposizione a decreto. Pret. Milano, 28/01/1997 

Nel giudizio di cognizione piena introdotto dall'opposizione, trovano applicazione, a sensi del 3° comma, art. 28, l. n. 300 del 1970, le disposizioni degli art. 413 ss. c. p. c.; ne consegue che l'associazione sindacale ivi convenuta, e che non abbia, a sua volta, presentato opposizione avverso il decreto pretorile, entro il perentorio termine stabilito, ben può riproporre, nella forma della riconvenzionale, e in forza degli art. 416 e 418 c. p. c., i capi di domanda non accolti dal pretore nella fase di cognizione sommaria. Trib. Roma, 10/06/1988 


mercoledì 14 marzo 2018

Quando opera la tutela assicurativa per malattia professionale?

Cass. 05/03/2018, n. 5066

In tema di tutela assicurativa del lavoratore per malattia professionale, sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l'organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni, sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica. Pertanto, ogni forma di tecnopatia che possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta assicurata all'INAIL, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi tabellati, dovendo in tale caso il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causalità tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata.

martedì 13 marzo 2018

Quale è la causa del contratto di apprendistato?

Cass. 07/03/2018, n. 5375

In tema di contratto di lavoro, il contratto di apprendistato, che è contratto a causa mista con finalità formative, non può essere stipulato al solo scopo di far svolgere durante la durata del contratto, le mansioni tipiche del profilo professionale, ma deve prevedere al contempo un'attività di insegnamento da parte del datore di lavoro, la quale costituisce elemento essenziale indefettibile del contratto, entrando a far parte della causa negoziale.

lunedì 12 marzo 2018



In quali sanzioni incorre il sostituto d'imposta?


In base all'art. 2. DLGS 1997 n. 471


1. Nel caso di omessa presentazione della dichiarazione del sostituto d'imposta, si applica la sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell'ammontare delle ritenute non versate, con un minimo di euro 250. Se la dichiarazione omessa è presentata dal sostituto entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo e, comunque, prima dell'inizio di qualunque attività amministrativa di accertamento di cui abbia avuto formale conoscenza, si applica la sanzione amministrativa dal sessanta al centoventi per cento dell'ammontare delle ritenute non versate, con un minimo di euro 200. 

2. Se l'ammontare dei compensi, interessi ed altre somme dichiarati è inferiore a quello accertato, si applica la sanzione amministrativa dal novanta al centoottanta per cento dell'importo delle ritenute non versate riferibili alla differenza, con un minimo di euro 250. 

2-bis. La sanzione di cui al comma 2 è aumentata della metà quando la violazione è realizzata mediante l'utilizzo di documentazione falsa, mediante artifici o raggiri, condotte simulatorie o fraudolente. 

2-ter. Fuori dai casi di cui al comma 2-bis, la sanzione di cui al comma 2 è ridotta di un terzo quando l'ammontare delle ritenute non versate riferibili alla differenza tra l'ammontare dei compensi, interessi ed altre somme accertati e dichiarati è inferiore al tre per cento delle ritenute riferibili all'ammontare dei compensi, interessi ed altre somme dichiarati e comunque inferiore a euro 30.000. 

3. Se le ritenute relative ai compensi, interessi ed altre somme, benché non dichiarate, sono state versate interamente, si applica la sanzione amministrativa da euro 250 a euro 2.000. Se la dichiarazione omessa è stata presentata entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, si applica la sanzione da euro 150 a euro 500 e la sanzione del comma 4 è ridotta del cinquanta per cento. 

4. In aggiunta alle sanzioni previste nei commi 1, 2 e 3 si applica la sanzione amministrativa di euro 50 per ogni percepiente non indicato nella dichiarazione presentata o che avrebbe dovuto essere presentata. 

4-bis. Per ritenute non versate si intende la differenza tra l'ammontare delle maggiori ritenute accertate e quelle liquidabili in base alle dichiarazioni ai sensi degli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600. 

4-ter. In caso di rettifica del valore normale dei prezzi di trasferimento praticati nell'ambito delle operazioni di cui all'articolo 110, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, da cui derivi la non corretta applicazione delle aliquote convenzionali sul valore delle royalties e degli interessi attivi che eccede il valore normale previste per l'esercizio della ritenuta di cui all'articolo 25, quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, la sanzione di cui al comma 2 non si applica qualora, nel corso dell'accesso, ispezione o verifica o di altra attività istruttoria, il contribuente consegni all'Amministrazione finanziaria la documentazione indicata in apposito provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle entrate idonea a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati. Il contribuente che detiene la documentazione prevista dal provvedimento di cui al periodo precedente deve darne apposita comunicazione all'Amministrazione finanziaria secondo le modalità e i termini ivi indicati; in assenza di detta comunicazione si rende applicabile la sanzione di cui al comma 2.


venerdì 9 marzo 2018

Come è regolamentato il sostituto d'imposta?

Art. 23 della legge 1970 n. 600 

1. Gli enti e le società indicati nell'articolo 87, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, le società e associazioni indicate nell'articolo 5 del predetto testo unico e le persone fisiche che esercitano imprese commerciali, ai sensi dell'articolo 51 del citato testo unico, o imprese agricole, le persone fisiche che esercitano arti e professioni, il curatore fallimentare, il commissario liquidatore nonché il condominio quale sostituto d'imposta, i quali corrispondono somme e valori di cui all'articolo 48 dello stesso testo unico, devono operare all'atto del pagamento una ritenuta a titolo di acconto dell'imposta sul reddito delle persone fisiche dovuta dai percipienti, con obbligo di rivalsa . Nel caso in cui la ritenuta da operare sui predetti valori non trovi capienza, in tutto o in parte, sui contestuali pagamenti in denaro, il sostituito è tenuto a versare al sostituto l'importo corrispondente all'ammontare della ritenuta. 

1-bis I soggetti che adempiono agli obblighi contributivi sui redditi di lavoro dipendente prestato all'estero di cui all'articolo 48, concernente determinazione del reddito di lavoro dipendente, comma 8-bis, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono in ogni caso operare le relative ritenute. 

2. La ritenuta da operare è determinata: 

a) sulla parte imponibile delle somme e dei valori, di cui all'articolo 48 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, esclusi quelli indicati alle successive lettere b) e c), corrisposti in ciascun periodo di paga, con le aliquote dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, ragguagliando al periodo di paga i corrispondenti scaglioni annui di reddito ed effettuando le detrazioni previste negli articoli 12 e 13 del citato testo unico, rapportate al periodo stesso. Le detrazioni di cui all'articolo 12 del citato testo unico sono riconosciute se il percipiente dichiara di avervi diritto, indica le condizioni di spettanza, il codice fiscale dei soggetti per i quali si usufruisce delle detrazioni e si impegna a comunicare tempestivamente le eventuali variazioni. La dichiarazione ha effetto anche per i periodi di imposta successivi. L'omissione della comunicazione relativa alle variazioni comporta l'applicazione delle sanzioni previste dall' articolo 11 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, e successive modificazioni; 

b) sulle mensilità aggiuntive e sui compensi della stessa natura, con le aliquote dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, ragguagliando a mese i corrispondenti scaglioni annui di reddito; 

c) sugli emolumenti arretrati relativi ad anni precedenti di cui all'articolo 16, comma 1, lettera b), del citato testo unico, con i criteri di cui all'articolo 18, dello stesso testo unico, intendendo per reddito complessivo netto l'ammontare globale dei redditi di lavoro dipendente corrisposti dal sostituto al sostituito nel biennio precedente, effettuando le detrazioni previste negli articoli 12 e 13 del medesimo testo unico; 

d) sulla parte imponibile del trattamento di fine rapporto e delle indennità equipollenti e delle altre indennità e somme di cui all'articolo 16, comma 1, lettera a), del citato testo unico con i criteri di cui all'articolo 17 dello stesso testo unico; 

[d-bis) sulla parte imponibile delle prestazioni di cui all'articolo 16, comma 1, lettera a-bis), del citato testo unico, con i criteri di cui all'articolo 17–bis dello stesso testo unico; ] 

e) sulla parte imponibile delle somme e dei valori di cui all'articolo 48, del citato testo unico, non compresi nell'articolo 16, comma 1, lettera a), dello stesso testo unico, corrisposti agli eredi del lavoratore dipendente, con l'aliquota stabilita per il primo scaglione di reddito. 

3. I soggetti indicati nel comma 1 devono effettuare, entro il 28 febbraio dell'anno successivo e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, alla data di cessazione, il conguaglio tra le ritenute operate sulle somme e i valori di cui alle lettere a) e b) del comma 2, e l'imposta dovuta sull'ammontare complessivo degli emolumenti stessi, tenendo conto delle detrazioni eventualmente spettanti a norma degli articoli 12 e 13 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, e delle detrazioni eventualmente spettanti a norma dell'articolo 15 dello stesso testo unico, e successive modificazioni, per oneri a fronte dei quali il datore di lavoro ha effettuato trattenute, nonché, limitatamente agli oneri di cui al comma 1, lettere c) e f), dello stesso articolo, per erogazioni in conformità a contratti collettivi o ad accordi e regolamenti aziendali. In caso di incapienza delle retribuzioni a subire il prelievo delle imposte dovute in sede di conguaglio di fine anno entro il 28 febbraio dell'anno successivo, il sostituito può dichiarare per iscritto al sostituto di volergli versare l'importo corrispondente alle ritenute ancora dovute, ovvero, di autorizzarlo a effettuare il prelievo sulle retribuzioni dei periodi di paga successivi al secondo dello stesso periodo di imposta. Sugli importi di cui è differito il pagamento si applica l'interesse in ragione dello 0,50 per cento mensile, che è trattenuto e versato nei termini e con le modalità previste per le somme cui si riferisce. L'importo che al termine del periodo d'imposta non è stato trattenuto per cessazione del rapporto di lavoro o per incapienza delle retribuzioni deve essere comunicato all'interessato che deve provvedere al versamento entro il 15 gennaio dell'anno successivo. Se alla formazione del reddito di lavoro dipendente concorrono somme o valori prodotti all'estero le imposte ivi pagate a titolo definitivo sono ammesse in detrazione fino a concorrenza dell'imposta relativa ai predetti redditi prodotti all'estero. La disposizione del periodo precedente si applica anche nell'ipotesi in cui le somme o i valori prodotti all'estero abbiano concorso a formare il reddito di lavoro dipendente in periodi d'imposta precedenti. Se concorrono redditi prodotti in più Stati esteri la detrazione si applica separatamente per ciascuno Stato. 

4. Ai fini del compimento delle operazioni di conguaglio di fine anno il sostituito può chiedere al sostituto di tenere conto anche dei redditi di lavoro dipendente, o assimilati a quelli di lavoro dipendente, percepiti nel corso di precedenti rapporti intrattenuti. A tal fine il sostituito deve consegnare al sostituto d'imposta, entro il 12 del mese di gennaio del periodo d'imposta successivo a quello in cui sono stati percepiti, la certificazione unica concernente i redditi di lavoro dipendente, o assimilati a quelli di lavoro dipendente, erogati da altri soggetti, compresi quelli erogati da soggetti non obbligati ad effettuare le ritenute . La presente disposizione non si applica ai soggetti che corrispondono trattamenti pensionistici. 

[5. Le disposizioni dei precedenti commi si applicano anche alle persone fisiche che esercitano arti e professioni, ai sensi dell'articolo 49, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, quando corrispondono somme e valori di cui all'articolo 48, dello stesso testo unico, deducibili ai fini della determinazione del loro reddito di lavoro autonomo.]




giovedì 8 marzo 2018



A quali si aziende si applicano le norme sul licenziamento collettivo?


Art. 24 l. 223 del 1991

1. Le disposizioni di cui all'articolo 4, commi da 2 a 12 e 15-bis, e all'articolo 5, commi da 1 a 5, si applicano alle imprese che occupino più di quindici dipendenti, compresi i dirigenti, e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell'arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia. Tali disposizioni si applicano per tutti i licenziamenti che, nello stesso arco di tempo e nello stesso ambito, siano comunque riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione

mercoledì 7 marzo 2018

Quali tempi non si computano nell'orario di lavoro?


In base all'art. 5 RD 1923 n. 1955

5. Non si considerano come lavoro effettivo:

1° i riposi intermedi che siano presi sia all'interno che all'esterno dell'azienda;

2° il tempo impiegato per recarsi al posto di lavoro.

Nelle miniere o cave la durata del lavoro si computa dall'entrata all'uscita dal pozzo;

3° Le soste di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore, comprese tra l'inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesta alcuna prestazione all'operaio o all'impiegato. Tuttavia saranno considerate nel computo del lavoro effettivo quelle soste, anche se di durata superiore ai 15 minuti, che sono concesse all'operaio nei lavori molto faticosi allo scopo di rimetterlo in condizioni fisiche di riprendere il lavoro.

I riposi normali, perché possano essere detratti dal computo del lavoro effettivo, debbono essere prestabiliti ad ore fisse ed indicati nell'orario di cui all'art. 12.

È ammesso il ricupero dei periodi di sosta dovuti a cause impreviste indipendenti dalla volontà dell'operaio e del datore di lavoro e che derivano da causa di forza maggiore e dalle interruzioni dell'orario normale concordate fra i datori di lavoro e i loro dipendenti, purché i conseguenti prolungamenti d'orario non eccedano il limite massimo di un'ora al giorno e le norme per tali prolungamenti risultino dai patti di lavoro.

martedì 6 marzo 2018

Quali deroghe al sistema dei riposi e della durata dell'orario di lavoro ha posto il legislatore comunitario?

L'art. 10 della direttiva 88/2003 CE prevede:

1. Nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, gli Stati membri possono derogare agli articoli 3, 4, 5, 6, 8 e 16 quando la durata dell'orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell'attività esercitata, non è misurata e/o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta:

a) di dirigenti o di altre persone aventi potere di decisione autonomo;

b) di manodopera familiare; o

c) di lavoratori nel settore liturgico delle chiese e delle comunità religiose.

2. Le deroghe di cui ai paragrafi 3, 4 e 5 possono essere adottate con legge, regolamento o con provvedimento amministrativo, ovvero mediante contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali, a condizione che vengano concessi ai lavoratori interessati equivalenti periodi di riposo compensativo oppure, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per ragioni oggettive, a condizione che venga loro concessa una protezione appropriata.

3. In conformità al paragrafo 2 del presente articolo le deroghe agli articoli 3, 4, 5, 8 e 16 possono essere concesse:

a) per le attività caratterizzate dalla distanza fra il luogo di lavoro e il luogo di residenza del lavoratore, compreso il lavoro offshore, oppure dalla distanza fra i suoi diversi luoghi di lavoro;

b) per le attività di guardia, sorveglianza e permanenza caratterizzate dalla necessità di assicurare la protezione dei beni e delle persone, in particolare, quando si tratta di guardiani o portinai o di imprese di sorveglianza;

c) per le attività caratterizzate dalla necessità di assicurare la continuità del servizio o della produzione, in particolare, quando si tratta:

i) di servizi relativi all'accettazione, al trattamento e/o alle cure prestati da ospedali o stabilimenti analoghi, comprese le attività dei medici in formazione, da case di riposo e da carceri;

ii) del personale portuale o aeroportuale;

iii) di servizi della stampa, radiofonici, televisivi, di produzione cinematografica, postali o delle telecomunicazioni, di servizi di ambulanza, antincendio o di protezione civile;

iv) di servizi di produzione, di conduzione e distribuzione del gas, dell'acqua e dell'elettricità, di servizi di raccolta dei rifiuti domestici o degli impianti di incenerimento;

v) di industrie in cui il lavoro non può essere interrotto per ragioni tecniche;

vi) di attività di ricerca e sviluppo;

vii) dell'agricoltura;

viii) di lavoratori operanti nel settore del trasporto di passeggeri nell'ambito di servizi regolari di trasporto urbano;

d) in caso di sovraccarico prevedibile di attività e, in particolare:

i) nell'agricoltura;

ii) nel turismo;

iii) nei servizi postali;

e) per il personale che lavora nel settore dei trasporti ferroviari;

i) per le attività discontinue;

ii) per il servizio prestato a bordo dei treni; oppure

iii) per le attività connesse con gli orari del trasporto ferroviario e che assicurano la continuità e la regolarità del traffico ferroviario;

f) nei casi previsti dall'articolo 5, paragrafo 4, della direttiva 89/391/CEE;

g) in caso di incidente o di rischio di incidente imminente;

4. In conformità al paragrafo 2 del presente articolo le deroghe agli articoli 3 e 5 possono essere concesse:

a) per le attività di lavoro a turni, ogni volta che il lavoratore cambia squadra e non può usufruire tra la fine del servizio di una squadra e l'inizio di quello della squadra successiva di periodi di riposo giornaliero e/o settimanale;

b) per le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata, in particolare del personale addetto alle attività di pulizia;

5. In conformità al paragrafo 2 del presente articolo le deroghe all'articolo 6 e all'articolo 16, lettera b), nel caso dei medici in formazione, possono essere concesse secondo il disposto dei commi dal secondo al sesto del presente paragrafo.

Con riferimento all'articolo 6, le deroghe di cui al primo comma sono consentite per un periodo transitorio di cinque anni a decorrere dal 1° agosto 2004.

Gli Stati membri dispongono, se necessario, di altri due anni al massimo per ovviare alle difficoltà nel rispettare le prescrizioni in materia di lavoro nell'ambito delle loro responsabilità di organizzare e fornire servizi sanitari e cure mediche. Almeno 6 mesi prima della scadenza del periodo transitorio, lo Stato membro interessato informa in modo motivato la Commissione, in modo che questa possa, entro tre mesi dalla ricezione dell'informazione, esprimere un parere, previe opportune consultazioni. Lo Stato membro che non segua il parere della Commissione motiva la propria decisione. La comunicazione e le motivazioni dello Stato membro e il parere della Commissione sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea e trasmessi al Parlamento europeo.

Gli Stati membri dispongono, se necessario, di un ulteriore periodo di un anno al massimo per ovviare a speciali difficoltà incontrate nell'ambito delle responsabilità di cui al terzo comma. Essi seguono il procedimento di cui a detto comma.

Gli Stati membri provvedono affinché in nessun caso il numero di ore di lavoro settimanali superi una media di 58 ore durante i primi tre anni del periodo transitorio, una media di 56 ore per i due anni successivi e una media di 52 ore per l'eventuale periodo restante.

Il datore di lavoro consulta i rappresentanti dei lavoratori in tempo utile allo scopo di giungere ad un accordo, se possibile, sulle soluzioni da applicare al periodo transitorio. Nei limiti di cui al quinto comma, tale accordo può prevedere:

a) il numero medio di ore di lavoro settimanali durante il periodo transitorio; e

b) le misure da adottare per ridurre il numero delle ore di lavoro settimanali a una media di 48 ore entro la fine del periodo transitorio.

Con riferimento all'articolo 16, lettera b), le deroghe di cui al primo comma sono consentite purché il periodo di riferimento non superi 12 mesi, durante la prima parte del periodo transitorio di cui al quinto comma e, successivamente, 6 mesi.

lunedì 5 marzo 2018

Le società a prevalente capitale pubblico svolgenti attività industriali devono versare il contributo per la cassa integrazione guadagni?

Cass. 27/02/2018, n. 4560

Le società a capitale misto, ed in particolare le società per azioni a prevalente capitale pubblico, aventi ad oggetto l'esercizio di attività industriali, sono tenute al pagamento dei contributi previdenziali previsti per la cassa integrazione guadagni e la mobilità. L'applicabilità dell'esenzione stabilita per le imprese industriali degli enti pubblici dall'art. 3 del D.L.C.P.S. n. 869 del 1947, è stata, infatti, esclusa sul rilievo della natura essenzialmente privata delle società partecipate, finalizzate all'erogazione di servizi al pubblico in regime di concorrenza, nelle quali l'Amministrazione Pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, e restando irrilevante, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, la partecipazione – pur maggioritaria, ma non totalitaria - da parte dell'ente pubblico.

venerdì 2 marzo 2018

Al licenziamento disciplinare intempestivo quale delle tutele  ex art. 18 della legge 300 del 1970 si applica?

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 27-12-2017 n. 30985

1. Con tale motivo si sostiene la violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, in relazione all'art. 12 disp. gen. ed ai principi in materia di rapporti tra la disciplina di legge generale e quella della legge speciale, oltre che della L. n. 300 del 1970, art. 7 in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c. nonchè agli artt. 1324, 1325 e 1418 c.c..

Osserva la ricorrente che nell'impugnata sentenza risultano violati i principi in materia di rapporti tra legge generale e legge speciale e di interpretazione della legge, laddove si sostiene che l'ipotesi oggetto di causa si porrebbe prima e al di fuori della casistica della L. n. 300 del 1970, art. 18 poichè, pur sussistendo il fatto e gli estremi della giusta causa, sarebbe tuttavia venuto meno il diritto di recesso datoriale in conseguenza di un fatto negoziale di natura abdicativa, rappresentato dal trascorrere del tempo utile per esercitare il relativo potere, unitamente a comportamenti concludenti della stessa datrice di lavoro che aveva adibito il dipendente C.B. a mansioni di rilevante fiducia pur dopo la scoperta dei fatti oggetto di addebito disciplinare. Si obietta sul punto che la disciplina di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 come novellato all'indomani della L. n. 92 del 2012, si incarica di individuare in maniera analitica ed esaustiva tutti i possibili vizi del recesso datoriale ed i conseguenti rimedi spettanti al lavoratore, per cui rimane preclusa all'interprete la possibilità di sostenere che un'ipotesi di nullità o illegittimità del recesso datoriale debba invece trovare disciplina fuori dalla L. n. 300 del 1970, art. 18.

2. Non condivisibile, prosegue la ricorrente, è poi l'affermazione della Corte d'appello di Firenze secondo cui la tardiva contestazione, come quella in oggetto, non sia sempre suscettibile di integrare un vizio procedimentale del recesso. Invero, la semplice lettura della L. n. 300 del 1970, art. 7 rende evidente, per la difesa della Banca, che è proprio questa disposizione a regolamentare il procedimento che, dalla contestazione disciplinare, conduce all'irrogazione del licenziamento, con la conseguenza che il ritardo nell'espletamento di questa procedura costituisce un vizio della stessa e trova la propria regolamentazione all'interno del nuovo art. 18, comma 6 che, in caso di accertata violazione a carattere procedurale, prevede la risoluzione del rapporto di lavoro con riconoscimento al dipendente di una mera indennità risarcitoria determinata, in relazione alla gravità della violazione procedurale, tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Quindi, considerato che non può esservi alcun dubbio sul fatto che l'intempestività della contestazione si configuri come vizio procedimentale, secondo la ricorrente si perviene ad una conclusione analoga anche alla luce delle norme di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., quali referenti normativi della regola di tempestività della contestazione. Anche tale disposizione sancisce regole di condotta e, dunque, di procedura, con la conseguenza che la loro ipotetica violazione resta ascritta al genus delle violazioni procedimentali suscettibili della sola tutela indennitaria di cui al citato L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6. Regole di condotta la cui trasgressione non può mai condurre, secondo il presente assunto difensivo, all'invalidazione di un atto, ma solo al risarcimento del danno.

3. Inoltre, secondo la ricorrente, la tesi della nullità del licenziamento, così come sostenuta nella sentenza impugnata, si espone a critica sotto un ulteriore profilo, in quanto non ricorre nella specie alcuna delle ipotesi integranti un vizio di nullità alla luce degli artt. 1418 e 1325 c.c. (difetto strutturale della fattispecie, contrarietà a norma imperativa, esistenza di un interesse illecito), applicabili ex art. 1324 c.c. anche agli atti unilaterali tra vivi con contenuto patrimoniale. Erronea è ancora, secondo la ricorrente, la sentenza d'appello nel punto in cui si ritiene che l'inerzia della datrice di lavoro, accompagnata dal comportamento concludente - consistente nell'aver adibito Cimino a mansioni di rilevante fiducia - possa integrare un fatto negoziale di rinuncia al diritto di recesso e dare luogo alla nullità di quest'ultimo. Inoltre, si ritiene non essere conferente il richiamo al precedente n. 9929/2004 della Suprema Corte che fa riferimento all'esigenza di tutela dell'affidamento creatosi nel lavoratore in ordine al fatto che il diritto di recesso datoriale non sia più esercitato, in quanto la valutazione secondo buona fede della condotta del datore di lavoro non può condurre ad una qualificazione di nullità del recesso. Diversamente, si ammetterebbe l'ingresso nel nostro ordinamento della ipotesi dell'estinzione di una situazione giuridica soggettiva che può essere fatta dipendere da un'inerzia del titolare quand'anche non si protragga per il tempo necessario alla maturazione della prescrizione, vanificandosi l'esigenza di certezza alla quale è funzionale tale istituto.

Infine, si afferma che non è condivisibile l'orientamento giurisprudenziale secondo cui la tardività farebbe venir meno uno degli elementi costitutivi del diritto di recesso e il corrispondente vizio dovrebbe essere verificato d'ufficio dal giudice: orbene, proprio quest'ultima precisazione dimostrerebbe, secondo la difesa della Banca, che la fattispecie cui fanno riferimento i precedenti richiamati contempla l'insussistenza del fatto, situazione, questa, non ricorrente nel caso in esame, così come accertato dalla stessa Corte territoriale.

4. Con l'ordinanza interlocutoria n. 10159 del 2017 la Sezione Lavoro di questa Corte ha richiamato i due orientamenti contrastanti di legittimità che si sono registrati in ordine alla tutela da applicare, alla luce del novellato art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nel caso di rilevante tardività della contestazione disciplinare, dopo aver precisato che prima della riforma introdotta dalla L. n. 92 del 2012 la giurisprudenza di legittimità era concorde nel ritenere che l'immediatezza del provvedimento espulsivo configurasse un elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la mancanza di tempestività della contestazione o del licenziamento induceva ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro avesse soprasseduto al licenziamento stesso, considerando non grave o non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore (in tal senso v. Cass. sez. lav. n. 2902 del 13.2.2015, n. 20719 del 10.9.2013, n. 1995 del 13.2.2012 e n. 13167 dell'8.6.2009).

5. Tale orientamento è stato di recente confermato con la sentenza n. 2513 del 31.1.2017 della Sezione lavoro di questa Corte, in una fattispecie analoga a quella oggetto del presente giudizio, in relazione ad un licenziamento disciplinare tardivo intimato sotto la vigenza della nuova disciplina introdotta dalla L. n. 92 del 2012, affermandosi che un fatto non tempestivamente contestato dal datore di lavoro non può che essere considerato insussistente ai fini della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18 del novellato statuto dei lavoratori, trattandosi di violazione radicale che impedisce al giudice di valutare la commissione effettiva dello stesso anche ai fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori. Si è, in pratica, ritenuto che, dal momento in cui il fatto non è stato contestato idoneamente L. n. 300 del 1970, ex art. 7 lo stesso è "tanquam non esset" e, quindi, insussistente ai sensi del novellato art. 18, in quanto sul piano letterale la norma parla di insussistenza del "fatto contestato" (cioè contestato regolarmente) e quindi, a maggior ragione, non può che riguardare anche l'ipotesi in cui il fatto sia stato contestato in aperta violazione del citato art. 7 a causa del notevole ritardo nella elevazione dell'addebito disciplinare.

6. Osserva la Corte che il terzo motivo del ricorso principale è fondato, seppur nei limiti che di qui appresso saranno specificati.

Invero, va tenuto conto del fatto che con la L. n. 92 del 2012 (riforma Fornero) si assiste ad una modifica dell'art. 18, nel senso che accanto alla tutela reale, la quale rappresenta il massimo livello di protezione per sanzionare un illecito, viene prevista una tutela meramente indennitaria. I regimi di cui si parla nel nuovo art. 18 sono i seguenti: a) quello della tutela reintegratoria piena (disciplinato dai primi tre commi dell'art. 18); b) quello della tutela reintegratoria attenuata (comma 4); c) quello della tutela indennitaria forte (comma 5), che varia tra le 12 e le 24 mensilità; d) quello della tutela indennitaria limitata (comma 6), che oscilla tra le 6 e le 12 mensilità.

L'odierna formulazione dell'art. 18 prevede una tutela reale piena, consistente nella reintegrazione e nel risarcimento del danno per l'intero periodo che va dal alla effettiva reintegra, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, nei casi in cui il giudice dichiari la nullità del licenziamento perchè discriminatorio ai sensi della L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 3 ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'art. 35 codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'art. 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perchè riconducibile ad altri casi di nullítà previsti dalla legge o dovuto ad un motivo illecito determinante ai sensi dell'art. 1345 c.c. (conclusione esclusiva del contratto per un motivo illecito comune ad entrambe le parti) o quando il giudice dichiari inefficace il licenziamento perchè intimato in forma orale. In caso di tutela reale piena, oltre alla reintegra, è previsto anche un risarcimento che non può mai essere inferiore a 5 volte l'ultima retribuzione percepita dal dipendente al momento dell'illegittimo licenziamente, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative.

7. Ebbene, va subito detto che il caso di cui ci si occupa non trova collocazione in alcuna delle ipotesi tipiche elencate nel primo comma del novellato art. 18 ai fini dell'applicabilità della tutela reale piena, rappresentando queste ultime delle specifiche ipotesi di nullità o inefficacia espressamente prefigurate dalla stessa norma. Non va, infatti, sottaciuto che nel caso di specie il licenziamento venne intimato il 18.2.2013 a C.B. per il fatto che nel periodo (OMISSIS), in qualità di preposto alla "linea family", aveva consentito o, comunque, favorito (coinvolgendo il personale di sportello) la negoziazione di n. 37 assegni bancari per complessivi Euro 455.383,11 in violazione della relativa normativa, permettendo così ai clienti e non della filiale di incassare (per lo più in contanti) il retratto di numerosi titoli tratti su banche corrispondenti, spesso fuori piazza. E', pertanto, evidente che la motivazione del licenziamento intimato a Cimino esula dai casi previsti dall'art. 18, comma 1 ai fini della dichiarazione di illiceità o inefficacia per i quali opera la tutela reintegratoria piena. Nè, tantomeno, può sostenersi che il rilevante ritardo di due anni nella contestazione dell'addebito disciplinare rispetto ai fatti in precedenza accertati possa integrare una causa di nullità o inefficacia del licenziamento sanzionabile con l'ordine di reintegra di cui al primo comma del novellato L. n. 300 del 1970, art. 18 sia perchè l'ipotesi in esame non è contemplata tra le possibili cause di nullità o inefficacia espressamente previste dal citato primo comma ai fini della predetta reintegra, sia perchè si è in presenza di un vizio che si concretizza, in realtà, in una forma di inadempimento della parte datoriale ai generali doveri di correttezza e buona fede nei rapporti obbligatori che attiene propriamente alla fase successiva ed attuativa della comunicazione del provvedimento espulsivo, senza alcun concorso alla formazione della causa che ha dato origine al recesso datoriale. In definitiva può ritenersi che si è in presenza di un vizio funzionale e non genetico della fattispecie sanzionatoria, per cui nemmeno è condivisibile l'orientamento (Cass. sez. lav. n. 2513 del 31.1.2017) secondo cui il fatto non tempestivamente contestato dal datore di lavoro dovrebbe essere considerato insussistente, con violazione radicale dell'art. 7 dello statuto dei lavoratori che impedirebbe al giudice di valutare la commissione effettiva dello stesso fatto anche ai fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori. Al contrario, il fatto oggetto di addebito disciplinare è pur sempre valutabile dal giudicante, il quale dovrà solo verificare se l'inadempienza al generale principio dell'immediatezza della contestazione finisca per inficiare la validità del licenziamento, per individuare poi il tipo di tutela applicabile.

8. Per quel che riguarda, invece, il regime della tutela reintegratoria attenuata l'art. 18, comma 4 nel testo introdotto dalla L. n. 92 del 2012, stabilisce che il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perchè il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al comma 1 e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonchè quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Orbene, il caso in esame non è riconducibile a tale previsione normativa per la semplice ragione che quest'ultima presuppone che la mancanza degli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa sia dovuta alla insussistenza del fatto contestato ovvero alla sua ascrivibilità alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili, mentre nella fattispecie in esame il fatto posto a base dell'addebito era stato accertato prima che lo stesso venisse contestato, seppur con notevole ritardo, al lavoratore, nè emerge che fosse riconducibile ad una previsione collettiva di applicazione di sanzione conservativa. Tra l'altro, è interessante notare che l'art. 18, comma 7 prevede che il giudice applichi la medesima disciplina di cui al comma 4 nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi della L. 12 marzo 1999, n. 68, art. 4, comma 4, e art. 10, comma 3, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero nel caso che il licenziamento sia stato intimato in violazione dell'art. 2110 c.c., comma 2, (recesso per decorrenza dei termini stabiliti dalla legge o dagli usi o secondo equità nei casi di sospensione del rapporto di lavoro per infortunio, malattia, gravidanza e puerperio), stabilendo, nel contempo, che il giudice può applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Ebbene, anche in tali ipotesi di giustificato motivo oggettivo del licenziamento, così come nella previsione normativa di cui al citato art. 18, commi 1 e 4 si è in presenza di fattispecie prefigurate dal legislatore ai fini dell'applicabilità della tutela reale depotenziata.

In definitiva, la insussistenza o la manifesta insussistenza che legittima l'accesso alla tutela reintegratoria attenuata non può non riguardare il difetto - nel medesimo fatto - di elementi essenziali della giusta causa o del giustificato motivo, tanto più che la riforma in esame di cui alla L. n. 92 del 2012 non ha modificato, per quel che qui interessa, le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla L. n. 604 del 1966, laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. o per giustificato motivo.

Quindi, nelle ipotesi (come quella oggetto di causa) in cui sia, invece, accertata la sussistenza dell'illecito disciplinare posto a base del licenziamento, ma questo non sia stato preceduto da tempest-iva contestazione, si è fuori dalla previsione di applicazione della tutela reale nella forma attenuata di cui al novellato art. 18 dello Statuto dei lavoratori, comma 4 (estesa anche all'ipotesi di cui al comma 7 concernente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo) che è, invece, contemplata per il caso di licenziamento ritenuto gravemente infondato in considerazione dell'accertata insussistenza (o manifesta insussistenza per l'ipotesi di cui al citato comma 7) del fatto.

9. Così escluso che la tardività della contestazione dell'illecito disciplinare possa essere sanzionata attraverso il rimedio della tutela reale piena o depotenziata di cui all'art. 18 - nel testo vigente a seguito della riforma introdotta dalla L. n. 92 del 2012 - resta il problema di stabilire a quale forma di tutela indennitaria far ricorso, se cioè a quella forte, di cui al comma 5, o a quella debole, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6.

La soluzione del problema discende sostanzialmente dalla valenza che si intende attribuire al principio della tempestività della contestazione dell'illecito disciplinare, nel senso che se, per un verso, è certo che l'obbligo della contestazione tempestiva dell'addebito rientra nel procedimento disciplinare di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7d'altro canto, è pur vero che ciò non implica automaticamente che la violazione del principio della tempestività della contestazione disciplinare, così come elaborato dalla giurisprudenza, debba essere sempre sanzionata attraverso il meccanismo della indennità attenuata, di cui al citato art. 18, comma 6 per il solo fatto che tale norma contempla, tra le ipotesi di applicazione di tale più lieve sanzione, quelle derivanti dalla violazione delle procedure di cui alla stessa L. n. 300 del 1970, art. 7 e della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 7 unitamente alla violazione del requisito della motivazione.

Invero, il principio della tempestività della contestazione lo si desume dal contesto della lettura della norma di cui alla L. n. 300 del 1970, 7 dal momento che questa non lo enunzia in maniera espressa, limitandosi solo a prevedere quanto segue: "Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa." Egualmente la L. n. 604 del 1966, art. 7, comma 1, anch'esso richiamato nella L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6 si limita a stabilire che ferma l'applicabilità, per il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7 il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all'art. 3, seconda parte, della presente legge, qualora disposto da un datore di lavoro avente i requisiti dimensionali di cui della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 8, e successive modificazioni, deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera, e trasmessa per conoscenza al lavoratore.

Ciò autorizza a ritenere che il principio della tempestività della contestazione può risiedere anche in esigenze più importanti del semplice rispetto delle regole, pur esse essenziali, di natura procedimentale, vale a dire nella necessità di garantire al lavoratore una difesa effettiva e di sottrarlo al rischio di un arbitrario differimento dell'inizio del procedimento disciplinare. Si è, infatti, affermato che, in materia di licenziamento disciplinare, il principio dell'immediatezza della contestazione mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall'altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore - in relazione al carattere facoltativo dell'esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile. Inoltre, tra l'interesse del datore di lavoro a prolungare le indagini in assenza di una obbiettiva ragione e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, non può non prevalere la posizione di quest'ultimo, tutelata "ex lege", senza che abbia valore giustificativo, a tale fine, la complessità dell'organizzazione aziendale (v. in tal senso Cass. sez. lav. n. 13167 dell'8.6.2009).

A ben vedere il fondamento logico-giuridico della regola generale della tempestività della contestazione disciplinare non soddisfa solo l'esigenza di assicurare al lavoratore incolpato l'agevole esercizio del diritto di difesa, quando questo possa essere compromesso dal trascorrere di un lasso di tempo eccessivo rispetto all'epoca di accertamento del fatto oggetto di addebito, ma appaga anche l'esigenza di impedire che l'indugio del datore di lavoro possa avere effetti intimidatori, nonchè quella di tutelare l'affidamento che il dipendente deve poter fare sulla rinuncia dello stesso datore di lavoro a sanzionare una mancanza disciplinare allorquando questi manifesti, attraverso la propria inerzia protratta nel tempo, un comportamento in tal senso concludente.

10. In definitiva, la violazione della procedura di cui all'art. 7 Statuto dei lavoratori, alla quale il novellato art. 18, comma 6 riconduce l'applicabilità della tutela indennitaria debole unitamente ai casi di violazione della procedura di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 7 e di inefficacia per violazione del requisito della motivazione di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 2, comma 2, è da intendere, ai fini sanzionatori che qui rilevano, come violazione delle regole che scandiscono le modalità di esecuzione dell'intero iter procedimentale nelle sue varie fasi, mentre la violazione del principio generale di carattere sostanziale della tempestività della contestazione quando assume il carattere di ritardo notevole e non giustificato è idoneo a determinare un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato di espletare in modo pieno una difesa effettiva nell'ambito del procedimento disciplinare, garanzia, quest'ultima, che non può certamente essere vanificata da un comportamento del datore di lavoro non improntato al rispetto dei canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c..

In effetti, la mancanza di tempestività della contestazione disciplinare può indurre nelle suddette ipotesi a ritenere, fino a quando la stessa non venga eseguita, che il datore di lavoro voglia soprassedere al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore, con la precisazione che detto requisito va inteso in senso relativo, come costantemente affermato in diversi precedenti di legittimità, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richiedano uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo.

Quindi, la violazione derivante dalla tardività notevole e ingiustificata della contestazione disciplinare è sanzionabile alla stregua del citato art. 18, comma 5 da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla c.d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale, secondo il quale il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.

11. In sostanza, tirando le somme di quanto fin qui detto, può affermarsi che ciò che rileva dal punto di vista disciplinare è un inadempimento, vale a dire una mancata o inesatta esecuzione della prestazione che abbia arrecato pregiudizio all'interesse del datore di lavoro-creditore e di cui il prestatore di lavoro debba essere ritenuto responsabile. Tuttavia, se da una parte rileva l'interesse del datore di lavoro al funzionamento complessivo dell'impresa, dall'altra anche il datore di lavoro è tenuto all'osservanza di quei fondamentali precetti che presiedono all'attuazione dei rapporti obbligatori e contrattuali e che sono scolpiti negli artt. 1175 e 1375 c.c., vale a dire i precetti di correttezza e buona fede, quanto mai importanti nell'esercizio del potere disciplinare atto ad incidere sulle sorti del rapporto e sulle relative conseguenze giuridiche ed economiche, ragion per cui deve essere improntato alla massima trasparenza. Quindi, se il datore di lavoro viola tali doveri, ritardando oltremodo e senza un'apprezzabile giustificazione la contestazione disciplinare, il problema non è più quello della violazione dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori, quanto piuttosto l'altro della interpretazione secondo buona fede della volontà delle parti nell'attuazione del rapporto di lavoro. Invero, posto che l'obbligazione dedotta in contratto ha lo scopo di soddisfare l'interesse del creditore della prestazione, l'inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per facta concludentia, dell'insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse. E se è vero che ciascun contraente deve restare vincolato agli effetti del significato socialmente attribuibile alle proprie dichiarazioni e ai propri comportamenti, la successiva e tardiva contestazione disciplinare non può che assumere il valore di un inammissibile "venire contra factum proprium", la cui portata di principio generale è stata ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità argomentando proprio sulla scorta della sua contrarietà ai principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.. Con la conseguenza che, sussistendo l'inadempimento posto a base del licenziamento, ma non essendo tale provvedimento preceduto da una tempestiva contestazione disciplinare a causa dell'accertata contrarietà del comportamento del datore di lavoro ai canoni di correttezza e buona fede, la conclusione non può essere che l'applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, comma 5.

Diversamente, qualora le norme di contratto collettivo o la stessa legge dovessero prevedere dei termini per la contestazione dell'addebito disciplinare, la relativa violazione verrebbe attratta, in quanto caratterizzata da contrarietà a norma di natura procedimentale, nell'alveo di applicazione del citato art. 18, comma 6 che, nella sua nuova formulazione, è collegato alla violazione delle procedure di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7 e della L. n. 604 del 1966, art. 7.

12. In definitiva, il principio di diritto che va affermato nel caso di specie è il seguente: "La dichiarazione giudiziale di risoluzione del licenziamento disciplinare conseguente all'accertamento di un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell'addebito posto a base dello stesso provvedimento di recesso, ricadente "ratione temporis" nella disciplina della L. n. 300 del 1970, art. 18 così come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 42 comporta l'applicazione della sanzione dell'indennità come prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5".



Pertanto, l'impugnata sentenza va cassata in relazione all'accoglimento, nei limiti come sopra specificati, del terzo motivo del ricorso della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., rimanendo, di conseguenza, assorbito l'esame degli altri motivi del ricorso principale e del ricorso incidentale, per cui la causa va rinviata per la trattazione del merito alla Corte d'appello di Firenze in diversa composizione che, attenendosi al suddetto principio di diritto, provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.