giovedì 31 maggio 2018

In caso di accertata regolarità gli ispettori devono rilasciare verbale?  

In base all'art. 3 comma 20 della legge 335 del 1995:

20. Gli accertamenti ispettivi in materia previdenziale e assicurativa esperiti nei confronti dei datori di lavoro debbono risultare da appositi verbali, da notificare anche nei casi di constatata regolarità. Nei casi di attestata regolarità ovvero di regolarizzazione conseguente all'accertamento ispettivo eseguito, gli adempimenti amministrativi e contributivi relativi ai periodi di paga anteriore alla data dell'accertamento ispettivo stesso non possono essere oggetto di contestazioni in successive verifiche ispettive, salvo quelle determinate da comportamenti omissivi o irregolari del datore di lavoro o conseguenti a denunce del lavoratore. La presente disposizione si applica anche agli atti e documenti esaminati dagli ispettori ed indicati nel verbale di accertamento, nonché ai verbali redatti dai funzionari dell'Ispettorato del lavoro in materia previdenziale e assicurativa. I funzionari preposti all'attività di vigilanza rispondono patrimonialmente solo in caso di danno cagionato per dolo o colpa grave.

mercoledì 30 maggio 2018

Quando si matura il diritto alla pensione?



Cass. 25/05/2018, n. 13181

In tema di pensione di anzianità, la decorrenza della stessa in base alle regole delle "finestre" indicate dall'art. 1, comma 29 della L. 8 agosto 1995, n. 335, e dall'art. 59, commi 6 e 8 della L. 27 dicembre 1997, n. 449, rappresenta un elemento costitutivo dello stesso diritto a pensione, il quale, pertanto, si perfeziona soltanto nel momento in cui matura la data di decorrenza fissata dalla legge, essendo quindi irrilevante, per l'insorgenza di siffatto diritto, che l'assicurato abbia, prima del predetto momento, conseguito il prescritto requisito contributivo e presentato domanda di pensione; in tal modo, il momento di perfezionamento di tale diritto diventa il momento in cui questo tempo è decorso, momento che va identificato nella data di apertura della "finestra" indicata caso per caso dalla legge e tale volontà normativa ha fondamento nella stessa durata del tempo, quale ulteriore integrazione dell'età anagrafica.

martedì 29 maggio 2018

In cosa consiste la rendita vitalizia ex art. 13 l. 1338 del 1962


Ferme restando le disposizioni penali, il datore di lavoro che abbia omesso di versare contributi per l'assicurazione obbligatoria invalidità, vecchiaia e superstiti e che non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione ai sensi dell'art. 55 del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827 , può chiedere all'Istituto nazionale della previdenza sociale di costituire, nei casi previsti dal successivo quarto comma, una rendita vitalizia riversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell'assicurazione obbligatoria che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi.


La corrispondente riserva matematica è devoluta, per le rispettive quote di pertinenza, all'assicurazione obbligatoria e al Fondo di adeguamento, dando luogo all'attribuzione a favore dell'interessato di contributi base corrispondenti, per valore e numero, a quelli considerati ai fini del calcolo della rendita.

La rendita integra con effetto immediato la pensione già in essere; in caso contrario i contributi di cui al comma precedente sono valutati a tutti gli effetti ai fini dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti.

Il datore di lavoro è ammesso ad esercitare la facoltà concessagli dal presente articolo su esibizione all'Istituto nazionale della previdenza sociale di documenti di data certa, dai quali possano evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro, nonché la misura della retribuzione corrisposta al lavoratore interessato .

Il lavoratore, quando non possa ottenere dal datore di lavoro la costituzione della rendita a norma del presente articolo, può egli stesso sostituirsi al datore di lavoro, salvo il diritto al risarcimento del danno, a condizione che fornisca all'Istituto nazionale della previdenza sociale le prove del rapporto di lavoro e della retribuzione indicate nel comma precedente .

Per la costituzione della rendita, il datore di lavoro, ovvero il lavoratore allorché si verifichi l'ipotesi prevista al quarto comma, deve versare all'Istituto nazionale della previdenza sociale la riserva matematica calcolata in base alle tariffe che saranno all'uopo determinate e variate, quando occorra, con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentito il Consiglio di amministrazione dell'Istituto nazionale della previdenza sociale

lunedì 28 maggio 2018

Quando si prescrive il diritto alla costituzione della rendita vitalizia ex art. 13 L. 1338 del 1962?

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 20-06-2017) 14-09-2017, n. 21302

Si osserva, infatti, che questa Corte ha già avuto modo di statuire (Cass. sez. lav. n. 983 del 20.1.2016) che "il diritto del lavoratore di vedersi costituire, a spese del datore di lavoro, la rendita vitalizia di cui alla L. n. 1338 del 1962, art. 13, comma 5, per effetto del mancato versamento da parte di quest'ultimo dei contributi previdenziali, è soggetto al termine ordinario di prescrizione, che decorre dalla data di prescrizione del credito contributivo dell'INPS, senza che rilevi la conoscenza o meno, da parte del lavoratore, della omissione contributiva" (conf. a Cass. Sez. Lav. n. 3756 del 13.3.2003).

Si è, altresì, precisato (Cass. Sez. Lav. n. 12213 del 3.7.2004) che "nel caso di omessa contribuzione previdenziale da parte del datore di lavoro e di prescrizione del corrispondente diritto di credito spettante all'ente assicuratore, il prestatore di lavoro subisce un danno immediato, diverso dalla perdita futura e incerta della pensione di anzianità o di vecchiaia, consistente nella necessità di costituire la provvista per il beneficio sostitutivo della pensione. La prescrizione del diritto al risarcimento di questo danno decorre dal momento di maturazione della prescrizione del diritto ai contributi, spettante all'ente assicuratore".

Pertanto, ha ragione la difesa dell'ente territoriale a dolersi della decisione della Corte d'appello di ritenere inapplicabile la prescrizione alla richiesta di costituzione della rendita in esame, atteso che il principio di certezza del diritto impone di considerare che sussiste un termine finale entro il quale lavoratore interessato possa esercitare il diritto potestativo a vedersi costituire la rendita di cui alla L. n. 1338 del 1962, art. 13, per i contributi omessi e tale prescrizione non può essere che quella ordinaria decennale. A sua volta, per le stesse ragioni di certezza, quest'ultimo periodo di prescrizione non può che decorrere dalla maturazione della prescrizione, anch'essa decennale, del diritto al recupero dei contributi da parte dell'Inps per l'accantonamento necessario alla costituzione della riserva matematica del relativo fondo di destinazione.

venerdì 25 maggio 2018

Il licenziamento intimato prima del superamento del comporto è nullo?

Cass. civ. Sez. Unite, Sent. 22-05-2018, n. 12568:

Si, premetta che, secondo ormai consolidato indirizzo interpretativo di questa S.C. (cfr., ex aliis, v. Cass. n. 24525/14; Cass. n. 12031/99; Cass. n. 9869/91), ai sensi dell'art. 2110 cod. civ. il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di licenziamento, vale a dire una situazione di per sè idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all'art. 2119 cod. civ. e alla L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3.

D'altronde, il mero protrarsi di assenze oltre un determinato limite stabilito dalla contrattazione collettiva - o, in difetto, dagli usi o secondo equità - di per sè non costituisce inadempimento alcuno (trattandosi di assenze pur sempre giustificate); nè per dare luogo a licenziamento si richiede un'accertata incompatibilità fra tali prolungate assenze e l'assetto organizzativo o tecnico-produttivo dell'impresa, ben potendosi intimare il licenziamento per superamento del periodo di comporto pur ove, in concreto, il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali.

In altre parole, nell'art. 2110 cod. civ., comma 2, si rinviene un'astratta predeterminazione (legislativo-contrattuale) del punto di equilibrio fra l'interesse del lavoratore a disporre d'un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia od infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all'organizzazione aziendale.

Si noti che l'assunto secondo cui quella in esame è un'autonoma fattispecie di licenziamento non è smentito dalla giurisprudenza (v. Cass. n. 284/17; Cass. n. 8707/16; Cass. n. 23920/2010; Cass. n. 23312/2010; Cass. n. 11092/2005) che ritiene tale recesso assimilabile ad uno per giustificato motivo oggettivo anzichè per motivi disciplinari: si tratta d'una mera "assimilazione" (e non "identificazione") affermata al solo fine di escludere la necessità d'una previa completa contestazione (indispensabile, invece, in tema di responsabilità disciplinare), da parte datoriale, delle circostanze di fatto (le assenze per malattia) relative alla causale e di cui il lavoratore ha conoscenza personale e diretta (fermo restando ovviamente - l'onere del datore di lavoro di allegare e provare l'avvenuto superamento del periodo di non recedibilità).

3.2. La questione per cui sono state investite queste Sezioni Unite - che risiede nell'alternativa tra il considerare il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia del lavoratore, ma prima del superamento del periodo di comporto, soltanto inefficace fino a tale momento o, invece, il ritenerlo ab origine nullo per violazione dell'art. 2110 cod. civ., comma 2, - va sgomberata da possibili equivoci.

Invero, i precedenti di Cass. n. 1657/93 e Cass. n. 9037/01, nell'affermare che il licenziamento intimato in ragione del protrarsi delle assenze per malattia del lavoratore, ma prima che si sia esaurito il periodo di conservazione del posto di lavoro (previsto dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, dagli usi o stabilito secondo equità), è meramente inefficace fino a quando tale periodo non si consumi, rinviano puramente e semplicemente a Cass. n. 1151/88 e a Cass. n. 9032/2000, che tuttavia, a ben vedere, muovono da presupposti diversi.

Infatti, Cass. n. 1151/88 statuisce che prima che scada il comporto non è consentito licenziare il lavoratore per perdurante morbilità, a meno che non ricorra l'ipotesi - eccezionale e diversa dal quella oggi in esame - di malattia irreversibile e inemendabile tale da rendere certo che il dipendente non sarà più in grado di riprendere la propria normale attività lavorativa. E' chiaro che in siffatta evenienza il licenziamento non deriva più dal protrarsi delle assenze per malattia, ma da una differente situazione che a sua volta prescinde anche da eventuali assenze del lavoratore e dalla loro durata, ossia scaturisce dall'impossibilità di proseguire il rapporto per sopravvenuta inidoneità fisica del dipendente (accertabile ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 5, comma 2): quest'ultima è una fattispecie ben distinta (come questa S.C. ha evidenziato fin da Cass. n. 140/83 e, in tempi meno remoti, con Cass. n. 1404/12) da quella per cui oggi è processo.

Neppure il richiamo alla citata Cass. n. 9032/2000 è conferente, poichè tale sentenza si occupa della mera questione interpretativa - e del relativo onere probatorio - della condotta datoriale che si sia risolta nell'intimare il licenziamento pur sempre dopo la scadenza del periodo di comporto.

In realtà, le sentenze di questa S.C. che hanno statuito il differimento dell'efficacia del licenziamento sino allo scadere del periodo di comporto l'hanno fatto in relazione a licenziamenti alla cui base vi era già un motivo di recesso diverso e autonomo dal mero protrarsi della malattia, vale a dire a licenziamenti intimati o per giustificato motivo oggettivo (Cass. n. 23063/13 e Cass. n. 4394/88), o per giustificato motivo oggettivo derivante da sopravvenuta inidoneità a determinate mansioni (Cass. n. 239/05), o per riduzione di personale (Cass. n. 7098/90), o per giusta causa (Cass. n. 11087/05), o per giustificato motivo oggettivo rispetto al quale era, poi, sopraggiunta una giusta causa di recesso considerata come idonea di per sè p risolvere immediatamente il rapporto, ancor prima che cessasse lo stato di malattia (Cass. n. 64/17), o per licenziamento ad nutum (Cass. n. 133/89).

In tutte tali evenienze, dunque, il perdurante stato di malattia funge non già da motivo di recesso, ma da elemento ad esso estrinseco e idoneo soltanto a differire l'efficacia del licenziamento, mentre nella vicenda di cui oggi si controverte tale situazione integra di per sè l'unica ragione del licenziamento medesimo.

Pertanto, in tale giurisprudenza il richiamo al differimento dell'efficacia del recesso datoriale sino alla cessazione della malattia o fino all'esaurirsi del periodo di comporto vale solo a ribadire la nota regola in virtù della quale la quiescenza del rapporto (conseguente all'assenza per malattia od infortunio) impedisce l'immediato prodursi dell'effetto risolutivo: si tratta di asserto ininfluente ai fini della questione in oggetto.

In breve, le uniche sentenze (Cass. n. 9037/01 e Cass. n. 1657/93) che hanno espressamente affermato che il licenziamento intimato solo per perdurante morbilità e prima dello scadere del periodo di comporto sia valido, ancorchè meramente inefficace fino alla scadenza medesima, si sono basate su precedenti giurisprudenziali che - in realtà - statuivano altro.

3.3. L'opzione interpretativa secondo cui sarebbe già validamente disposto il licenziamento per il protrarsi delle assenze per malattia del lavoratore, con l'unico limite del mero differimento dell'efficacia del recesso fino a quando non si sia consumato il periodo massimo di comporto, contrasta con la sentenza n. 2072/80 di queste Sezioni Unite e con la successiva conforme giurisprudenza - cui deve darsi continuità anche nella presente sede - ed è altresì impraticabile in termini di coerenza, dogmatica all'interno della teoria generale del negozio giuridico.

La citata sentenza n. 2072/80 delle Sezioni Unite già da lungo tempo ha statuito che ai sensi dell'art. 2110 cod. civ., comma 2, (riferito tanto al comporto c.d. secco quanto a quello c.d. per sommatoria) il datore di lavoro può recedere dal rapporto solo dopo la scadenza del periodo all'uopo fissato dalla contrattazione collettiva (ovvero, in difetto, determinato secondo usi o equità) ed ha espressamente escluso che reiterate assenze per malattia del dipendente integrino un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3.

Ammettere come valido (sebbene momentaneamente inefficace) il licenziamento intimato ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto significherebbe consentire un licenziamento che, all'atto della sua intimazione, è ancora sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo e non è sussumibile in altra autonoma fattispecie legittimante.

Si tratterebbe, quindi, d'un licenziamento sostanzialmente acausale (nell'accezione giuslavoristica del termine) disposto al di fuori delle ipotesi residue previste dall'ordinamento (lavoratori in prova, dipendenti domestici, dirigenti, lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia).

Sarebbe - questo - un modo per aggirare l'interpretazione (accolta dalla costante giurisprudenza di questa S.C.) dell'art. 2110 cod. civ., comma 2, e di ignorarne la ratio, che è quella di garantire al lavoratore un ragionevole arco temporale di assenza per malattia od infortunio senza per ciò solo perdere l'occupazione.

Nè si dica che il fatto giustificativo debba essere valutato non in concreto, bensì in astratto ed ex ante, secondo la prospettiva del datore di lavoro al momento di intimazione del licenziamento, fermo restando che il fatto medesimo dovrà poi essere accertato in sede giudiziaria: ove pure il datore di lavoro fosse convinto, nel momento in cui ha comunicato il licenziamento, dell'avvenuta consumazione del periodo di comporto, non per questo il licenziamento potrebbe considerarsi meramente inefficace sol in base all'erroneo calcolo effettuato dal dichiarante.

Infatti, mentre l'oggetto dell'accertamento giurisdizionale va calibrato in ragione del motivo di licenziamento enunciato, l'individuazione dell'eventuale sanzione applicabile (nullità, inefficacia, annullamento etc.) va pur sempre parametrata al fatto come in concreto emerso all'esito del giudizio, a prescindere dall'originaria prospettiva di parte datoriale.

Ad esempio, un licenziamento nullo (v. L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1, nel testo novellato ex L. n. 92 del 2012) perchè discriminatorio o viziato da motivo illecito e determinante non si sottrarrà alla sanzione della nullità sol perchè nella lettera di licenziamento sia stata enunciata un'inesistente infrazione disciplinare astrattamente integrante giusta causa di recesso.

Neppure può distinguersi fra il caso in cui il datore di lavoro abbia erroneamente calcolato le assenze e/o i termini interno ed esterno del comporto e quello in cui egli, pur consapevole del mancato esaurirsi del comporto medesimo, nondimeno abbia ritenuto di poter licenziare il dipendente per il solo fatto d'una eccessiva morbilità: in entrambe le evenienze il licenziamento risulterà difforme dal modello legale delineato dall'art. 2110 cod. civ., comma 2 (come interpretato da costante giurisprudenza di questa S.C.).

L'opzione ermeneutica della mera inefficacia non può suffragarsi neppure adducendo che, ad ogni modo, la fattispecie legittimante il recesso (vale a dire il, superamento del periodo di comporto) si potrebbe realizzare successivamente: a ciò è agevole obiettare che i requisiti di validità del negozio vanno valutati al momento in cui viene posto in essere (sulla necessità che i requisiti di validità del licenziamento sussistano al momento in cui esso si perfeziona v. Cass. n. 7596/03) e non già al momento della produzione degli effetti (salvo il caso, che qui non ricorre, disciplinato dall'art. 1347 cod. civ.).

Intuitive esigenze di coerenza dogmatica all'interno della teoria generale del negozio giuridico sconsigliano forzature.

3.4. Per completezza espositiva deve infine segnalarsi che, nel caso di specie, neppure la tesi della mera inefficacia del licenziamento intimato prima dello spirare del termine di comporto consentirebbe il rigetto della domanda di reintegra, atteso che dalla sentenza impugnata emerge che il termine massimo di comporto sarebbe spirato (secondo i calcoli effettuati dai giudici di merito) il 27 luglio 2004, mentre già nei giorni 14, 15 e 16 luglio 2004 il ricorrente si era presentato in azienda per riprendere servizio, non riuscendovi sol perchè la società aveva rifiutato la sua prestazione pretendendo che presentasse un certificato di avvenuta guarigione.

A tale ultimo proposito va puntualizzato che - contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata - per poter riprendere il lavoro il prestatore non ha l'onere di munirsi di un tale certificato, non esistendo nel settore creditizio alcuna norma di legge in tal senso.

Nè un onere del genere potrebbe ricavarsi dal D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 41, comma 2, lett. e-ter), come modificato dalla L. n. 106 del 2009, che si limita a prevedere che la sorveglianza sanitaria sia effettuata dal medico competente (di cui al precedente art. 38), anche mediante visita sanitaria precedente alla ripresa del lavoro a seguito di assenza per motivi di salute protrattasi per più di sessanta giorni continuativi, visita finalizzata a verificare l'idoneità alle mansioni: si tratta di controllo che la legge non configura come condicio iuris della ripresa dell'attività lavorativa e che, per di più, va attivato ad iniziativa datoriale e non del lavoratore.

Infatti, non solo il "medico competente", come definito dal D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, comma 1, lett. h), cit., è nominato dallo stesso datore di lavoro, con il quale collabora, ma il comma 4 del cit. art. 41 stabilisce che le visite mediche di cui al comma 2 sono "a cura e spese del datore di lavoro", al punto che la loro omissione può anche costituire grave inadempimento del datore di lavoro che, se del caso, legittima l'eccezione di inadempimento del lavoratore ex art. 1460 cod. civ. (come questa S.C. ha già avuto modo di pronunciarsi con sentenza n. 24459/16).

3.5. Deve altresì escludersi che il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma anteriormente alla sua scadenza, sia meramente ingiustificato, tale dovendosi - invece considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione d'un giustificato motivo o d'una giusta causa che risulti, poi, smentita (in punto di fatto e/o di diritto) all'esito della verifica giudiziale.

Al contrario, come premesso nel paragrafo che precede sub 3.1., il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di recesso diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all'art. 2119 cod. civ. e alla L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3.

Prova ne sia che la giurisprudenza di questa S.C., disattendendo un contrario e minoritario indirizzo dottrinale, ha sempre statuito - e da lungo tempo - che l'avvenuto decorso del termine di comporto abilita senz'altro il datore di lavoro a recedere per tale solo fatto, vale a dire senza che siano necessarie la sussistenza e l'allegazione di ulteriori elementi integranti un giustificato motivo a norma della L. n. 604 del 1966, art. 3 (cfr. Cass. n. 9869/91; Cass. n. 382/88; Cass. n. 2090/81; Cass. n. 1277/80; Cass. n. 2971/79; Cass. n. 2491/79).

Nè per definire come meramente ingiustificato il licenziamento intimato prima dello spirare del termine massimo di comporto si dica che, esclusa tale ipotesi, quel che residua è un licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo e, come tale, ingiustificato: si tratta d'un mero artificio dialettico che trascura il dato di fatto che il licenziamento è stato pur sempre intimato per il protrarsi delle assenze del lavoratore sul presupposto giuridicamente erroneo (perchè contrastante con l'art. 2110 cod. civ., comma 2) che ciò sia consentito ancora prima dello spirare del termine massimo di comporto.

Diversamente opinando, qualunque licenziamento nullo (perchè discriminatorio, viziato da motivo illecito determinante o lesivo di norma imperativa di legge) verrebbe pur sempre a collocarsi nell'area della mera mancanza di giustificazione.

3.6. Deve, invece, darsi continuità alla giurisprudenza di questa S.C. che considera nullo il licenziamento intimato solo per il protrarsi delle assenze dal lavoro, ma prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto (cfr. Cass. n. 24525/14; Cass. n. 1404/12; Cass. n. 12031/99; Cass. n. 9869/91).

Muovendo dall'interpretazione, dell'art. 2110 cod. civ., comma 2, accolta fin dalla summenzionata Cass. S.U. n. 2072/80, va evidenziato che il carattere imperativo della norma, in combinata lettura con l'art. 1418 cod. civ., non consente soluzioni diverse.

E' noto che dottrina e giurisprudenza definiscono l'imperatività delle norme in rapporto all'esigenza di salvaguardare valori morali o sociali o valori propri d'un dato ordinamento giuridico.

E il valore della tutela della salute è sicuramente prioritario all'interno dell'ordinamento - atteso che l'art. 32 Cost.lo definisce come "fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività" - così come lo è quello del lavoro (basti pensare, in estrema sintesi, all'art. 1 Cost., comma 1, artt. 4 e 35 Cost. e ss.).

In questa cornice di riferimento è agevole evidenziare come la salute non possa essere adeguatamente protetta se non all'interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro.

All'affermazione della nullità del licenziamento in discorso non osta l'avere il vigente testo della L. n. 300 del 1970,art. 18 (come novellato ex L. n. 92 del 2012) collocato la violazione dell'art. 2112 cod. civ., comma 2, nel comma 7 anzichè nel comma 1 (riservato ad altre ipotesi di nullità previste dalla legge), con conseguente applicazione del regime reintegratorio attenuato anzichè pieno.

Infatti, in considerazione d'un minor giudizio di riprovazione dell'atto assunto in violazione di norma imperativa, ben può il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione di nullità, di guisa che la citata previsione del comma 7 dell'art. 18 si pone come norma speciale rispetto a quella generale contenuta,nel comma 1 là dove si parla di altri casi di nullità previsti dalla legge.

3.6. La tesi - qui confermata - della nullità del licenziamento intimato prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto non presenta le controindicazioni ipotizzate da talune voci di dottrina.

Non si ravvisa quella secondo cui addosserebbe al datore di lavoro un onere eccessivo, vale a dire quello dell'esatto calcolo del comporto massimo applicabile al singolo caso: a parte il rilievo che in ogni ipotesi di recesso diverso da quello ad nutum il datore di lavoro sopporta il rischio d'un licenziamento viziato da un'erronea valutazione dello stato di fatto e/o di diritto che lo consenta (sicchè non si comprende perchè la soluzione dovrebbe qui essere difforme), basti osservare che eventuali incertezze a riguardo possono essere superate prudenzialmente attendendo una sicura verifica e, se del caso, posticipando la decisione al rientro del lavoratore.

Infatti, come questa S.C. ha già avuto modo di statuire (cfr. Cass. n. 18411/16; Cass. n. 24899/11), fermo restando il potere datoriale di recedere non appena esaurito il periodo comporto e, quindi, anche prima del rientro al lavoro del dipendente, nondimeno il datore di lavoro ha altresì la facoltà di attendere tale rientro per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del lavoratore all'interno dell'assetto organizzativo, se del caso mutato, dell'azienda.

Ne deriva che solo a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore l'eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinunciare all'esercizio del potere di licenziamento e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente.

Nè un'eventuale errore di calcolo del termine massimo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva - errore che abbia indotto il datore di lavoro ad anticipare il licenziamento rispetto al reale momento di esaurimento di tale periodo - impedisce che il licenziamento, nullo, possa poi essere tempestivamente rinnovato una volta che le assenze del lavoratore effettivamente superino il termine massimo di conservazione del posto di lavoro.

Infatti, all'interno della stessa giurisprudenza che afferma la nullità - e non la mera inefficacia - del licenziamento intimato prima che il periodo di comporto si sia esaurito, emerge altresì la statuizione che consente il rinnovo dell'atto di recesso una volta che sopraggiunga la scadenza del temine massimo di comporto, atteso che il nuovo licenziamento, risolvendosi in un negozio diverso dal precedente, esula dal divieto di cui all'art. 1423 cod. civ. (cfr. Cass. n. 24525/14).

4.1. L'accoglimento del primo motivo del ricorso principale assorbe la disamina del secondo e del terzo.

5.1. Il ricorso incidentale è inammissibile per mancanza di interesse.

Infatti, essendo indirizzato non già contro una statuizione della sentenza di merito (che ha visto totalmente vittoriosa la S.p.A. Banco di Sardegna), ma solo contro il passaggio motivazionale in cui la Corte territoriale calcola il periodo di comporto, risulta proposto in difetto di quella soccombenza che costituisce il presupposto indispensabile dell'impugnazione (cfr., da ultimo e per tutte, Cass. n. 22095/17), non potendo impugnarsi una pronuncia giurisdizionale al solo fine di correggerne la motivazione (cfr., ex aliis, Cass. n. 18674/11; Cass. n. 14970/07; Cass. n. 6601/05; Cass. n. 9637/01; Cass. n. 8924/98).

Nè la carenza di interesse viene meno sol per l'accoglimento del primo motivo del ricorso principale, atteso che in tal caso il ricorrente incidentale ha la facoltà di riproporre al giudice del rinvio le questioni non accolte o ritenute assorbite dalla sentenza cassata (cfr., ancora da ultimo e per tutte, Cass. n. 22095/17, cit.).

6.1. In conclusione, accolto il primo motivo del ricorso principale, vanno dichiarati assorbiti il secondo e il terzo, mentre deve dichiararsi inammissibile il ricorso incidentale.

Per l'effetto, si cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e si rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Cagliari in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto:

"Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110 cod. civ., comma 2".


giovedì 24 maggio 2018

Quali poteri sono riconosciuti agli ispettori del lavoro?



In base all'art. 3 del DL 1983 n. 463

 [1] 1. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 5 della legge 22 luglio 1961, n. 628 , ai funzionari dell'Istituto nazionale della previdenza sociale, dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, dell'Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo, del Servizio per i contributi agricoli unificati, degli altri enti per i quali sussiste la contribuzione obbligatoria, addetti alla vigilanza, nonché gli addetti alla vigilanza presso gli ispettorati del lavoro, sono conferiti i poteri:





a) di accedere a tutti i locali delle aziende, agli stabilimenti, ai laboratori, ai cantieri ed altri luoghi di lavoro, per esaminare i libri di matricola e paga, i documenti equipollenti ed ogni altra documentazione, compresa quella contabile, che abbia diretta o indiretta pertinenza con l'assolvimento degli obblighi contributivi e l'erogazione delle prestazioni;




b) di assumere dai datori di lavoro, dai lavoratori, dalle rispettive rappresentanze sindacali e dagli istituti di patronato, dichiarazioni e notizie attinenti alla sussistenza di rapporti di lavoro, alle retribuzioni, agli adempimenti contributivi e assicurativi e alla erogazione delle prestazioni.




[2] 2. I soggetti di cui al comma precedente possono anche esercitare gli altri poteri spettanti in materia di previdenza e assistenza sociale agli ispettori del lavoro, ad eccezione di quello di contestare contravvenzioni, e debbono, a richiesta, presentare un documento di riconoscimento rilasciato dagli istituti di appartenenza. Essi devono porre la data e la firma sotto l'ultima scritturazione del libro paga e matricola e possono estrarne copia controfirmata dal datore di lavoro.

3. I datori di lavoro e i loro rappresentanti, che impediscano ai funzionari dell'ispettorato del lavoro e ai soggetti indicati nel precedente comma 1 l'esercizio dei poteri di vigilanza di cui al presente articolo, sono tenuti a versare alle Amministrazioni da cui questi dipendono, a titolo di sanzione amministrativa, una somma da L. 500.000 a lire 5 milioni, ancorché il fatto costituisca reato. Qualora forniscano scientemente dati errati o incompleti, che comportino evasione contributiva, i datori di lavoro e i loro rappresentanti sono tenuti a versare alle Amministrazioni stesse, a titolo di sanzione amministrativa, una somma pari a L. 500.000 per ogni dipendente cui si riferisce l'inadempienza, ancorché il fatto costituisca reato.

4. A richiesta di uno degli enti di cui al precedente comma 1, l'amministrazione che ha proceduto a redigere un verbale ispettivo è tenuta ad inviarne copia congiuntamente ad ogni altra notizia utile.

5. I soggetti di cui al precedente comma 1 sono tenuti ad osservare il segreto sui processi e sopra ogni altro particolare di lavorazione che venisse a loro conoscenza. La violazione di tale obbligo è punita con la pena stabilita dall'articolo 623 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato.

6. L'ispettorato provinciale del lavoro esercita i poteri di coordinamento ad esso attribuiti anche mediante programmi annuali per la repressione delle evasioni contributive in materia di previdenza e assistenza sociale obbligatoria, sentiti gli istituti interessati. L'ispettorato provinciale del lavoro riferisce annualmente al Ministro del lavoro e della previdenza sociale sull'attività di coordinamento effettuata .
....

8 Ai soggetti di cui al comma 1 del presente articolo non compete la qualifica di ufficiale o di agente di polizia giudiziaria.

mercoledì 23 maggio 2018

Il dipendente pubblico può stipulare in corso del rapporto con privati rapporti di lavoro intermittente?

Cass. 30/11/2017, n. 28797

L'obbligo di esclusività, che caratterizza il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, trova il suo fondamento nell'art. 98 Cost. ed è disciplinato dall'art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957, norma che individua, tra le ipotesi di incompatibilità, l'assunzione di "impieghi alle dipendenze di privati", cui è riconducibile anche la instaurazione di un rapporto di lavoro intermittente, restando irrilevante che le prestazioni, rese a titolo oneroso nell'ambito di tale rapporto, non siano state di fatto retribuite per inadempimento del datore di lavoro. (Rigetta, CORTE D'APPELLO TORINO, 10/11/2015)

martedì 22 maggio 2018

Come deve essere formulato il dissenso contro il giudizio espresso dal CTU nel procedimneto ex art. 445 bis cpc?

Come indicato dal Tribunale di Roma sentenza del 04-04-2017

il giudizio previsto ai sensi dell'art. 445 bis, comma 6, c.p.c. a seguito del deposito dell'atto di dissenso è instaurato al fine di contestare le conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, con la conseguenza che l'oggetto può essere esclusivamente la richiesta di pervenire ad un accertamento sanitario difforme (totalmente o anche solo parzialmente) da quello contenuto nella c.t.u.

Questo giudizio (o meglio questa seconda ed eventuale fase del giudizio di primo grado in materia di accertamento sanitario) ha un carattere esclusivamente impugnatorio, tanto che la mancata specificazione dei motivi di contestazione della c.t.u. impone al giudice di emettere una sentenza di carattere processuale di inammissibilità.

Ovviamente, deve ritenersi che tra i motivi di contestazione delle conclusioni della c.t.u. possano farsi rientrare sia quelle doglianze sostanziali, più direttamente attinenti ad errori di giudizio commessi dal consulente nella valutazione clinica, sia quelle censure attinenti a vizi formali del procedimento che ha condotto il consulente a depositare la perizia e le conclusioni ivi contenute.

Anche se il principio della specificità dei motivi di contestazione non si presta ad una definizione generale, astratta e assoluta, dovendo piuttosto essere correlato alla motivazione della consulenza impugnata, esso postula in ogni caso che la manifestazione volitiva del ricorrente deve essere formulata in modo da consentire d'individuare con chiarezza le statuizioni investite dall'opposizione e le specifiche critiche indirizzate alla motivazione, dovendo contenere l'indicazione, ancorché in forma succinta, degli "errores" o dei vizi attribuiti alla consulenza censurata, i quali vanno correlati alla motivazione di questa ultima.

lunedì 21 maggio 2018

Come disciplina i cambi di appalto il ccnl Uneba?



Art. 73 Appalti - Cambi di gestione

In considerazione del fatto che il settore di cui trattasi è fortemente caratterizzato dalla effettuazione del servizio tramite contratti d’appalto ed è soggetto a rilevanti cambiamenti sul piano della gestione, le parti, sottolineando la necessità di operare, ai diversi livelli, ivi compresi quelli istituzionali, ai fini di perseguire la continuità e le condizioni di lavoro acquisite, concordano quanto segue: 

a) la parte datoriale, nel caso di cessazione della gestione dell’attività o servizio o di parte di questi ne darà formale, preventiva e tempestiva informazione alle rappresentanze sindacali dell’Istituzione e alle OO.SS. territoriali; 
b) la parte datoriale subentrante, in quanto applicante il CCNL UNEBA, anch’essa con la massima tempestività possibile e comunque prima del verificarsi dell’evento darà a sua volta formale notizia alle OO.SS. territoriali circa l’inizio della nuova gestione e si impegna a garantire le condizioni economiche già percepite da ogni singola lavoratrice o lavoratore derivanti dall’applicazione del CCNL, ivi compresi gli scatti di anzianità. 

In caso di modifiche o mutamenti significativi nell’Organizzazione del lavoro o nelle modalità di servizio o nelle tecnologie produttive o scelte, anche da parte del committente, comportanti eventuali ripercussioni sul dato occupazionale, le parti attiveranno un confronto finalizzato alla ricerca delle soluzioni più idonee.

sabato 19 maggio 2018

Quali documenti devono essere consegnati al momento dell'assunzione secondo il contratto cooperative sociali?

Art. 24 DOCUMENTI DI LAVORO 

Nel rispetto di quanto previsto dal D.lgs. n.196 del 2003 e dal DPR n. 445 del 2000 e successive modificazioni e/o integrazioni, all'atto dell'assunzione la lavoratrice e il lavoratore dovrà presentare o consegnare i seguenti documenti: 
- scheda anagrafica e professionale (in sostituzione libretto di lavoro e certificato di iscrizione al collocamento); 
- stato di famiglia; 
- residenza anagrafica; 
- libretto di idoneità sanitaria (ove previsto); 
- fotocopia di codice fiscale; 
- fotocopia documento di riconoscimento valido; 
- certificato di iscrizione all'albo/ordine professionale (se obbligatorio); 
- eventuale libretto di pensione; 
- certificato che attesta il grado di istruzione e di qualifica.

 E’ ammessa l’autocertificazione per i documenti ove previsto da norme di legge. La lavoratrice e il lavoratore dovrà comunicare ogni variazione rispetto ai documenti e ai dati forniti all'atto dell'assunzione.

giovedì 17 maggio 2018


Quali sono le materie che possono essere disciplinate dal contratto territoriale nel ccnl cooperative sociali?

2. Il Contratto Territoriale a.
Competenze e procedure Le parti ritengono che la contrattazione di 2° livello sia uno strumento importante che può concorrere a migliorare sempre di più la qualità dei servizi offerti dalla cooperazione sociale nel settore socio sanitario assistenziale e educativo e di inserimento lavorativo. Si conferma quindi la necessità di individuare, incrementare, rendere accessibili, tutte le misure volte ad incentivare, anche attraverso la riduzione degli oneri a carico della cooperativa, la contrattazione di secondo livello collegando incentivi economici al raggiungimento di obiettivi di qualità, produttività, redditività, ai fini del miglioramento della competitività dell'impresa. Le parti si danno reciprocamente atto che il contratto territoriale richiede nel settore il perseguimento di omogeneità in ambito regionale, per garantire un corretto sviluppo del mercato congiuntamente al miglioramento delle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori. Il contratto territoriale potrà essere di livello provinciale o sub-regionale o regionale; tali livelli sono tra loro alternativi.
 Il contratto territoriale si applica, salvo quanto previsto dall'art. 77, in maniera vincolante alle cooperative operanti nel territorio di competenza del medesimo contratto, relativamente alle attività svolte in quel territorio, ancorché la sede legale sia altrove. Il contratto territoriale riguarda materie ed istituti non ripetitivi rispetto a quelli propri del contratto nazionale.
Tale contrattazione, pertanto, verrà svolta nel rispetto delle specifiche clausole di rinvio previste dal presente contratto ed ha competenza nel definire l'Elemento Retributivo Territoriale. In conseguenza di ciò le materie di competenza del Contratto Territoriale sono esclusivamente le seguenti:
 1. definizione delle modalità atte a permettere l'accesso delle lavoratrici e dei lavoratori interessati alle attività di qualificazione, riqualificazione e aggiornamento professionale nel rispetto di quanto previsto dall'art. 70;
 2. utilizzo del mezzo proprio di trasporto, per ragioni di servizio (Art.46);
3. attività di soggiorno (art.83);
 4. inquadramento profili professionali non specificatamente indicati tra i profili esemplificativi del sistema di classificazione di cui all'articolo 47, garantendo la coerenza con lo stesso;
5. Elemento Retributivo Territoriale.
Il contratto territoriale ha durata triennale, si intende tacitamente rinnovato qualora non sia disdettato almeno due mesi prima della scadenza. La titolarità del contratto territoriale è delle rispettive rappresentanze territoriali delle parti firmatarie del presente contratto. Le richieste di rinnovo di contratti in scadenza o di prima definizione della contrattazione di secondo livello, ai sensi del presente rinnovo contrattuale, saranno fatte pervenire dalle Organizzazioni Sindacali titolari alle rispettive rappresentanze delle Associazioni Cooperative non prima delle 31 marzo 2012 e non oltre il 30 giugno 2012. Entro nove mesi dalla firma del Ccnl, ove non si sia già provveduto, a livello regionale, in appositi incontri tra le OO.SS e le Associazioni Cooperative, si procederà alla verifica degli ambiti territoriali per i quali verrà realizzata la negoziazione territoriale. Nel caso di conferma o prima definizione della negoziazione territoriale a livello provinciale e/o sub regionale, verranno previsti modi e strumenti per un coordinamento regionale delle varie fasi negoziali. L'impegno comune delle parti è che il confronto sulle piattaforme rivendicative e la conclusione dello stesso si realizzi nei tempi più celeri possibili, garantendo, per i due mesi successivi alla presentazione delle richieste di rinnovo e per il mese successivo alla scadenza dell'accordo, e comunque per 3 mesi dalla presentazione delle richieste di rinnovo, che le parti non assumeranno iniziative unilaterali, né procederanno ad azioni dirette. Qualora si creassero nel confronto, condizioni di mancata realizzazione degli accordi, le parti, congiuntamente, potranno richiedere la mediazione da parte, rispettivamente, della struttura nazionale per le contrattazioni regionali e delle strutture regionali per le contrattazioni provinciali o sub regionali. Il Contratto di secondo livello potrà prevedere procedure di monitoraggio di alcuni istituti e degli effetti dell'accordo stesso, da affidare agli osservatori competenti.

mercoledì 16 maggio 2018


La clausola sociale nei contratti pubblici che limiti deve avere?


Cons. Stato Sez. V, 17/01/2018, n. 272

La c.d. clausola sociale deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall'art. 41 Cost., che sta a fondamento dell'autogoverno dei fattori di produzione e dell'autonomia di gestione propria dell'archetipo del contratto di appalto, sicché tale clausola deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente. Conseguentemente l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore subentrante. I lavoratori, che non trovano spazio nell'organigramma dell'appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali.

martedì 15 maggio 2018

Come si determina l'ammontare dell'indennità di maternità?

Cass. 11/05/2018, n. 11414

Ai fini della determinazione dell'indennità di maternità, la disciplina di riferimento è contenuta nel D.Lgs. 26 marzo 2001 n. 151; la norma stabilisce una specifica disciplina di calcolo, prevedendo espressamente che la "retribuzione parametro", da prendere a riferimento per determinare, nella misura dell'80% di essa, l'indennità medesima sia costituita dalla retribuzione media globale giornaliera che si ottiene dividendo per trenta l'importo "totale della retribuzione del mese precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo.

In particolare in forza dell'art. 23 del Dlgs 2001 n. 151

1. Agli effetti della determinazione della misura dell'indennità, per retribuzione s'intende la retribuzione media globale giornaliera del periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto ed immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo di maternità.


2. Al suddetto importo va aggiunto il rateo giornaliero relativo alla gratifica natalizia o alla tredicesima mensilità e agli altri premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati alla lavoratrice.


3. Concorrono a formare la retribuzione gli stessi elementi che vengono considerati agli effetti della determinazione delle prestazioni dell'assicurazione obbligatoria per le indennità economiche di malattia.


4. Per retribuzione media globale giornaliera si intende l'importo che si ottiene dividendo per trenta l'importo totale della retribuzione del mese precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo. Qualora le lavoratrici non abbiano svolto l'intero periodo lavorativo mensile per sospensione del rapporto di lavoro con diritto alla conservazione del posto per interruzione del rapporto stesso o per recente assunzione si applica quanto previsto al comma 5, lettera c).


5. Nei confronti delle operaie dei settori non agricoli, per retribuzione media globale giornaliera s'intende:

a) nei casi in cui, o per contratto di lavoro o per la effettuazione di ore di lavoro straordinario, l'orario medio effettivamente praticato superi le otto ore giornaliere, l'importo che si ottiene dividendo l'ammontare complessivo degli emolumenti percepiti nel periodo di paga preso in considerazione per il numero dei giorni lavorati o comunque retribuiti;
b) nei casi in cui, o per esigenze organizzative contingenti dell'azienda o per particolari ragioni di carattere personale della lavoratrice, l'orario medio effettivamente praticato risulti inferiore a quello previsto dal contratto di lavoro della categoria, l'importo che si ottiene dividendo l'ammontare complessivo degli emolumenti percepiti nel periodo di paga preso in considerazione per il numero delle ore di lavoro effettuato e moltiplicando il quoziente ottenuto per il numero delle ore giornaliere di lavoro previste dal contratto stesso. Nei casi in cui i contratti di lavoro prevedano, nell'ambito di una settimana, un orario di lavoro identico per i primi cinque giorni della settimana e un orario ridotto per il sesto giorno, l'orario giornaliero è quello che si ottiene dividendo per sei il numero complessivo delle ore settimanali contrattualmente stabilite;
c) in tutti gli altri casi, l'importo che si ottiene dividendo l'ammontare complessivo degli emolumenti percepiti nel periodo di paga preso in considerazione per il numero di giorni lavorati, o comunque retribuiti, risultanti dal periodo stesso.



lunedì 14 maggio 2018

Come è disciplinato il lavoro intermittente nel ccnl dipendenti aziende e cooperative esercenti attività nel settore servizi Cisal.

Art. 67 - Lavoro intermittente: forma e comunicazioni - 

Il contratto di lavoro intermittente deve essere stipulato in forma scritta e la lettera di assunzione deve indicare i seguenti elementi: 
a. la durata e le ipotesi, oggettive o soggettive, che consentono la stipulazione del contratto; 
b. il luogo e la modalità della disponibilità, eventualmente garantita dal Lavoratore, e del relativo preavviso di chiamata del Lavoratore che in ogni caso non può essere inferiore a un giorno lavorativo; 
c. il trattamento economico e normativo spettante al Lavoratore per la prestazione eseguita e la relativa indennità di disponibilità, ove prevista; 
d. le forme e modalità con cui il Datore di lavoro è legittimato a richiedere l'esecuzione della prestazione di lavoro, nonché le modalità di rilevazione della prestazione; 
e. i tempi e le modalità di pagamento della retribuzione e della indennità di disponibilità; 
f. le eventuali misure di sicurezza specifiche necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto. 

Il Datore di lavoro è tenuto ad informare con cadenza annuale le rappresentanze sindacali aziendali, ove esistenti, sull'andamento del ricorso al contratto di lavoro intermittente. 
Ai sensi dell’Art. 1, comma 21, lettera b) della Legge 92/2012, il Datore di lavoro deve comunicare alla Direzione Territoriale del Lavoro competente l’inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a 30 giorni. Le modalità utilizzate per la comunicazione potranno essere mediante fax, sms, posta elettronica od ulteriori modalità stabilite dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ed il Ministero della Pubblica Amministrazione e la Semplificazione, pena l’applicazione delle sanzioni amministrative previste. 

Art. 68 - Lavoro Intermittente: condizioni - 

Il Lavoratore intermittente deve ricevere, per i periodi lavorati ed a parità di mansioni svolte, un trattamento economico complessivamente uguale rispetto ai Lavoratori di pari livello. I trattamenti saranno proporzionati in base alla prestazione lavorativa effettivamente eseguita, in particolare: 
a. per le indennità di malattia, infortunio, indennità di maternità e congedi parentali; 
b. per le mensilità o le retribuzioni differite e le ferie. 

In deroga alle previsioni contrattuali sui periodi minimi di lavoro per la maturazione dei ratei, esse saranno riconosciute nella misura di 1:1904 per ciascuna ora effettivamente lavorata [(365- 52- 52- 20- 3)x8]; c. il T.F.R. (Trattamento di Fine Rapporto) sarà calcolato sugli importi effettivamente erogati con stabilità al netto di eventuali rimborsi spese e delle indennità correlate agli specifici modi della prestazione, quali indennità di viaggio, lavoro straordinario o notturno e indennità di cassa o di maneggio denaro. 

Art. 69 - Lavoro Intermittente: indennità di disponibilità - 

Qualora il Lavoratore, a richiesta del Datore, s’impegni a restare a disposizione in attesa della chiamata, garantendo quindi la sua prestazione lavorativa in caso di necessità del Datore stesso, quest’ultimo è tenuto a corrispondergli mensilmente un’”indennità di disponibilità” che non può essere inferiore al 20% della Retribuzione Mensile Normale (RMN). Con il contratto individuale, che dovrà essere in forma scritta, saranno stabilite le modalità di pagamento dell'indennità di disponibilità. 
Il Lavoratore che, per malattia od altra causa, sia nell'impossibilità di rispondere alla chiamata, salvo provata forza maggiore, deve informare tempestivamente e, comunque, non oltre 8 ore dall’inizio dell’impedimento, il Datore di lavoro, precisando la prevedibile durata dell’impedimento. 

Se il Lavoratore non informa il Datore di lavoro nei termini anzidetti, il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata è compreso nella fattispecie dell’assenza ingiustificata, ed esperite le procedure ex Art. 7 L. 300/70 il Lavoratore, quale sanzione, potrà perdere il diritto all’indennità di disponibilità con eventuale richiesta del Datore di lavoro del risarcimento del danno eventualmente arrecato, salva diversa previsione del contratto individuale. Nel periodo di temporanea indisponibilità, per qualsiasi causa dovuta, il Lavoratore non matura il diritto all’indennità di disponibilità.
 L'indennità di disponibilità è soggetta a contribuzione previdenziale ma è esclusa dal computo delle retribuzioni dovute per mensilità differite, festività e ferie e non è utile nella determinazione del TFR. 

Art. 70 - Lavoro Intermittente: divieti e condizioni - 

L’Azienda non può ricorrere al lavoro a chiamata nei seguenti casi: 
1. qualora il Datore di lavoro non abbia effettuato la valutazione dei rischi (D. Lgs. 81/2008); 
2. al fine di sostituire Lavoratori in sciopero; 
3. quando abbia proceduto a licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nelle identiche mansioni, nei 3 mesi precedenti l'assunzione di collaboratore intermittente; 
4. quando siano in corso, per identiche mansioni, riduzioni dell’orario di lavoro con ricorso all’integrazione salariale in deroga, ordinaria o straordinaria.

venerdì 11 maggio 2018



Quali comportamenti possono concretare insubordinazione?


Cass. 27/03/2017, n. 7795


La nozione di insubordinazione, nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto atto di insubordinazione, suscettibile di legittimare il licenziamento, l'ingerenza indebita della lavoratrice nell'organizzazione aziendale, manifestatasi nell'imposizione ai dipendenti di direttive, non discusse né concordate con la direzione aziendale, con modalità comportamentali dirette a contestare pubblicamente il potere direttivo del datore di lavoro). (Rigetta, CORTE D'APPELLO BOLOGNA, 19/08/2014)

giovedì 10 maggio 2018

Quando un contratto di agenzia può essere qualificato quale rapporto di lavoro subordinato?



Cass. 01/03/2018, n. 4884

L'elemento distintivo tra il rapporto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato va individuato nella circostanza che il primo ha per oggetto lo svolgimento, in favore del preponente, di un'attività economica esercitata in forma imprenditoriale, con organizzazione di mezzi e assunzione del rischio da parte dell'agente, che si manifesta nell'autonoma scelta dei tempi e dei modi della stessa, pur nel rispetto, ex art. 1746 c.c., delle istruzioni ricevute dal preponente. Costituisce, invece, oggetto del rapporto di lavoro subordinato, la prestazione, in regime di subordinazione, di energie lavorative, il cui risultato rientra esclusivamente nella sfera giuridica dell'imprenditore, che sopporta il rischio dell'attività svolta. Elemento essenziale, e come tale indefettibile, del rapporto di lavoro subordinato, e criterio discretivo rispetto a quello di lavoro autonomo, è dato dalla soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro; in mancanza, ove tale elemento non sia agevolmente apprezzabile, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad ulteriori elementi, aventi tuttavia carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria. (Nel caso concreto la gravata pronuncia non merita censura, avendo il Giudice di appello correttamente individuato gli elementi indiziari dotati di efficacia probatoria sussidiaria ai fini della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, tenuto conto dei parametri normativi del lavoro subordinato ed autonomo e del discrimine tra gli stessi.)

mercoledì 9 maggio 2018

L'amministratore che partecipa abitualmente al lavoro della propria società commerciale deve iscriversi sia alla gestione separata sia alla gestione commercianti?



Cass. 04-05-2018, n. 10763


Con sentenza n. 1904/2011, la Corte d'appello di Palermo in riforma della sentenza di primo grado accoglieva il ricorso di P.P. avverso la cartella esattoriale emessa dall'INPS per il pagamento dei contributi dovuti alla Gestione esercenti attività commerciali, nella compresenza della sua iscrizione alla gestione separata di cui alla L. n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, in quanto socio amministratore della Edilegno srl;

a fondamento della pronuncia la Corte sosteneva, in diritto, che l'interpretazione corretta della L. n. 662 del 1996,art. 1, commi 202 e 208, come convalidata dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione numero 3240/2010, portasse ad escludere che il socio di S.r.l. che partecipi personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza e nel contempo sia amministratore della medesima, percependo un apposito compenso, fosse tenuto ad iscriversi presso entrambe le gestioni previdenziali interessate (gestione commercianti e gestione separata), ma dovesse iscriversi solo ad una delle due gestioni e cioè a quella di competenza per l'attività svolta in via prevalente;

in fatto la Corte rileva che nel caso di specie l'Inps pretendesse la contribuzione sulla sola base della formale posizione di socio rivestita dal P., mancando non solo la mera allegazione e prova dell'eventuale disimpegno di compiti operativi, ma la stessa istruzione testimoniale richiamata in primo grado quale unico supporto della decisione aveva confermato che l'appellante svolgesse solo i compiti di gestione che l'incarico di amministratore comporta in base alla recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione numero 3240 del 2010;

avverso tale pronuncia l'INPS ha ricorso per cassazione con un motivo di censura con il quale denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 203 e 208, come interpretato dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, comma 11, convertito in L. 30 luglio 2010, n. 122; nonchè il vizio di motivazione per avere il giudice di secondo grado ritenuto che l'Istituto non avesse dimostrato il requisito della partecipazione personale al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza pur essendo emerso in giudizio di primo grado in base alle dichiarazioni testimoniali che il P. "passava più volte alla settimana per dare le direttive e verificare il corretto andamento dell'attività e non svolgeva altre attività";

che P.P. resiste con controricorso.
Motivi della decisione

CHE:

il ricorso è infondato, posto che in seguito all'emanazione della norma interpretativa sopraindicata - come ricordato dalla Corte di merito - le Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 17076/2011, hanno riconosciuto, per un verso, la legittimità della doppia iscrizione (alla gestione separata ed alla gestione commercianti) del socio amministratore di srl che partecipi con abitualità e prevalenza al lavoro aziendale; e per altro verso, hanno escluso che la normativa in questione, a cagione della sua portata interpretativa, contrasti con i principi costituzionali e con quelli dettati dalla Convenzione EDU; fissando nella stessa sentenza i seguenti principi di diritto: "Il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, comma 11, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, art. 1, comma 1 - che prevede che la L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 208, si interpreta nel senso che le attività autonome, per le quali opera il principio di assoggettamento va prevista per l'attività prevalente, sono quelle esercitate in forma d'impresa dai commercianti, dagli artigiani e dai coltivatori diretti, i quali vengono iscritti in una delle corrispondenti gestioni dell'INPS, mentre restano esclusi dall'applicazione della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 208, i rapporti di lavoro per i quali è obbligatoriamente prevista l'iscrizione alla gestione previdenziale di cui alla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 2, comma 26, - costituisce disposizione dichiaratamente ed effettivamente di interpretazione autentica, diretta a chiarire la portata della disposizione interpretata, e pertanto, in quanto tale, non è lesiva del principio del giusto processo di cui all'art. 6 CEDU, trattandosi di legittimo esercizio della funzione legislativa garantita dall'art. 70 Cost.. b) In caso di esercizio di attività in forma d'impresa ad opera di commercianti, o artigiani, o coltivatori diretti, contemporaneamente all'esercizio di attività autonoma per la quale è obbligatoriamente prevista l'iscrizione alla gestione previdenziale separata di cui alla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 2, comma 26, non opera l'unificazione della contribuzione sulla base del parametro dell'attività prevalente, quale prevista dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 208";

la norma di interpretazione autentica è stata poi scrutinata positivamente anche dalla Corte Cost. (sentenza n. 15/2012) adita dai giudici di merito, ed anche tale sentenza ha escluso qualsiasi profilo di illegittimità costituzionale riconoscendo alla norma una portata effettivamente interpretativa e come tale un'efficacia naturalmente retroattiva;

una volta stabilito che per il socio amministratore di società che partecipi all'attività aziendale vi possa essere in via di principio la doppia iscrizione consentita dalla legge (anche in base alla nuova norma interpretativa), rimane sempre da accertare in concreto, in ogni singola fattispecie, il presupposto della partecipazione personale all'attività aziendale commerciale in modo abituale e prevalente ai fini dell'iscrizione alla gestione commercianti;

in materia occorre dare applicazione alla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 203, il quale a sua volta ha sostituito la L. 3 giugno 1975, n. 160, art. 29, comma 1, con il seguente disposto: "L'obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali di cui alla L. 22 luglio 1966, n. 613, e successive modificazioni ed integrazioni, sussiste per i soggetti che siano in possesso dei seguenti requisiti: a) siano titolari o gestori in proprio di imprese che, a prescindere dal numero dei dipendenti, siano organizzate e/o dirette prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la famiglia, ivi compresi i parenti e gli affini entro il terzo grado, ovvero siano familiari coadiutori preposti al punto di vendita; b) abbiano la piena responsabilità dell'impresa ed assumano tutti gli oneri ed i rischi relativi alla sua gestione. Tale requisito non è richiesto per í familiari coadiutori preposti al punto di vendita nonchè per i soci di società a responsabilità limitata; c) partecipino personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza; d) siano in possesso, ove previsto da leggi o regolamenti, di licenze o autorizzazioni e/o siano iscritti in albi, registri o ruoli".

secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte (tra le tante Cass. 8474/2017) - che ha riconsiderato in senso estensivo il punto già esaminato dalla sentenza della Sez. Unite 3240 del 12.2.2010- il requisito della partecipazione personale al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza, deve essere inteso in relazione ad un criterio non predeterminato di tempo e di reddito, da accertarsi in senso relativo e soggettivo, ossia facendo riferimento alle attività lavorative espletate dal soggetto considerato in seno alla stessa attività aziendale costituente l'oggetto sociale della srl (ovviamente al netto dell'attività esercitata in quanto amministratore); e non già comparativamente con riferimento a tutti gli altri fattori produttivi (naturali, materiali e personali) dell'impresa; tale tesi meglio si attaglia all'interpretazione più logica della norma volta a valorizzare l'elemento del lavoro personale, come peraltro affermato nella stessa sentenza delle Sezioni Unite 3240/2010; ed aderisce poi maggiormente alla ratio estensiva dell'obbligo assicurativo introdotto dal legislatore per i soci di srl con la norma in esame, evitando di restringere l'area di applicazione dell'assicurazione commercianti e di lasciare fuori di essa tutti i casi in cui l'attività del socio di srl, ancorchè rilevante ed abituale, non venga ritenuta preponderante rispetto agli altri fattori produttivi;

in base ai lavori preparatori, per come risulta anche dal parere (n. 926/1998), reso dal Consiglio di Stato su interpello del Ministero del Lavoro, la norma dettata dal comma 203 era finalizzata infatti ad eliminare, tra l'altro, i dubbi che erano stati sollevati a proposito dell'iscrizione nella gestione dei soci di srl e ad evitare che grazie allo schermo della struttura societaria la prestazione di lavoro resa dal socio nell'impresa sociale fosse sottratta alla contribuzione previdenziale; e nel contempo a superare la preesistente disparità di trattamento dei titolari di ditte individuali e dei soci di società di persone rispetto ai soci di società a responsabilità limitata;

in tale logica estensiva ed unificante diventa necessario considerare quindi la partecipazione al lavoro aziendale, ma, come già osservato da questa Corte (5360/2012) deve, altresì, precisarsi che, stante l'ampiezza della dizione usata dal legislatore, per partecipazione personale al lavoro aziendale deve intendersi non soltanto l'espletamento di un'attività esecutiva o materiale, ma anche di un' attività organizzativa e direttiva, di natura intellettuale, posto che anche con tale attività il socio offre il proprio personale apporto all'attività di impresa, ingerendosi direttamente ed in modo rilevante nel ciclo produttivo della stessa;

tuttavia la partecipazione personale al lavoro aziendale in modo abituale e prevalente (anche attraverso un'attività di coordinamento e direttiva) è cosa diversa e non può essere scambiata con l'espletamento dell'attività di amministratore per la quale il socio è iscritto alla gestione separata;

occorre distinguere perciò tra prestazione di lavoro ed attività di amministratore; e la distinzione delle due posizioni è alla base dei dati normativi di partenza posto che, appunto, la legge ai fini della iscrizione alla gestione commercianti richiede come titolo che il socio partecipi al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza; mentre qualora il socio si limiti ad esercitare l'attività di amministratore egli dovrà essere iscritto alla gestione separata;

non possono perciò confondersi, già sul piano logico giuridico, l'attività inerente al ruolo di amministratore con quella esercitata come lavoratore (neppure quando questa seconda attività si esplica al livello più elevato dell'organizzazione e della direzione); si tratta di attività che rimangono su piani giuridici differenti, dal momento che l'attività di amministratore si basa su una relazione di immedesimazione organica o al limite di mandato ex 2260 c.c.; e comporta, a seconda della concreta delega, la partecipazione ad una attività di gestione, l'espletamento di una attività di impulso e di rappresentanza che è rivolta ad eseguire il contratto di società assicurando il funzionamento dell'organismo sociale e sotto certi aspetti la sua stessa esistenza; laddove l'attività lavorativa è rivolta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, al suo raggiungimento operativo, attraverso il concorso dell'opera prestata a favore della società dai soci, e dagli altri lavoratori subordinati o autonomi;

nel caso in esame non solo non risulta che il P. partecipasse all'attività aziendale con un'attività di coordinamento o direttiva; ma nemmeno risulta che l'Inps avesse comprovato in ogni caso l'abitualità dell'attività espletata e la prevalenza della stessa attività; non potendo essere certamente considerato rilevante ai fini in discussione quanto attestato nella medesima sentenza impugnata ovvero che il P. "svolgeva solo i compiti di gestione che l'incarico di amministratore comporta"; considerato altresì che le diverse allegazioni in fatto riferite nel ricorso dell'Inps non solo non appaiono conformi al principio di autosufficienza dal momento che non trascrivono nè producono gli atti nei quali essi siano attestati; ma neppure deducono elementi decisivi ex art. 360 c.p.c., n. 5.



pertanto, in conclusione, nel caso in esame la sentenza impugnata si sottrae alle censure rivolte contro di essa; sicchè il ricorso deve essere respinto e le spese liquidate secondo soccombenza.

martedì 8 maggio 2018

Il lavoratore illegittimamente licenziato può richiedere danni ulteriori conseguenti? 


Cass: 02/05/2018, n. 10435

Nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, ove il licenziamento sia dichiarato illegittimo ed il datore di lavoro sia condannato al risarcimento dei danni nella misura legale, l'ammontare di tale risarcimento copre tutti i pregiudizi economici conseguenti alla perdita del lavoro e della relativa retribuzione. Ciò non esclude la possibilità per il lavoratore di fornire la prova di ulteriori danni, ivi compreso il danno biologico, che siano conseguenza solo mediata ed indiretta del licenziamento. Questo, infatti, non è in re ipsa ma va dimostrato e, solo ove tale prova sia data dal lavoratore, il giudice può liquidare il danno equitativamente. Il lavoratore deve, pertanto, assolvere l'onere di provare il verificarsi di comportamenti datoriali cui sia da addebitare, in ragione della loro gravità, la lesione del decoro e dell'integrità psicofisica, che devono inoltre essere supportati dall'elemento soggettivo della colpa grave o del dolo dello stesso datore di lavoro.

lunedì 7 maggio 2018



Il lavoratore deve svolgere lo straordinario sulla base delle previsioni del ccnl?







Cass. civ. Sez. lavoro, 29/07/2009, n. 17644 


In tema di prestazioni di lavoro straordinario, il principio secondo cui, essendo rimesso alla discrezionalità del datore di lavoro il potere di richiedere le dette prestazioni, grava sul lavoratore l'onere di provare, a giustificazione del proprio rifiuto di corrispondere alla richiesta, una inaccettabile arbitrarietà della medesima, avendosi altrimenti inadempimento sanzionabile disciplinarmente, non è applicabile nel caso in cui sia il datore di lavoro ad agire in giudizio per l'accertamento della legittimità della sanzione disciplinare, incombendo, in tal caso, su di lui l'onere di provare di aver esercitato il proprio potere discrezionale secondo le regole di correttezza e buona fede poste dagli artt. 1175 e 1375 cod. civ., nel contenuto determinato dall'art. 41, comma secondo, Cost. (Rigetta, App. Messina, 30/12/2005)




Cass. civ. Sez. lavoro, 05-08-2003, n. 11821 



Quando la contrattazione collettiva preveda la facoltà del datore di lavoro di richiedere prestazioni straordinarie, l'esercizio di tale facoltà deve intendersi affidato, in ragione dei poteri direzionali di questo e della corrispondente subordinazione del dipendente, alla discrezionalità dello stesso datore di lavoro, con la conseguenza che, secondo l'art. 2697 c.c., grava sul prestatore d'opera l'onere di provare, a giustificazione del rifiuto di corrispondere alla richiesta, una inaccettabile arbitrarietà della medesima. Detto rifiuto, se le prestazioni domandate sono contenute nei limiti di legge, può concretare un inadempimento sanzionabile disciplinarmente, a condizione che il potere discrezionale dell'imprenditore di richiedere la prestazione dello straordinario sia stato esercitato secondo le regole di correttezza e buona fede, poste dagli artt. 1175 e 1375 c.c.nel contenuto determinato dall'art. 41, secondo comma, Cost.

sabato 5 maggio 2018

Dopo un rapporto a tempo determinato di 36 mesi posso  stipularne uno nuovo?


In forza del comma terzo dell'art. 19 del dlgs 81 del 2015:


" Fermo quanto disposto al comma 2, un ulteriore contratto a tempo determinato fra gli stessi soggetti, della durata massima di dodici mesi, può essere stipulato presso la direzione territoriale del lavoro competente per territorio. In caso di mancato rispetto della descritta procedura, nonché di superamento del termine stabilito nel medesimo contratto, lo stesso si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data della stipulazione".

giovedì 3 maggio 2018

Ai fini dell'art. 2103 cc le ferie sono computabili?

Corte d'Appello Roma Sez. lavoro Sent., 19/03/2018

Ai fini del compimento del periodo di assegnazione a mansioni superiori, necessario per l'acquisizione del diritto alla cd. promozione automatica ai sensi dell'art. 2103 c.c., non possono essere computati il periodo di ferie e quello di sospensione dell'attività lavorativa a causa di malattia, dovendo invece tenersi conto dei riposi settimanali e dei riposi compensativi, che costituiscono parte integrante di un lavoro che si sta svolgendo con i suoi necessari momenti di pausa.

mercoledì 2 maggio 2018



Il dirigente può aver diritto agli straordinari?




Tribunale Milano Sez. lavoro Sent., 13/02/2018



La protrazione continuativa e quotidiana rispetto al normale orario di lavoro della prestazione da parte del dirigente costituisce, a tutti gli effetti, lavoro retribuito come straordinario sempre che l'anzidetta protrazione sia stata richiesta o autorizzata specificamente dal datore di lavoro. Peraltro, la prestazione del lavoro straordinario può essere richiesta dal datore di lavoro anche in maniera non esplicita, con la creazione di condizioni che lo rendano necessario, e con la mancata contestazione, una volta che dello stesso sia venuta conoscenza.