venerdì 30 aprile 2021

 Il licenziamento intimato per motivo illecito che conseguenze produce alla luce del dlgs 23 del 2015?


Tribunale Velletri Sez. lavoro 13/04/2021

In tema di contratto di lavoro subordinato a tutele crescenti, il licenziamento intimato per motivo illecito determinante, ai sensi dell'art. 1345 cod. civ., in quanto licenziamento nullo, rientra nel novero dei quei "…casi di nullità espressamente previsti dalla legge…" contemplati dall'art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 23 del 2015, con conseguente applicazione della sanzione della reintegrazione del lavoratore licenziato nel posto di lavoro.

giovedì 29 aprile 2021

 Come è ripartito l'onere probatorio del danno in caso di violazione dell'art. 2087 cc?




T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, 22/04/2021, n. 4750

Nel caso di domanda di risarcimento, danni iure hereditatis, per violazione dell'art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro pubblico o privato che sia, di adottare tutte le misure idonee e necessarie per tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro , la matrice contrattuale di tale forma di responsabilità comporta a carico del lavoratore la prova di aver subito un pregiudizio alla salute in dipendenza dell'attività lavorativa svolta, e a causa della nocività dell'ambiente di lavoro, e conseguentemente insorge per il datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e della non riconducibilità della malattia del dipendente all'inosservanza di tali obblighi.

mercoledì 28 aprile 2021

 


Quali sono le conseguenze in caso di vizi procedurali del licenziamento collettivo?



Cass. 26/04/2021, n. 10992

In tema di licenziamento, nel caso di illegittimità del licenziamento collettivo, per la non corrispondenza al modello legale della comunicazione stabilita dall'art. 4, comma 9 della L. 23 luglio 1991 n. 223, che costituisce "violazione delle procedure", è applicabile la tutela indennitaria prestabilita dall'art. 4, comma 9 della L. 23 luglio 1991 n. 223, che costituisce dal novellato testo dell'art. 18, comma 7, terzo periodo della L. 20 maggio 1970 n. 300, quantificabile tra dodici e ventiquattro mensilità, previa dichiarazione di risoluzione del rapporto alla data del licenziamento. Il caso di inosservanza dei criteri di scelta, illegittimi per violazione di legge ovvero perché applicati in difformità dalle previsioni legali o collettive, comporta, invece, l'annullamento del licenziamento, con la condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria in misura non superiore a dodici mensilità, a norma dell'art. 18, comma 4 della L. 20 maggio 1970 n. 300.

martedì 27 aprile 2021

 Quando è dovuta l'Irap?


Cass. 22/04/2021, n. 10710

L'attività del commercialista non è soggetta a IRAP se manca l'autonoma organizzazione che sussiste solo se il professionista adopera beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile ovvero ricorre in modo non occasionale al lavoro di terzi; il che accade perché la capacità produttiva aggiuntiva rispetto a quella personale del professionista sconta l'imposizione per il "surplus" di quanto ottenuto in ragione di una struttura organizzativa che sia servente rispetto all'opera intellettuale svolta con le proprie conoscenze e gli strumenti minimi indispensabili. Tale accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato.

lunedì 26 aprile 2021

 Il superminimo è assorbibile?



Cass. 16/04/2021, n. 10164

In tema di contratti di lavoro collettivi, il superminimo si ritiene assorbito dai miglioramenti retributivi previsti dalla contrattazione collettiva ovvero per il conseguimento di un inquadramento superiore: in tali evenienze il giudice di merito può ritenere superata detta presunzione in base alle acquisite risultanze istruttorie.

sabato 24 aprile 2021

 Da quando decorre la prescrizione dei contributi  della gestione separata?


Cass. 19/04/2021, n. 10273

La prescrizione dei contributi dovuti alla Gestione separata decorre dal momento in cui scadono i termini per il relativo pagamento e non già dalla data di presentazione della dichiarazione dei redditi ad opera del titolare della posizione assicurativa. L'obbligazione contributiva nasce infatti in relazione ad un preciso fatto costitutivo, che è la produzione di un certo reddito da parte del soggetto obbligato, mentre la dichiarazione che costui è tenuto a presentare ai fini fiscali, che è mera dichiarazione di scienza, non è presupposto del credito contributivo, così come non lo è rispetto all'obbligazione tributaria.

giovedì 22 aprile 2021

 Quando il dirigente con cariche sociali è un lavoratore subordinato?


Cass. 20 aprile 2021

Ai fini della qualificazione come lavoro subordinato del lavoro del dirigente - quando questi sia titolare di cariche sociali (perché preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale o di una branca o settore autonomo di essa), goda di ampi margini di autonomia ed il potere di direzione del datore di lavoro si manifesti non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma nell'emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico – è necessario verificare se il lavoro dallo stesso svolto possa comunque essere inquadrato all'interno della specifica organizzazione aziendale, individuando la caratterizzazione delle mansioni svolte, e se possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve od attenuata (cd. subordinazione attenuata), alle direttive, agli ordini ed ai controlli del datore di lavoro, nonché al coordinamento dell'attività lavorativa in funzione dell'assetto organizzativo aziendale.

mercoledì 21 aprile 2021

 Quando l'appalto di prestazione di servizi è illecito?



Cass. 16/04/2021, n. 10158

L'appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera è lecito purché il requisito dell'organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore, previsto dall'art. 29, D.Lgs. n. 276 del 2003, costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell'appaltatore, senza che l'appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell'appaltatore. Viceversa, si deve ravvisare un'interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo ed organizzativo sia interamente affidato al formale committente, restando irrilevante che manchi, in capo a quest'ultimo, l'intuitus personae nella scelta del personale, atteso che, nelle ipotesi di somministrazione illegale, è frequente che l'elemento fiduciario caratterizzi l'intermediario, il quale seleziona i lavoratori per poi metterli a disposizione del reale datore di lavoro.

martedì 20 aprile 2021

 Al lavoro volontario si applicano i ccnl ?


In forza dell’art. 2 della legge 381 del 1991 secondo cui:



1. Oltre ai soci previsti dalla normativa vigente, gli statuti delle cooperative sociali possono prevedere la presenza di soci volontari che prestino la loro attività gratuitamente.

2. I soci volontari sono iscritti in un'apposita sezione del libro dei soci. Il loro numero non può superare la metà del numero complessivo dei soci.

3. Ai soci volontari non si applicano i contratti collettivi e le norme di legge in materia di lavoro subordinato ed autonomo, ad eccezione delle norme in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, con proprio decreto, determina l'importo della retribuzione da assumere a base del calcolo dei premi e delle prestazioni relative.

4. Ai soci volontari può essere corrisposto soltanto il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate, sulla base di parametri stabiliti dalla cooperativa sociale per la totalità dei soci.

lunedì 19 aprile 2021

Chi può impugnare il licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta? 


Cass, 14/04/2021, n. 9828

In tema di licenziamento collettivo, il relativo annullamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell'art. 5 della legge n. 223 del 1991 non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto alla collocazione in mobilità dei lavoratori stessi.

venerdì 16 aprile 2021

L'impugnazione del licenziamento può essere fatta dal difensore? 



Cass. 13/04/2021, n. 9650

Dalla qualificazione giuridica dell'impugnazione L. n. 604 del 1966, ex art. 6, come atto negoziale se ne è tratta la conseguenza che alla stessa si applica, in forza del rinvio contenuto nell'art. 1324 c.c., la disciplina dettata dagli artt. 1387 c.c. e segg., in tema di rappresentanza.

Innanzitutto vige l'art. 1392 c.c., per il quale "la procura non ha effetto se non è conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere", sicchè è pacifico che la procura per impugnare L. n. 604 del 1966, ex art. 6, debba rivestire la forma scritta (tra molte: Cass. n. 8412 del 2000; Cass. n. 15888 del 2012; Cass. n. 9182 del 2014).

Pertanto il difensore, come ogni altro terzo, nel momento in cui impugna con qualsiasi atto idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore che rappresenta, deve essere munito di specifica procura scritta di data antecedente al compimento dell'atto stesso (cfr., fra le recenti, Cass. n. 25118 del 2017; Cass. n. 23603 del 2018; Cass. n. 1444 del 2019); altrimenti il suo operato, per rendere efficace l'impugnativa effettuata senza idonea procura, dovrà essere assoggettato al diverso regime della ratifica.

3.4. In questo secondo caso opera l'art. 1399 c.c., in base al quale colui che abbia negoziato come rappresentante senza averne i poteri o eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli (cfr. art. 1398 c.c.) potrà vedere ratificato il negozio dall'interessato "con l'osservanza delle forme prescritte per la conclusione di esso".

Tuttavia già nel 1987 le Sezioni unite prima ricordate hanno sancito che tale ratifica deve essere comunicata o notificata al datore di lavoro prima della scadenza del termine di decadenza e che, ove l'impugnativa sia proposta dal legale del lavoratore senza il rilascio da parte di quest'ultimo di specifica procura scritta, il successivo ricorso giudiziario, con la relativa procura al difensore stesso che abbia già posto in essere il detto atto, contenente la ratifica scritta del suo operato, deve essere notificato o comunicato al datore di lavoro nel termine di sessanta giorni.

Infatti l'art. 1399 c.c., deve essere applicato nelle sole parti compatibili con la funzione che l'ordinamento assegna agli atti unilaterali da compiersi entro un termine perentorio, sicchè si è esclusa la retroattività della ratifica prevista dal comma 2 della norma richiamata e si è affermato che la ratifica stessa può spiegare effetti solo qualora intervenga entro sessanta giorni dalla comunicazione del recesso, posto che "le esigenze di certezza sottese alla fissazione dei termini di prescrizione e decadenza non sono conciliabili con l'instaurazione di una situazione di pendenza suscettibile di protrarsi in maniera indeterminata, ben oltre la loro scadenza, e la cui durata rimarrebbe nell'esclusiva disponibilità del dominus" (Cass. n. 8262 del 1997 e negli stessi termini, fra altre, Cass. n. 2374 del 1998, Cass. n. 15888 del 2012, Cass. n. 9182 del 2014).

3.5. Tale ipotesi della ratifica, che deve essere comunicata o notificata al datore di lavoro entro il termine di decadenza di sessanta giorni, va tenuta distinta dall'ipotesi in cui il difensore che impugna è già munito di idonea procura del lavoratore.

In tale evenienza, concettualmente e giuridicamente differente dalla prima perchè in questo caso il rappresentante spende un potere di cui è dotato, si pone questione del se il difensore debba comunque portare a conoscenza del datore di lavoro la procura scritta nel termine di sessanta giorni, affinchè l'impugnativa possa produrre l'effetto di impedire la decadenza.

Va qui ribadito il principio secondo cui l'impugnativa stragiudiziale L. n. 604 del 1966, ex art. 6, comma 1, può efficacemente essere eseguita in nome e per conto del lavoratore dal suo difensore previamente munito di apposita procura, senza che il suddetto rappresentante debba comunicarla o documentarla al datore di lavoro nel termine di sessanta giorni, perchè, ferma la necessaria anteriorità della procura, è sufficiente che il difensore manifesti di agire in nome e per conto del proprio assistito e dichiari di avere ricevuto apposito mandato (in termini: Cass. n. 16416 del 2019; in tale aspetto conformi anche Cass. n. 3634 del 2017 e Cass. n. 1444 del 2019).

Infatti si è rilevato, in generale, che il rappresentante non è tenuto ad indicare, nel negozio che pone in essere, la fonte del potere rappresentativo di cui è investito, essendo sufficiente che egli manifesti di agire in nome e per conto altrui e non in proprio (cfr. Cass. n. 3449 del 1968; Cass. n. 1130 del 1981). Se il rappresentante "non è tenuto, nel momento in cui compie l'atto, ad indicare la fonte del potere di rappresentanza già preventivamente conferitogli, a maggior ragione non è obbligato a farlo in un secondo momento", perchè, "ove non si versi in tema di ratifica, viene meno qualsiasi aggancio normativo, teleologico o sistematico, per gravare il procuratore del lavoratore (e si noti soltanto costui rispetto alla generalità delle possibili ipotesi di rappresentanza nel diritto privato) dell'onere di dare esplicita contezza, senza che alcuno gliene abbia fatto richiesta, della fonte del potere conferitogli" (così Cass. n. 3634 del 2017 e Cass. n. 7866 del 2012).

Non è possibile, cioè, "configurare in capo al rappresentante un obbligo, non previsto dalla legge, di comunicazione della fonte costitutiva del potere, perchè l'esigenza di certezza sottesa alla fissazione di un termine di decadenza è già assicurata dalla dichiarazione del difensore di agire in nome e per conto del proprio assistito ed in forza di procura dallo stesso conferita" (Cass. n. 16416/2019 cit.).

Non contrastano efficacemente la conclusione qui condivisa alcuni precedenti di legittimità, anche richiamati dall'ordinanza interlocutoria della Sesta sezione, in quanto dall'esame delle fattispecie concrete emerge che al vaglio di questa Corte, in quei casi, vi erano ipotesi di ratifica, per le quali non è dubbio che l'atto che la contiene debba essere comunicato o notificato al datore di lavoro entro la scadenza del termine decadenziale (Cass. n. 15888 del 2012; Cass. n. 25118 del 2017).

Mentre non appare persuasiva Cass. n, 9182 del 2014, la quale esplicitamente ribadisce come anche la procura debba essere comunicata al datore di lavoro entro i sessanta giorni previsti dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 1, argomentando dalla inapplicabilità dell'art. 1393 c.c. che riguarderebbe l'ipotesi del "terzo che contratta col rappresentante", mentre "tale non può certo ritenersi il datore di lavoro che è privo di un potere negoziale a fronte dell'impugnativa del licenziamento".

Infatti la tesi è sostenuta sull'assunto che detta impugnativa "costituisce un atto giuridico (non negoziale) unilaterale tra vivi a carattere patrimoniale" (sulla scorta di Cass. n. 2374 del 1998), in contrasto con quanto già sancito dalle Sezioni unite con la sentenza n. 2179 del 1987, secondo cui l'impugnativa L. n. 604 del 1966, ex art. 6, costituisce una manifestazione di volontà negoziale, riconducibile allo schema proprio del negozio giuridico, in quanto "manifestazione di volontà diretta ad uno scopo pratico tutelato dal diritto, od anche manifestazione di volontà le cui conseguenze giuridiche sono dirette ad attuare il fine pratico voluto e tutelato dalla legge".

Inoltre non vi è ragione plausibile per negare al datore di lavoro, terzo destinatario di una impugnativa di licenziamento sottoscritta da soggetto che non è proprio dipendente ma che si dichiara rappresentante di questi, la facoltà di avvalersi dell'art. 1393 c.c., per chiedere a chi spende il nome altrui diò giustificare i suoi poteri, atteso che il termine "contratta" ben può riferirsi alla relazione bilaterale che lega le due parti del rapporto di lavoro.

Infine detta disposizione opera sul livello della giustificazione dei poteri del rappresentante ma non può spiegare rilievo dirimente sul diverso piano della validità della impugnativa stragiudiziale sottoscritta dal terzo, che verrebbe meno sol perchè la procura preesistente non sarebbe portata a conoscenza della controparte entro uno stretto termine di decadenza, così omologando indebitamente il caso in cui chi impugna è dotato del potere col caso in cui chi impugna ne è sprovvisto ed il suo atto deve essere ratificato.

Da un punto di vista sistematico non appare superfluo evidenziare che, di recente, la Corte costituzionale (sent. n. 212 del 2020) ha considerato che "le norme contenute nella L. n. 604 del 1966, art. 6, commi 1 e 2, sono disposizioni di natura eccezionale ex art. 14 preleggi - e quindi di stretta interpretazione - in quanto derogatorie della disciplina generale delle impugnative negoziali, nella misura in cui l'azione di nullità e quella di annullamento risultano entrambe condizionate dalla previa proposizione di una tempestiva impugnativa stragiudiziale, poi coltivata nella sede giudiziaria (o analoga) entro un termine di decadenza"; di modo che vanno disattese interpretazioni che amplino, senza ragionevole giustificazione, l'area di operatività della decadenza in esame.

3.6. Posto che l'impugnativa del difensore munito di procura è atto idoneo ad impedire la decadenza L. n. 604 del 1966, ex art. 6, anche se detta procura non viene comunicata o notificata alla controparte nel termine di sessanta giorni, resta da verificare la posizione del datore di lavoro.

In via stragiudiziale, il datore destinatario di una impugnativa scritta di un difensore, che dichiari di agire in nome e per conto del lavoratore, può avvalersi - come detto - del potere conferito dall'art. 1393 c.c., secondo cui il terzo "può sempre esigere che (il rappresentante) giustifichi i suoi poteri e, se la rappresentanza risulta da atto scritto, che gliene dia una copia da lui firmata".

In tale contesto deve essere precisata l'affermazione contenuta in taluni precedenti di questa Corte che sembrano imporre l'obbligo al datore di lavoro di richiedere la giustificazione del potere di rappresentanza del difensore ex art. 1393 c.c., "prima della scadenza del termine di sessanta giorni e comunque prima che il lavoratore si rivolga al giudice" (Cass. n. 7866/12 cit.; Cass. n. 3634/17 cit.; Cass. n. 1444/19 cit.), come se la mancata richiesta precludesse al datore di lavoro di sollevare la questione in giudizio.

In realtà non vi è disposizione che impedisca al datore di lavoro di contestare l'efficacia dell'impugnativa sottoscritta dal terzo una volta convenuto in iure, anche se non abbia richiesto in precedenza al rappresentante di giustificare i suoi poteri.

Si è infatti condivisibilmente chiarito che, "poichè l'art. 1393 c.c., non pone a carico del terzo un obbligo ma gli conferisce solo una facoltà, il mancato immediato esercizio del potere non impedisce che successivamente il datore possa contestare l'efficacia dell'impugnazione stragiudiziale" (così Cass. n. 16416/19 cit.; sul fatto che l'art. 1393 c.c. costituisca una facoltà e non un obbligo v., in precedenza, Cass. n. 9289 del 2001; Cass. n. 15743 del 2004).

Invero, in sede giudiziale, il datore di lavoro convenuto potrà ancora eccepire la, decadenza L. n. 604 del 1966, ex art. 6, con la memoria di costituzione, trattandosi di una eccezione in senso stretto che non può essere rilevata d'ufficio, attenendo a diritti disponibili (Cass. n. 19406 del 2011; Cass. n. 1035 del 1991; Cass. n. 10644 del 1990; più di recente, anche con riferimento alla L. n. 183 del 2010, art. 32, v. Cass. n. 8843 del 2020, con la giurisprudenza ivi richiamata).

In tal caso, anche se il datore di lavoro, prima del giudizio, non si sia avvalso della facoltà a lui concessa dall'art. 1393 c.c., potrà contestare l'idoneità dell'impugnativa stragiudiziale sottoscritta dal solo difensore e sarà onere del lavoratore dimostrare la validità dell'atto compiuto dal rappresentante, offrendo la prova dell'anteriorità della procura scritta (cfr. Cass. n. 16416/19 cit.), che può essere fornita con ogni mezzo (Cass. n. 7866/12 cit.; Cass. n. 3634/17 cit.).

giovedì 15 aprile 2021

Come incidono le menomazioni preesistenti sull'infortunio e le malattie professionali? 


Cost. 13/04/2021, n. 63

In materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, l'art. 13, comma 6, secondo periodo del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il grado di menomazione dell'integrità psicofisica causato da infortunio sul lavoro o malattia professionale, quando risulti aggravato da menomazioni preesistenti concorrenti, deve essere rapportato non all'integrità psicofisica completa, ma a quella ridotta per effetto delle preesistenti menomazioni, secondo quanto dispone l'art. 13, comma 6, primo periodo del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38. In tal caso, il medico-legale dovrà scorporare dagli effetti combinati delle due patologie valutati in danno biologico, quelli riconducibili alla preesistenza, che non vengono in quanto tali stimati, ma servono solo ad abbattere il valore dell'integrità psicofisica su cui si riverbera la patologia concorrente, che vede, dunque, appesantiti i propri effetti pregiudizievoli e la relativa stima.

mercoledì 14 aprile 2021

Su chi incombe l'onere del licenziamento orale? 



Cass. 01/04/2021, n. 9108

Il lavoratore che impugni il licenziamento allegandone l'intimazione senza l'osservanza della forma scritta ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell'esecuzione della prestazione lavorativa.

martedì 13 aprile 2021

 In caso di guida senza patente opera la copertura assicurativa Inail nell'infortunio in itinere?


Cass. 08/04/2021, n. 9375

L'art. 2, T.U. n. 1124 del 1965, per come modificato dall'art. 12, D.Lgs. n. 38 del 2000, deve essere interpretato nel senso che la garanzia assicurativa è esclusa non solo nel caso in cui il conducente, al momento dell'infortunio, non abbia conseguito il rilascio di patente, ma altresì nel caso in cui sia munito di patente diversa da quella richiesta per il tipo di veicolo guidato, non potendo letteralmente sostenersi che, in questo secondo caso, egli si trovi in possesso della "prescritta abilitazione di guida".

domenica 11 aprile 2021

 Come è disciplinato il fondo nuove competenze dal DL 34 del 2020?




Art. 88 DL 34 del 2020  Fondo Nuove Competenze

1. Al fine di consentire la graduale ripresa dell'attività dopo l'emergenza epidemiologica, per gli anni 2020 e 2021, i contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operative in azienda ai sensi della normativa e degli accordi interconfederali vigenti, possono realizzare specifiche intese di rimodulazione dell'orario di lavoro per mutate esigenze organizzative e produttive dell'impresa ovvero per favorire percorsi di ricollocazione dei lavoratori, con le quali parte dell'orario di lavoro viene finalizzato a percorsi formativi. Gli oneri relativi alle ore di formazione, comprensivi dei relativi contributi previdenziali e assistenziali, sono a carico di un apposito Fondo denominato “Fondo Nuove Competenze”, costituito presso l'Agenzia Nazionale delle Politiche Attive del Lavoro (ANPAL), nel limite di 230 milioni di euro a valere sul Programma Operativo Nazionale SPAO. Il predetto fondo è incrementato di ulteriori 200 milioni di euro per l'anno 2020 e di ulteriori 300 milioni di euro per l'anno 2021.


2. Alla realizzazione degli interventi di cui al comma 1 possono partecipare, previa intesa in Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, i Programmi Operativi Nazionali e Regionali di Fondo Sociale Europeo, i Fondi Paritetici Interprofessionali costituiti ai sensi dell'articolo 118 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 nonché, per le specifiche finalità, il Fondo per la formazione e il sostegno al reddito dei lavoratori di cui all'articolo 12 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 che, a tal fine, potranno destinare al Fondo costituito presso l'ANPAL una quota delle risorse disponibili nell'ambito dei rispettivi bilanci.


3. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da emanare entro sessanta giorni dalla entrata in vigore del presente decreto, sono individuati criteri e modalità di applicazione della misura e di utilizzo delle risorse e per il rispetto del relativo limite di spesa.

sabato 10 aprile 2021

Quando l'appalto di opere e servizi è illecito? 

Cass. 06/04/2021, n. 9231

Ai sensi dell'art. 29, D.Lgs. n. 276 del 2003, l'appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera é lecito purché il requisito dell'"organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore", costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell'appaltatore, senza che l'appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell'appaltatore. Viceversa, si configura un'interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo ed organizzativo sia interamente affidato al formale committente, restando irrilevante che manchi in capo a quest'ultimo l'intuitus personae nella scelta del personale, atteso che, nelle ipotesi di somministrazione illegale, è frequente che l'elemento fiduciario caratterizzi l'intermediario, il quale seleziona i lavoratori per poi metterli a disposizione del reale datore di lavoro.

giovedì 8 aprile 2021

Quando è dovuta l'Irap? 

Cass. 06/04/2021, n. 9221

In tema di imposta regionale sulle attività produttive, il presupposto dell'"autonoma organizzazione" non ricorre quando il contribuente responsabile dell'organizzazione impieghi beni strumentali non eccedenti il minimo indispensabile all'esercizio dell'attività e si avvalga di lavoro altrui non eccedente l'impiego di un dipendente con mansioni esecutive.

mercoledì 7 aprile 2021

Quali indennità per i lavoratori stagionali del turismo, degli stabilimenti termali, dello spettacolo e dello sport ha previsto il DL 41 del 2021?

In base all'art.10 del DL 41 del 2021



1. Ai soggetti già beneficiari dell'indennità di cui all'articoli 15 e 15-bis, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, è erogata una tantum un'ulteriore indennità pari a 2.400 euro.


2. Ai lavoratori dipendenti stagionali del settore del turismo e degli stabilimenti termali che hanno cessato involontariamente il rapporto di lavoro nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2019 e la data di entrata in vigore del presente decreto, che abbiano svolto la prestazione lavorativa per almeno trenta giornate nel medesimo periodo, non titolari di pensione né di rapporto di lavoro dipendente né di NASpI alla data di entrata in vigore del presente decreto, è riconosciuta un'indennità onnicomprensiva pari a 2.400 euro. La medesima indennità è riconosciuta ai lavoratori in somministrazione, impiegati presso imprese utilizzatrici operanti nel settore del turismo e degli stabilimenti termali, che abbiano cessato involontariamente il rapporto di lavoro nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2019 e la data di entrata in vigore del presente decreto e che abbiano svolto la prestazione lavorativa per almeno trenta giornate nel medesimo periodo, non titolari di pensione né di rapporto di lavoro dipendente né di NASpI alla data di entrata in vigore del presente decreto.


3. Ai seguenti lavoratori dipendenti e autonomi che in conseguenza dell'emergenza epidemiologica da COVID-19 hanno cessato, ridotto o sospeso la loro attività o il loro rapporto di lavoro, è riconosciuta un'indennità onnicomprensiva pari a 2.400 euro:

a) lavoratori dipendenti stagionali e lavoratori in somministrazione appartenenti a settori diversi da quelli del turismo e degli stabilimenti termali che hanno cessato involontariamente il rapporto di lavoro nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2019 e la data di entrata in vigore del presente decreto e che abbiano svolto la prestazione lavorativa per almeno trenta giornate nel medesimo periodo;
b) lavoratori intermittenti di cui agli articoli da 13 a 18 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, che abbiano svolto la prestazione lavorativa per almeno trenta giornate nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2019 e la data di entrata in vigore del presente decreto;
c) lavoratori autonomi, privi di partita IVA, non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie, che nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2019 e la data di entrata in vigore del presente decreto siano stati titolari di contratti autonomi occasionali riconducibili alle disposizioni di cui all'articolo 2222 del codice civile e che non abbiano un contratto in essere il giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto. Gli stessi, per tali contratti, devono essere già iscritti alla data di entrata in vigore del presente decreto alla Gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, con accredito nello stesso arco temporale di almeno un contributo mensile;
d) incaricati alle vendite a domicilio di cui all'articolo 19 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, con reddito nell'anno 2019 derivante dalle medesime attività superiore a 5.000 euro e titolari di partita IVA attiva, iscritti alla Gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, alla data di entrata in vigore del presente decreto e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie.



4. I soggetti di cui al comma 3, alla data di presentazione della domanda, non devono essere in alcuna delle seguenti condizioni:

a) titolari di contratto di lavoro subordinato, con esclusione del contratto di lavoro intermittente senza diritto all'indennità di disponibilità ai sensi dell'articolo 13, comma 4, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81;
b) titolari di pensione.



5. E' riconosciuta un'indennità onnicomprensiva pari a 2.400 euro ai lavoratori dipendenti a tempo determinato del settore del turismo e degli stabilimenti termali in possesso cumulativamente dei requisiti di seguito elencati:

a) titolarità nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2019 e la data di entrata in vigore del presente decreto di uno o più contratti di lavoro a tempo determinato nel settore del turismo e degli stabilimenti termali, di durata complessiva pari ad almeno trenta giornate;
b) titolarità nell'anno 2018 di uno o più contratti di lavoro a tempo determinato o stagionale nel medesimo settore di cui alla lettera a), di durata complessiva pari ad almeno trenta giornate;
c) assenza di titolarità, alla data di entrata in vigore del presente decreto, di pensione e di rapporto di lavoro dipendente.



6. Ai lavoratori iscritti al Fondo pensioni lavoratori dello spettacolo con almeno trenta contributi giornalieri versati dal 1° gennaio 2019 alla data di entrata in vigore del presente decreto al medesimo Fondo, con un reddito riferito all'anno 2019 non superiore a 75.000 euro, e non titolari di pensione né di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, diverso dal contratto intermittente di cui agli articoli 13, 14, 15, 17 e 18 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, senza corresponsione dell'indennità di disponibilità di cui all'articolo 16 del medesimo decreto, è riconosciuta un'indennità onnicomprensiva pari a 2.400 euro. La medesima indennità è erogata anche ai lavoratori iscritti al Fondo pensioni lavoratori dello spettacolo con almeno sette contributi giornalieri versati dal 1° gennaio 2019 alla data di entrata in vigore del presente decreto, con un reddito riferito all'anno 2019 non superiore a 35.000 euro.


7. Le indennità di cui ai commi 1, 2, 3, 5 e 6 non sono tra loro cumulabili e sono invece cumulabili con l'assegno ordinario di invalidità di cui alla legge 12 giugno 1984, n. 222. La domanda per le indennità di cui ai commi 2, 3, 5 e 6 è presentata all'INPS entro il 30 aprile 2021 tramite modello di domanda predisposto dal medesimo Istituto e presentato secondo le modalità stabilite dallo stesso.


8. Le indennità di cui ai precedenti commi non concorrono alla formazione del reddito ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e sono erogate dall'INPS nel limite di spesa complessivo di 897,6 milioni di euro per l'anno 2021. L'INPS provvede al monitoraggio del rispetto del limite di spesa e comunica i risultati di tale attività al Ministero del lavoro e delle politiche sociali e al Ministero dell'economia e delle finanze. Qualora dal predetto monitoraggio emerga il verificarsi di scostamenti, anche in via prospettica, rispetto al predetto limite di spesa, non sono adottati altri provvedimenti concessori.


9. Agli oneri derivanti dai commi da 1 a 7, pari a 897,6 milioni di euro per l'anno 2021, si provvede ai sensi dell'articolo 42.


10. E' erogata dalla società Sport e Salute s.p.a., nel limite massimo di 350 milioni di euro per l'anno 2021, un'indennità complessiva determinata ai sensi del comma 11, in favore dei lavoratori impiegati con rapporti di collaborazione presso il Comitato Olimpico Nazionale (CONI), il Comitato Italiano Paralimpico (CIP), le federazioni sportive nazionali, le discipline sportive associate, gli enti di promozione sportiva, riconosciuti dal Comitato Olimpico Nazionale (CONI) e dal Comitato Italiano Paralimpico (CIP), le società e associazioni sportive dilettantistiche, di cui all'articolo 67, comma 1, lettera m), del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, i quali, in conseguenza dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, hanno cessato, ridotto o sospeso la loro attività. Il predetto emolumento non concorre alla formazione del reddito ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e non è riconosciuto ai percettori di altro reddito da lavoro e del reddito di cittadinanza di cui al decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, del reddito di emergenza e delle prestazioni di cui agli articoli 19, 20, 21, 22, 27, 28, 29, 30, 38 e 44 del decreto-legge 17 marzo 2020 n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, così come prorogate e integrate dal decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, dal decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126, dal decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, e dal presente decreto. Si considerano reddito da lavoro che esclude il diritto a percepire l'indennità i redditi da lavoro autonomo di cui all'articolo 53 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, i redditi da lavoro dipendente e assimilati di cui agli articoli 49 e 50 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, nonché le pensioni di ogni genere e gli assegni ad esse equiparati, con esclusione dell'assegno ordinario di invalidità di cui alla legge 12 giugno 1984, n. 222.


11. L'ammontare dell'indennità di cui al comma 10 è determinata come segue:

a) ai soggetti che, nell'anno di imposta 2019, hanno percepito compensi relativi ad attività sportiva in misura superiore ai 10.000 euro annui, spetta la somma di euro 3.600;
b) ai soggetti che, nell'anno di imposta 2019, hanno percepito compensi relativi ad attività sportiva in misura compresa tra 4.000 e 10.000 euro annui, spetta la somma di euro 2.400;
c) ai soggetti che, nell'anno di imposta 2019, hanno percepito compensi relativi ad attività sportiva in misura inferiore ad euro 4.000 annui, spetta la somma di euro 1.200.



12. Ai fini di cui al comma 11, la società Sport e Salute s.p.a. utilizza i dati dichiarati dai beneficiari al momento della presentazione della domanda nella piattaforma informatica prevista dall'articolo 5 del decreto del 6 aprile 2020 del Ministro dell'economia e delle finanze di concerto con il Ministro per le politiche giovanili e lo sport.


13. Ai fini dell'erogazione delle indennità di cui ai commi 10 e 11, si considerano cessati a causa dell'emergenza epidemiologica anche tutti i rapporti di collaborazione scaduti entro la data del 30 dicembre 2020 e non rinnovati.


14. Sport e Salute s.p.a. provvede al monitoraggio del rispetto del limite di spesa di cui al primo periodo del comma 10 e comunica, con cadenza settimanale, i risultati di tale attività all'Autorità di Governo competente in materia di sport e al Ministero dell'economia e delle finanze.


15. Agli oneri derivanti dal comma 10 del presente articolo, pari a 350 milioni di euro per l'anno 2021, si provvede ai sensi dell'articolo 42.


martedì 6 aprile 2021

 Come deve essere valutata la proporzionalità nel licenziamento per giusta causa?



Cass. 31/03/2021, n. 8957

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini delia valutazione della proporzionalità, è sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto sia suscettibile, per la sua gravità, a compromettere la fiducia del datore di lavoro ed a far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato.

sabato 3 aprile 2021

 In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo assoggettato all'art. 18 della legge 300 del 1970 come modificato dalla l. 92 del 2012 il giudice ha la facoltà di reintegrare il lavoratore in caso di illegittimità dello stesso?

Corte costituzionale 59 del 2021



1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n. 101 del 2020), il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, possa – e non debba – disporre la reintegrazione del lavoratore.

1.1.– Il rimettente denuncia, anzitutto, il contrasto con l’art. 3 della Costituzione, alla luce del «trattamento irragionevolmente discriminatorio» che il legislatore avrebbe riservato a «situazioni identiche». La reintegrazione, obbligatoria nel licenziamento per giusta causa nell’ipotesi di insussistenza del fatto, sarebbe meramente facoltativa e sarebbe subordinata a una valutazione in termini di non eccessiva onerosità nella fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che peraltro presuppone una insussistenza manifesta del fatto e una iniziativa del datore di lavoro «del tutto pretestuosa».

Dall’insindacabile scelta del datore di lavoro di qualificare il licenziamento come determinato da giusta causa o da giustificato motivo oggettivo deriverebbe «una distinzione estremamente rilevante in punto della tutela del lavoratore». Neppure le diversità che intercorrono tra la giusta causa e il giustificato motivo oggettivo potrebbero spiegare tale distinzione, poiché, nell’ipotesi di insussistenza del fatto, si configura in ogni caso un recesso illegittimo, a prescindere dalle ragioni addotte, attinenti alla giusta causa o al giustificato motivo oggettivo.

Il rimettente osserva che, nel caso di specie, non viene in rilievo il tema della «mancanza di copertura costituzionale per la reintegra», ma l’arbitraria disparità di trattamento tra situazioni identiche negli elementi costitutivi. Una volta che abbia scelto di disporre la tutela reintegratoria al ricorrere di determinati presupposti, il legislatore non potrebbe introdurre «ingiustificati trattamenti differenziati tra situazioni identiche».

Il fatto che il lavoratore possa optare – come è avvenuto nel giudizio principale e come spesso avviene nella pratica – per una indennità sostitutiva della reintegrazione dimostrerebbe «l’irragionevolezza del sistema complessivamente adottato». In questo caso, difatti, il richiamo all’eccessiva onerosità non sarebbe pertinente. Anche da questo punto di vista, emergerebbe l’inidoneità del criterio indicato a indirizzare la scelta del giudice.

1.2.– Il rimettente argomenta che il potere discrezionale del giudice di disporre o negare la reintegrazione, «nell’assoluta mancanza di criteri normativi in base ai quali orientare l’interprete», si configura come un potere «essenzialmente assimilabile all’esercizio dell’attività di impresa». Il legislatore sacrificherebbe la libertà dell’iniziativa economica privata, tutelata dall’art. 41 Cost., e porrebbe «limiti proprio ai limiti all’iniziativa economica privata», che la Carta fondamentale individua nel rispetto della sicurezza, della libertà, della dignità umana.

Nel negare la tutela reintegratoria allorché risulti eccessivamente onerosa, il giudice intimerebbe «un ulteriore e nuovo licenziamento per giustificato motivo oggettivo» e compirebbe «scelte organizzative riservate all’imprenditore».

1.3.– Il giudice a quo, inoltre, censura l’art. 18, settimo comma, secondo periodo, dello statuto dei lavoratori, in quanto lesivo dell’art. 24 Cost.

La disposizione in esame, nell’attribuire al giudice il potere di disporre un nuovo licenziamento, pregiudicherebbe il diritto di difesa delle parti, che non sarebbero poste nelle condizioni di interloquire sulla compatibilità della reintegrazione con le esigenze organizzative aziendali, «nel mezzo di un processo avente un altro oggetto».

L’art. 24 Cost., in connessione con l’art. 3 Cost., sarebbe violato sotto due ulteriori profili.

Il diritto di azione del lavoratore sarebbe «ingiustamente sacrificato e ostacolato dalla scelta, operata dalla legge ordinaria, di fare dipendere le tutele del lavoratore dalla mera insindacabile (nemmeno ex post) volontà qualificatoria datoriale».

Inoltre, il licenziamento, che il giudice intima allorché nega la tutela reintegratoria, riceverebbe un trattamento «ingiustificatamente differente e deteriore […] rispetto ad ogni altro normale licenziamento intimato dal datore di lavoro» e anche rispetto ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, intimati sulla base di quello stesso mutamento organizzativo che ha precluso l’applicazione della tutela reintegratoria. Il licenziamento disposto ope iudicis, difatti, non sarebbe rispettoso delle procedure di garanzia previste dall’art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e potrebbe essere impugnato solo in sede di gravame contro la decisione del giudice che l’ha intimato, con la conseguente perdita di un grado di giudizio.

1.4.– Il giudice a quo denuncia, infine, il contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost. e con i princìpi del giusto processo.

La disposizione censurata imporrebbe al giudice di ricoprire il ruolo di una parte in causa, e in particolare dell’imprenditore, senza neppure indicare «i criteri ai quali il giudice dovrebbe attenersi». Sarebbe compromessa, pertanto, la terzietà del giudice.

2.– Occorre esaminare, preliminarmente, le eccezioni di inammissibilità formulate nell’atto di intervento.

2.1.– Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, la questione sarebbe inammissibile per carente motivazione in ordine al requisito della rilevanza.

2.1.1.– Il rimettente non avrebbe dimostrato la necessità di applicare la previsione censurata per decidere su una o più domande formulate nel giudizio principale e non avrebbe offerto alcun ragguaglio sull’incidenza di una eventuale pronuncia di accoglimento sugli esiti della controversia. Il giudice a quo avrebbe omesso di far luce sull’imprescindibile rapporto di strumentalità tra la soluzione del dubbio di costituzionalità e la definizione del giudizio principale.

Anche la descrizione della fattispecie concreta sarebbe lacunosa.

Il giudice a quo non avrebbe svolto alcun rilievo in merito alla illegittimità del licenziamento impugnato, alla manifesta insussistenza del fatto addotto come giustificazione del licenziamento stesso, alla necessità di applicare la disposizione che esclude il rimedio della reintegrazione e impone di riconoscere una tutela meramente indennitaria.

2.1.2.– La motivazione in ordine alla rilevanza non presenta i profili di inammissibilità eccepiti dalla difesa dello Stato.

Questa Corte ha affermato che «[a]nche nella prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità (sentenza n. 77 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto) e di una più efficace garanzia della conformità della legislazione alla Carta fondamentale, il presupposto della rilevanza non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare (sentenza n. 20 del 2018, punto 2 del Considerato in diritto)» (sentenza n. 174 del 2019, punto 2.1. del Considerato in diritto).

La rilevanza si configura come «necessità di applicare la disposizione censurata nel percorso argomentativo che conduce alla decisione e si riconnette all’incidenza della pronuncia di questa Corte su qualsiasi tappa di tale percorso» (sentenza n. 254 del 2020, punto 4.2. del Considerato in diritto). L’applicabilità della disposizione censurata è dunque sufficiente a fondare la rilevanza della questione proposta (fra le molte, sentenza n. 174 del 2016, punto 2.1. del Considerato in diritto).

Nella vicenda oggi sottoposta al vaglio di questa Corte, il giudice a quo ha descritto la fattispecie concreta in modo idoneo a suffragare il requisito della rilevanza del dubbio di costituzionalità.

Il rimettente riferisce che il giudizio principale verte in via esclusiva su una fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. L’opponente non ha coltivato le contestazioni relative ai due licenziamenti intimati per giusta causa e annullati dal giudice della fase sommaria, con conseguente reintegrazione del lavoratore.

Nella fase sommaria è stata accertata la manifesta insussistenza del fatto dedotto dal datore di lavoro a sostegno del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e – su questo tema controverso – si dispiegano le argomentazioni delle parti nella fase a cognizione piena introdotta dall’opposizione.

Il giudice a quo soggiunge che le parti non contestano la necessità di applicare la previsione censurata, anche alla luce della data di assunzione del ricorrente (2001) e delle dimensioni dell’impresa, che occupa circa cinquanta dipendenti.

Secondo il rimettente, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale non è scalfita neppure dalla scelta del lavoratore di conseguire l’indennità sostitutiva della reintegrazione.

La valutazione del giudice a quo, avvalorata da una pluralità di argomenti, non è implausibile e supera, pertanto, il controllo “esterno” demandato a questa Corte in ordine al requisito della rilevanza (da ultimo, sentenza n. 32 del 2021, punto 2.1.1. del Considerato in diritto).

Le contrapposte domande delle parti – quella del datore di lavoro, volta a ottenere la restituzione dell’indennità corrisposta, e quella del lavoratore, concernente l’esatta determinazione dell’importo dovuto – presuppongono la valutazione della fondatezza della domanda di reintegrazione nell’àmbito del giudizio incardinato con l’opposizione di cui all’art. 1, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).

Ai fini della decisione della controversia, è dunque ineludibile l’applicazione della disposizione censurata, che delinea i presupposti della reintegrazione in un licenziamento per giustificato motivo oggettivo quale è quello dedotto – per concorde ammissione delle parti – nel giudizio principale. Tanto basta a radicare la rilevanza della questione.

2.2.– L’Avvocatura dello Stato imputa al rimettente di non avere sperimentato una interpretazione adeguatrice della previsione censurata.

2.2.1.– Il giudice a quo si sarebbe limitato a enucleare il significato letterale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, dello statuto dei lavoratori, senza confrontarsi con un’interpretazione sistematica mediante un «ragionevole e bilanciato potere esegetico». La questione sarebbe, pertanto, inammissibile.

2.2.2.– Neppure tale eccezione è fondata.

Ai fini dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, è necessario e sufficiente che il giudice a quo abbia esplorato la praticabilità di una interpretazione adeguatrice e l’abbia consapevolmente esclusa (da ultimo, sentenza n. 32 del 2021, punto 2.3.1. del Considerato in diritto), alla luce di un accurato esame delle alternative che si profilano nel dibattito ermeneutico (sentenza n. 123 del 2020, punto 3.3.1. del Considerato in diritto).

Se l’interpretazione prescelta dal rimettente sia la sola persuasiva, è profilo che non attiene all’ammissibilità, ma al merito della questione di legittimità costituzionale e – nello scrutinio del merito – dovrà essere esaminato (sentenza n. 95 del 2016, punto 2.2. del Considerato in diritto).

Il rimettente muove dalla premessa che la disposizione censurata sia contraddistinta da un significato letterale inequivocabile e che l’interpretazione costituzionalmente orientata si risolva in «una interpretazione chiaramente abrogatrice di un chiaro precetto normativo», in contrasto con il sindacato accentrato di costituzionalità.

Il giudice a quo mostra di recepire l’interpretazione accreditata dalla «giurisprudenza di legittimità maggioritaria», che riconosce il potere discrezionale di negare la reintegrazione, «se la tutela reintegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 2018, n. 10435).

Il Tribunale di Ravenna non reputa condivisibile il diverso indirizzo, «numericamente minoritario», che configura come obbligatoria la reintegrazione nelle ipotesi di manifesta insussistenza del fatto (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 13 marzo 2019, n. 7167 e 14 luglio 2017, n. 17528) e si traduce in «una interpretazione essenzialmente abrogativa di un testuale elemento normativo».

All’esito di un circostanziato esame delle diverse interpretazioni prospettate, il giudice ha escluso la sostenibilità di un’interpretazione adeguatrice e ha così ottemperato in maniera adeguata all’onere di attribuire alla disposizione un significato conforme ai princìpi costituzionali.

Anche da questa angolazione, pertanto, non si ravvisano ostacoli alla disamina del merito.

2.3.– La questione sarebbe inammissibile, anche perché formulata in modo da ottenere «una pronuncia additiva o manipolativa non costituzionalmente obbligata» in un àmbito in cui il legislatore gode di un’ampia discrezionalità.

2.3.1.– La scelta della tutela che spetta al lavoratore illegittimamente licenziato sarebbe demandata all’apprezzamento discrezionale del legislatore. Il riconoscimento della reintegrazione rappresenterebbe «solamente una delle molteplici alternative prospettabili».

2.3.2.– Anche tale eccezione non è fondata.

Il rimettente sollecita in maniera puntuale, mediante l’indicazione di un chiaro termine di raffronto, l’intervento correttivo di questa Corte, che dovrebbe ripristinare, in ordine all’obbligatorietà della reintegrazione, un trattamento omogeneo tra il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, da un lato, e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, dall’altro. Anche nella seconda ipotesi la reintegrazione dovrebbe essere obbligatoria, quando sia accertata l’insussistenza manifesta del fatto.

La molteplicità dei possibili rimedi contro i licenziamenti illegittimi e l’assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate non escludono che le difformità tra i regimi di tutela debbano essere sorrette da giustificazioni razionali e non sottraggono le scelte adottate dal legislatore al sindacato di questa Corte.

3.– Nel merito, la questione è fondata.

4.– I dubbi di costituzionalità si concentrano sull’art. 18, settimo comma, secondo periodo, dello statuto dei lavoratori, così come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, nel quadro di un ampio intervento riformatore sulle tutele contro i licenziamenti illegittimi.

Il legislatore ha inteso ridistribuire «in modo più equo le tutele dell’impiego» anche mediante l’adeguamento della disciplina dei licenziamenti «alle esigenze del mutato contesto di riferimento» e la previsione «di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie» (art. 1, comma 1, lettera c, della legge citata).

All’originario modello, incentrato sulla tutela reintegratoria per tutte le ipotesi di nullità, annullabilità e inefficacia del licenziamento, fanno riscontro quattro regimi, applicabili ai rapporti a tempo indeterminato instaurati fino al 7 marzo 2015. A decorrere da questa data si dispiega la disciplina introdotta dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), che si caratterizza per una diversa ratio e per un diverso regime di tutele.

Si deve ricordare che la tutela reintegratoria piena, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, si applica nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo per causa di matrimonio o di maternità o di paternità, retto da motivo illecito determinante o dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. Il giudice reintegra il lavoratore e gli riconosce un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, con detrazione di quel che il lavoratore abbia percepito per effetto dello svolgimento di altre attività lavorative (l’aliunde perceptum). L’importo minimo, invalicabile, è di cinque mensilità.

Il lavoratore, in sostituzione della reintegrazione, può chiedere al datore di lavoro un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, senza rinunciare al risarcimento del danno patito nel periodo tra l’estromissione e la richiesta dell’indennità sostitutiva, che già risolve il rapporto di lavoro.

L’art. 18 dello statuto dei lavoratori, così come novellato nel 2012, prevede, inoltre, una tutela reintegratoria attenuata e una tutela indennitaria, declinata in forma piena e ridotta, e ne sancisce l’applicazione ai datori di lavoro che occupino più di quindici dipendenti (cinque, se si tratta di imprese agricole) nell’unità produttiva in cui ha avuto luogo il licenziamento o nell’àmbito dello stesso Comune o che occupino complessivamente, sia pure in diverse unità produttive, più di sessanta dipendenti.

La tutela reintegratoria attenuata, invocata nell’odierno giudizio, contempla la reintegrazione nel posto di lavoro, al pari della tutela reintegratoria piena, ma limita a dodici mensilità l’ammontare dell’indennità risarcitoria che il datore di lavoro è obbligato a corrispondere dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Da tale importo, peraltro, deve essere detratto non solo quel che il lavoratore abbia guadagnato in virtù di altre occupazioni (l’aliunde perceptum), ma anche quel che avrebbe potuto guadagnare adoperandosi con l’ordinaria diligenza nella ricerca di un’altra attività lavorativa (l’aliunde percipiendum). Anche in questo caso il lavoratore ha la facoltà – in concreto esercitata nel giudizio principale – di optare per l’indennità sostitutiva della reintegrazione.

Tale tutela si applica ai licenziamenti disciplinari, per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, allorché il giudice riscontri l’insussistenza del fatto contestato o la riconducibilità del fatto alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari.

La tutela reintegratoria attenuata sanziona anche i licenziamenti intimati senza giustificazione «per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore», o intimati in violazione delle regole che, nell’àmbito del licenziamento per malattia, disciplinano il periodo di comporto (art. 2110 del codice civile).

Nei licenziamenti economici, la tutela reintegratoria attenuata può essere applicata nelle ipotesi di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».

5.– Quanto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative, che rappresenta il fulcro dell’odierna questione di legittimità costituzionale, il nuovo regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, prescrive di regola la corresponsione di una indennità risarcitoria, compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità.

Il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino a un massimo di dodici mensilità, è circoscritto all’ipotesi della manifesta insussistenza del fatto, che postula una evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso e dunque la sua natura pretestuosa (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 19 marzo 2020, n. 7471).

Tale requisito, che il rimettente non censura, si correla strettamente ai presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che è onere del datore di lavoro dimostrare. Tali sono da intendersi le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11 novembre 2019, n. 29102). Perché possa operare il rimedio della reintegrazione, è sufficiente che la manifesta insussistenza riguardi uno dei presupposti appena indicati (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 dicembre 2018, n. 32159).

Tali presupposti, pur nel loro autonomo spazio applicativo, si raccordano tutti all’effettività della scelta organizzativa del datore di lavoro, che il giudice è chiamato a valutare, senza sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità. Il vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio.

6.– Il rimettente prende le mosse dall’assunto, avallato anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 3 febbraio 2020, n. 2366), che la reintegrazione non sia obbligatoria, neppure quando l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento si connoti come manifesta.

Il dato testuale conferma una tale premessa ermeneutica. Nel contesto dell’art. 18, settimo comma, dello statuto dei lavoratori, al perentorio «applica» del primo periodo fa riscontro il «può applicare» del secondo periodo e sottende, secondo il significato proprio delle parole, una facoltà discrezionale del giudice.

L’elemento letterale è poi corroborato dalla ratio legis, così come si ricava dall’esame dei lavori preparatori. L’attuale formulazione scaturisce dalla mediazione tra opposte visioni, all’esito di un acceso dibattito parlamentare. Le critiche alle “disarmonie” della previsione censurata, emerse nel corso dell’approvazione del disegno di legge presentato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, non hanno condotto alla reintroduzione della reintegrazione obbligatoria, pur proposta a più riprese.

La giurisprudenza di legittimità, nel tentativo di scongiurare le incertezze applicative che il testo della legge avrebbe ingenerato (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 luglio 2016, n. 14021), ha provato a definire i criteri che presiedono alla valutazione discrezionale del giudice e ha posto l’accento, in particolare, sui principi generali in tema di risarcimento in forma specifica (art. 2058 cod. civ.), che precludono la restitutio in integrum quando si riveli eccessivamente onerosa; norma applicabile anche alla responsabilità contrattuale.

Nella ricostruzione della Corte di cassazione, che costituisce diritto vivente, il richiamo alla disciplina del risarcimento del danno in forma specifica offre «un parametro di riferimento per l’esercizio del potere discrezionale del giudice», che impone di valutare se la reintegrazione sia «al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 2018, n. 10435).

Il giudice, pertanto, potrà pronunciare la reintegrazione del lavoratore «subordinatamente all’ulteriore valutazione discrezionale rispetto alla non eccessiva onerosità del rimedio» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 31 gennaio 2019, n. 2930).

7.– La disposizione censurata, nel sancire una facoltà discrezionale di concedere o negare la reintegrazione, contrasta con l’art. 3 Cost., con riguardo ai profili e per i motivi di séguito esposti.

8.– Sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.), questa Corte ha fondato, già in epoca risalente, l’esigenza di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie di licenziamento (sentenza n. 45 del 1965, punto 4 del Considerato in diritto).

L’attuazione del diritto «a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto 9 del Considerato in diritto) è stata ricondotta, anche di recente, nell’alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela (sentenza n. 194 del 2018, punto 9.2. del Considerato in diritto), anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili come, per esempio, le dimensioni dell’impresa. Si è anche rimarcato che la reintegrazione non rappresenta «l’unico possibile paradigma attuativo» dei princìpi costituzionali (sentenza n. 46 del 2000, punto 5 del Considerato in diritto).

In un assetto integrato di tutele, in cui alla Costituzione si affiancano le fonti sovranazionali (art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30) e dell’Unione europea (art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – CDFUE –, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (di recente, sentenza n. 254 del 2020, punto 5.2. del Considerato in diritto).

Nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, è vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza.

9.– La disposizione censurata entra in conflitto con tali princìpi.

Il carattere meramente facoltativo della reintegrazione rivela, anzitutto, una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge n. 92 del 2012 e vìola il principio di eguaglianza.

Per i licenziamenti disciplinari, il legislatore ha previsto la reintegrazione del lavoratore, quando si accerti in giudizio l’insussistenza del fatto posto a base del recesso del datore di lavoro. Per i licenziamenti economici, l’insussistenza del fatto può condurre alla reintegrazione ove sia manifesta. L’insussistenza del fatto, pur diversamente graduata, assurge dunque a elemento qualificante per il riconoscimento del più incisivo fra i rimedi posti a tutela del lavoratore.

Secondo la valutazione discrezionale del legislatore, l’insussistenza del fatto – sia che attenga a una condotta di rilievo disciplinare addebitata al lavoratore sia che riguardi una decisione organizzativa del datore di lavoro e presenti carattere manifesto – rende possibile una risposta sanzionatoria omogenea, che è quella più energica della ricostituzione del rapporto di lavoro.

In un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto.

Le peculiarità delle fattispecie di licenziamento, che evocano, nella giusta causa e nel giustificato motivo soggettivo, la violazione degli obblighi contrattuali ad opera del lavoratore e, nel giustificato motivo oggettivo, scelte tecniche e organizzative dell’imprenditore, non legittimano una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l’insussistenza del fatto meritevole del rimedio della reintegrazione e che, per il licenziamento economico, si richieda finanche il più pregnante presupposto dell’insussistenza manifesta.

L’esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore. L’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost. (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto).

Tali elementi comuni alle fattispecie di licenziamento poste a raffronto dal rimettente, valorizzati dallo stesso legislatore nella previsione di una identica tutela reintegratoria, privano di una ragione giustificatrice plausibile la configurazione di un rimedio meramente facoltativo per i soli licenziamenti economici.

È sprovvisto di un fondamento razionale anche l’orientamento giurisprudenziale che assoggetta a una valutazione in termini di eccessiva onerosità la reintegrazione dei soli licenziamenti economici, che incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore.

10.– Alla violazione del principio di eguaglianza e alla disarmonia interna a un sistema di tutele, già caratterizzato da una pluralità di distinzioni, si associa l’irragionevolezza intrinseca del criterio distintivo adottato, che conduce a ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento.

Il rimettente scorge nella previsione censurata le caratteristiche di una norma “in bianco” e stigmatizza l’irragionevolezza di una disciplina «del tutto priva di criteri applicativi» idonei a orientare il potere discrezionale di disporre o meno la reintegrazione.

10.1.– Anche questi rilievi, che sorreggono l’argomentazione dell’ordinanza di rimessione, sono fondati.

Per i licenziamenti economici, il legislatore non solo presuppone una evidenza conclamata del vizio, che non sempre è agevole distinguere rispetto a una insussistenza non altrimenti qualificata, ma rende facoltativa la reintegrazione, senza offrire all’interprete un chiaro criterio direttivo.

La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse – quella reintegratoria, pur nella forma attenuata, e quella meramente indennitaria – è così rimessa a una valutazione del giudice disancorata da precisi punti di riferimento.

Il richiamo alla eccessiva onerosità, che la giurisprudenza di legittimità ha indicato nell’intento di conferire alla previsione un contenuto precettivo meno evanescente, non pone rimedio all’indeterminatezza della fattispecie.

Tale nozione, funzionale a tracciare la linea di confine tra due forme di tutela dalla comune matrice risarcitoria (risarcimento in forma specifica o per equivalente), si colloca nel contesto di grandezze economiche comparabili. Nella disciplina della reintegrazione, invece, che si è via via affinata come autonoma tecnica di tutela rispetto al paradigma dell’art. 2058 cod. civ., essa finisce per rivelarsi inadeguata.

Nella ricostruzione operata dalla giurisprudenza, sopra richiamata, la misura indennitaria di tutela compensativa non può dirsi “equivalente”, quale invece è l’indennità sostitutiva della reintegrazione, prevista dal terzo comma dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, ma ha invece un contenuto ridotto, quale quello previsto dal quinto comma del medesimo articolo.

L’eccessiva onerosità, declinata come incompatibilità con la struttura organizzativa nel frattempo assunta dall’impresa, presuppone valutazioni comparative non lineari nella dialettica tra il diritto del lavoratore a non essere arbitrariamente estromesso dal posto di lavoro e la libertà di iniziativa economica privata. Né serve a individuare parametri sicuri per la valutazione del giudice nel riconoscimento di due rimedi – la reintegrazione o l’indennità – caratterizzati da uno statuto eterogeneo.

In un sistema equilibrato di tutele, la discrezionalità del giudice riveste un ruolo cruciale, come questa Corte ha riconosciuto di recente nel censurare l’automatismo che governava la determinazione dell’indennità risarcitoria per i licenziamenti viziati dal punto di vista sostanziale (sentenza n. 194 del 2018) o formale (sentenza n. 150 del 2020), dapprima commisurata alla sola anzianità di servizio. Al giudice è stato restituito un essenziale potere di valutazione delle particolarità del caso concreto, in base a puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento, frutto di una evoluzione normativa risalente e di una prassi collaudata.

Nella fattispecie sottoposta all’odierno scrutinio, la diversa tutela applicabile – che ha implicazioni notevoli – discende invece da un criterio giurisprudenziale che, per un verso, è indeterminato e improprio e, per altro verso, privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento.

Il mutamento della struttura organizzativa dell’impresa che preclude l’applicazione della tutela reintegratoria è riconducibile allo stesso imprenditore che ha intimato il licenziamento illegittimo e può dunque prestarsi a condotte elusive. Tale mutamento, inoltre, può intervenire a distanza di molto tempo dal recesso ed è pur sempre un elemento accidentale, che non presenta alcun nesso con la gravità della singola vicenda di licenziamento.

È, pertanto, manifestamente irragionevole la scelta di riconnettere a fattori contingenti, e comunque determinati dalle scelte del responsabile dell’illecito, conseguenze di notevole portata, che si riverberano sull’alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente indennitaria.

Per costante giurisprudenza di questa Corte (fra le molte, sentenza n. 2 del 1986, punto 8 del Considerato in diritto), ben può il legislatore delimitare l’àmbito applicativo della reintegrazione.

Nondimeno, un criterio distintivo, che fa leva su una mutevole valutazione casistica e su un dato privo di ogni ancoraggio con l’illecito che si deve sanzionare, non si fonda su elementi oggettivi o razionalmente giustificabili e amplifica le incertezze del sistema.

11.– Inoltre, nel demandare a una valutazione giudiziale sfornita di ogni criterio direttivo – perciò altamente controvertibile – la scelta tra la tutela reintegratoria e la tutela indennitaria, la disciplina censurata contraddice la finalità di una equa ridistribuzione delle «tutele dell’impiego», enunciata dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge n. 92 del 2012. L’intento di circoscrivere entro confini certi e prevedibili l’applicazione del più incisivo rimedio della reintegrazione e di offrire parametri precisi alla discrezionalità del giudice rischia di essere vanificato dalla necessità di procedere alla complessa valutazione sulla compatibilità con le esigenze organizzative dell’impresa.

Anche da questo punto di vista, si ravvisa l’irragionevolezza censurata dal Tribunale di Ravenna.

12.– Si deve dichiarare, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al quarto comma del medesimo art. 18.

Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura prospettati dal rimettente.

giovedì 1 aprile 2021

 Come deve essere eccepito l'aliunde perceptum?


Cass. 18/03/2021, n. 7686

In tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che invochi l'aliunde perceptum da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore deve allegare circostanze di fatto specifiche e, ai fini dell'assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative.