sabato 29 aprile 2017

Quali sono le cause ostative al rilascio del Durc?



In base all'art. 8 dm 30 gennaio 2015 le cause ostative alla regolarità sono le seguenti:

1. Ai fini del godimento di benefici normativi e contributivi sono ostative alla regolarità, ai sensi dell'art. 1, comma 1175, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, le violazioni di natura previdenziale ed in materia di tutela delle condizioni di lavoro individuate nell'allegato A, che costituisce parte integrante del presente decreto, da parte del datore di lavoro o del dirigente responsabile, accertate con provvedimenti amministrativi o giurisdizionali definitivi, inclusa la sentenza di cui all'art. 444 del codice di procedura penale. Non rileva l'eventuale successiva sostituzione dell'autore dell'illecito.

2. Il godimento dei benefici normativi e contributivi di cui all'art. 1, comma 1175, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, è definitivamente precluso per i periodi indicati nell'allegato A ed a tal fine non rileva la riabilitazione di cui all'art. 178 del codice penale.

3. Le cause ostative di cui al comma 1 non sussistono qualora il procedimento penale sia estinto a seguito di prescrizione obbligatoria ai sensi degli articoli 20 e seguenti del decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758, e dell'art. 15 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, ovvero di oblazione ai sensi degli articoli 162 e 162-bis del codice penale.

4. Ai fini della regolarità contributiva l'interessato è tenuto ad autocertificare alla competente Direzione territoriale del lavoro, che ne verifica a campione la veridicità, l'inesistenza a suo carico di provvedimenti, amministrativi o giurisdizionali definitivi in ordine alla commissione delle violazioni di cui all'allegato A, ovvero il decorso del periodo indicato dallo stesso allegato relativo a ciascun illecito.

5. Le cause ostative alla regolarità sono riferite esclusivamente a fatti commessi successivamente all'entrata in vigore del decreto ministeriale 24 ottobre 2007 pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana n. 279 del 30 novembre 2007.





Allegato A

ELENCO DELLE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI TUTELA DELLE CONDIZIONI DI LAVORO DI CUI ALL'ARTICOLO 8 LA CUI VIOLAZIONE E' CAUSA OSTATIVA ALLA REGOLARITA'


VIOLAZIONE                                                                 PERIODO DI NON REGOLARITA'
Articolo 437 c.p.                                                               24 mesi
Articolo 589, comma 2,c.p.                                                24 mesi
Articolo 590, comma 3, c.p.                                               18 mesi

Violazione di disposizioni la cui sanzione è prevista
dai seguenti articoli de del dlgs 81 del 2008
55, commi 1, 2 e 5 lett. a), b), c), d);
 68 comma 1 lett. a), b); 
87, commi 1, 2 e 3; 159, commi 1 e 2 lett. a), b); 
165; 170; 178; 
219; 
262 commi 1 e 2 lett. a), b); 
282 commi 1 e 2 lett. a); dlgs  2008, n. 81                          12 mesi

art. 105, comma 1 lett. a) e b), del
D.P.R. n. 320/1956                                                          12 mesi

Articolo 22, comma 12, D.Lgs. n. 286/1998                         8 mesi

Articolo 3, commi da 3 a 5, 
del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 12,
convertito, con modificazioni, 
dalla legge 23 aprile 2002, n. 73                                          6 mesi

Articoli 7 e 9 D.Lgs. n. 66/2003*                                        3 mesi

* Solo se inerente ad un numero di lavoratori almeno pari al 20% del totale della manodopera regolarmente impiegata.

giovedì 27 aprile 2017

In caso si assenza di regolarità contributiva cosa devono comunicare Inail Inps e Casse edili?

Art. 4 dm 30 gennaio 2015 . Assenza di regolarità

1. Qualora non sia possibile attestare la regolarità contributiva in tempo reale e fatte salve le ipotesi di esclusione di cui all'art. 9, l'INPS, l'INAIL e le Casse edili trasmettono tramite PEC, all'interessato o al soggetto da esso delegato ai sensi dell'art. 1 della legge 11 gennaio 1979, n. 12, l'invito a regolarizzare con indicazione analitica delle cause di irregolarità rilevate da ciascuno degli Enti tenuti al controllo.

2. L'interessato, avvalendosi delle procedure in uso presso ciascun Ente, può regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a 15 giorni dalla notifica dell'invito di cui al comma 1. L'invito a regolarizzare impedisce ulteriori verifiche e ha effetto per tutte le interrogazioni intervenute durante il predetto termine di 15 giorni e comunque per un periodo non superiore a 30 giorni dall'interrogazione che lo ha originato.

3. La regolarizzazione entro il termine di 15 giorni genera il Documento in formato «pdf» di cui all'art. 7. (1)

4. Decorso inutilmente il termine di 15 giorni di cui al comma 2 la risultanza negativa della verifica è comunicata ai soggetti che hanno effettuato l'interrogazione con indicazione degli importi a debito e delle cause di irregolarità.


(1)

Art. 7. Contenuti
1. L'esito positivo della verifica di regolarità genera un Documento in formato «pdf» non modificabile avente i seguenti contenuti minimi:
a) la denominazione o ragione sociale, la sede legale e il codice fiscale del soggetto nei cui confronti è effettuata la verifica;
b) l'iscrizione all'INPS, all'INAIL e, ove previsto, alle Casse edili;
c) la dichiarazione di regolarità;
d) il numero identificativo, la data di effettuazione della verifica e quella di scadenza di validità del Documento.
2. Il Documento di cui al comma 1 ha validità di 120 giorni dalla data effettuazione della verifica di cui all'art. 6 ed è liberamente consultabile tramite le applicazioni predisposte dall'INPS, dall'INAIL e dalla Commissione Nazionale Paritetica per le Casse Edili (CNCE) nei rispettivi siti internet.


mercoledì 26 aprile 2017


Quale risarcimento del danno spetta al lavoratore del pubblico impiego in caso d’illegittimo ricorso al lavoro a termine?



Le sezioni unite della cassazione con al sentenza del 15-03-2016, n. 5072 hanno così statuito:

La questione controversa, così delimitata, chiama in causa la normativa del lavoro a tempo determinato alle dipendenze di enti pubblici non economici nel contesto del lavoro pubblico contrattualizzato, la quale, pur articolata in varie disposizioni mutate nel tempo, si è mossa costantemente lungo una direttrice di fondo segnata dall'esigenza costituzionale di conformità al canone espresso dall'art. 97 Cost., u.c., che prescrive che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge. Canone questo che costituisce proiezione del principio di eguaglianza che vuole che tutti, secondo capacità e merito valutati per il tramite di una procedura di concorso, possono accedere all'impiego pubblico e che all'opposto non consente l'accesso in molo stabile per altra via, tanto più se segnata da illegalità.

Essendosi sempre dovuta confrontare con questo principio, la disciplina del lavoro a tempo determinato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, pur in un quadro di tendenziale unitarietà, è risultata connotata da questo elemento differenziale rispetto a quella del lavoro privato dove non vige un simmetrico principio di accesso all'impiego privato stabile mediante procedura di concorso.

Già il D.Lgs. 29 marzo 1993, n. 29, art. 36, comma 4, nel testo modificato dal D.Lgs. 23 dicembre 1993, n. 546, art. 7 - in occasione della c.d. prima privatizzazione del lavoro pubblico - pur in un contesto di radicale riforma tendente ad avvicinare la disciplina di quest'ultimo a quella del lavoro privato, non di meno dettava una regola molto rigida: poneva il divieto alle amministrazioni pubbliche di costituire rapporti di lavoro a tempo determinato per prestazioni superiori a tre mesi, salve disposizioni speciali per settori particolari (come quello del personale della scuola), e stabiliva che le assunzioni effettuate in violazione di tale divieto erano nulle di pieno diritto ed inoltre determinavano responsabilità personali, patrimoniali e disciplinari a carico di chi le aveva disposte.

Successivamente il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 22, comma 8, - in occasione della c.d. seconda privatizzazione del pubblico impiego - ha da una parte ribadito che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. D'altra parte qualificando l'illegittimità come fattispecie anche di illiceità, così andando al di là della sola invalidità per nullità sancita dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 36, comma 4, cit. - ha previsto che il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative; ciò che si verifica per essere stato egli illegittimamente impiegato a tempo determinato. Ed ha aggiunto, come effetto collaterale in chiave sanzionatoria, che le amministrazioni hanno l'obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave.

Analoga disciplina si rinviene nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36; disposizione questa che ha avuto varie formulazione - essendo stata sostituita dapprima dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 3, comma 79, e poi dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, art. 49, - ma che è rimasta invariata in due aspetti che sono fondamentali al fine del decidere la questione in esame e che si ritrovavano già nel D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 22, cit.: da una parte la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori ad opera delle pubbliche amministrazioni non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni; d'altra parte il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative.

Il presupposto legittimante il ricorso a forme di lavoro flessibile, quale quelle del contratto a tempo determinato, che già la L. 9 marzo 2006, n. 80, art. 4, aveva ancorato ad "esigenze temporanee ed eccezionali" delle pubbliche amministrazioni, è confermato negli stessi termini dal secondo comma dell'art. 36 cit., come sostituto dalla L. n. 80 del 2006, art. 49: solo per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego. Ed anzi - precisa il medesimo art. 36, comma 3, così riformulato - al fine di evitare abusi nell'utilizzo del lavoro flessibile, le pubbliche amministrazioni non possono ricorrere all'utilizzo del medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori al triennio nell'arco dell'ultimo quinquennio.

L'interpretazione assolutamente prevalente ha escluso che tale disposizione (l'art. 36 cit.), proprio perchè speciale, sia stata abrogata per effetto dell'emanazione del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, di attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalle organizzazioni intercategoriali a carattere generale UNICE (Unione delle confederazioni delle industrie della Comunità europea), CEEP (Centro europeo dell'impresa a partecipazione pubblica) e CES (Confederazione europea dei sindacati). E da ultimo tale interpretazione ha ricevuto una conferma testuale nel D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, art. 29, comma 4, che, nell'ambito del riordino della disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, ha sancito espressamente che resta fermo quanto disposto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36.

Ripetuto è quindi il principio affermato dalla giurisprudenza (ex plurimis Cass., sez. lav., 15 giugno 2010, n. 14350) secondo cui nel pubblico impiego un rapporto di lavoro a tempo determinato in violazione di legge non è suscettibile di conversione in rapporto a tempo indeterminato, stante il divieto posto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, il cui disposto non è stato modificato dal D.Lgs. n. 368 del 2001, contenente la regolamentazione dell'intera disciplina del lavoro a tempo determinato; ne consegue che, in caso di violazione di norme poste a tutela dei diritti del lavoratore, in capo a quest'ultimo, essendo preclusa la conversione del rapporto, sussiste solo il diritto al risarcimento dei darmi subiti.

6. Al contorno di questi due principi - per cui da una parte la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori a termine, ad opera delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni e d'altra parte il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative (art. 36, comma 5, cit.) stanno varie norme che segnano il contesto in cui questi principi operano e che recano prescrizioni di vario tipo dirette a presidiare l'esatta osservanza delle disposizioni in materia di contratto a termine nelle pubbliche amministrazioni.

Innanzi tutto - prescrive lo stesso D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, le amministrazioni hanno l'obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave.

La L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 3, comma 79, (legge finanziaria 2008), nel riformulare l'art. 36 cit. aveva aggiunto, al sesto comma, la prescrizione per cui le amministrazioni pubbliche che operavano in violazione delle prescrizioni della stessa disposizione non potevano effettuare assunzioni ad alcun titolo per il triennio successivo a tale violazione.

Successivamente la L. 6 agosto 2008, n. 133, art. 49, di conversione in legge del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, nel riformulare ulteriormente l'art. 36 cit., ha aggiunto che i dirigenti che operano in violazione delle prescrizioni della medesima disposizione sono responsabili anche ai sensi dell'art. 21, dello stesso D.L., e che di tali violazioni si sarebbe tenuto conto in sede di valutazione dell'operato del dirigente ai sensi del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 286, art. 5.

Ancora più recentemente nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, sono stati introdotti due commi (commi 5 ter e 5 quater) dal D.L. 31 agosto 2013, n. 101, art. 4, comma 1, lett. b), conv. dalla L. 30 ottobre 2013, n. 125, che - nel ribadire che le disposizioni del D.Lgs. n. 368 del 2001, si applicano alle pubbliche amministrazioni, fermi restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato ed il diritto al risarcimento per il dipendente - hanno stabilito che i contratti di lavoro a tempo determinato posti in essere in violazione della medesima disposizione sono nulli e determinano responsabilità erariale; ed hanno confermato la responsabilità dei dirigenti che operano in violazione delle disposizioni di legge aggiungendo che al dirigente responsabile di irregolarità nell'utilizzo del lavoro flessibile non può essere erogata la retribuzione di risultato.

In sintesi, da una parte il divieto, per le pubbliche amministrazioni, di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato è rimasto come una costante più volte ribadita dal legislatore sicchè non può predicarsi la conversione del rapporto quale "sanzione" dell'illegittima apposizione del termine al rapporto di lavoro o comunque dell'illegittimo ricorso a tale fattispecie contrattuale. D'altra parte il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è risultato essere presidiato - oltre che dall'obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente - anche da disposizioni al contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l'illegittimo ricorso al contratto a termine.

Sicchè può dirsi che l'ordinamento giuridico prevede, nel complesso, "misure energiche" (come richiesto dalla Corte di giustizia, sentenza 26 novembre 2014, C-22/13 ss., Mascolo), fortemente dissuasive, per contrastare l'illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato; ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto tale profilo, della disciplina nazionale.

7. Il profilo comunitario della questione in esame è centrato essenzialmente nel citato accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato). Tale direttiva ha dato attuazione all'accordo quadro tra le associazioni sindacali comunitarie al dichiarato fine di prevenire le discriminazioni e gli abusi del ricorso al contratto a tempo determinato e non già di dettare una normativa comunitaria per tale tipologia di rapporto di lavoro che avrebbe ecceduto le competenze comunitarie. Si tratta di una direttiva "obiettivo", quindi non autoapplicativa: al punto 15 del preambolo è detto chiaramente che la direttiva vincola gli Stati membri quanto all'obiettivo da raggiungere, ma lascia agli stessi la scelta della forma e dei mezzi.

L'obiettivo è quello di uno standard uniforme di tutele del lavoratore per prevenire le discrizionazioni e l'abuso del ricorso al contratto a termine.

Innanzi tutto la clausola 3 fissa il principio della necessaria identificazione delle "condizioni oggettive". Essendo il contratto a tempo indeterminato la fattispecie normale di rapporto di lavoro, il ricorso al contratto a termine deve essere giustificato da "condizioni oggettive". La clausola considera come condizione oggettiva legittimante il ricorso al contratto a termine, oltre al completamento di un compito specifico o al verificarsi di un evento specifico, anche il solo raggiungimento di una certa data.

La clausola 4 pone il principio di non discriminazione tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato, mitigato dal concorrente principio del pro rata temporis.

La clausola 8.3 pone la regola di non regresso per cui, in sede di attuazione della direttiva, non è possibile ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo (talchè essenzialmente in ragione della ineludibile compatibilità con tale prescrizione comunitaria è risultata inammissibile l'iniziativa referendaria diretta a "liberalizzare" il contratto a termine: Corte cost. n. 41 del 2000 che ha dichiarato inammissibile, in quanto avente ad oggetto disposizioni la cui abrogazione avrebbe esposto lo Stato italiano a responsabilità nei confronti della Comunità europea, la richiesta di referendum abrogativo riguardante la L. 18 aprile 1962, n. 230).

Ma quella che maggiormente interessa al fine di decidere la presente controversia è la clausola 5 che prevede misure di prevenzione degli abusi. Il riferimento è alla successione di contratti a termine che possa qualificarsi come abuso. La clausola indica alternativamente le misure idonee a prevenire gli abusi: a) prescrizione di ragioni obiettive per il rinnovo; b) durata massima dei contratti a termine;

c) numero massimo dei rinnovi. La clausola è comunque elastica perchè consente "misure equivalenti" ad una di queste appena indicate.

In base a tale clausola, allo scopo di prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, tranne che non vi siano ragioni obiettive che giustifichino il rinnovo di tali contratti, sono tenuti ad introdurre una o più misure attuative della prevenzione degli abusi, fissando la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi o il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. Ma possono anche introdurre altre prescrizioni parimenti orientate alla prevenzione degli abusi purchè siano qualificabili come "norme equivalenti". Altresì - aggiunge la medesima clausola è possibile una differenziazione che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, così coonestando la compatibilità comunitaria di discipline differenziate quale quella, nell'ordinamento italiano, dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

La clausola 5 nulla dice quanto alle conseguenze dell'eventuale abuso la cui disciplina pertanto è interamente rimessa alla discrezionalità del legislatore nazionale in un ampio e non definito spettro di alternative. La prevenzione dell'abuso implica una reazione con connotazioni, in senso lato, sanzionatorie dell'abuso stesso. Ma queste possono essere, in ipotesi, l'attribuzione di una ragione di risarcimento del danno oppure la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato oppure entrambe. Si potrebbero ipotizzare anche sanzioni amministrative oppure, ibridando il profilo risarcitorio con quello sanzionatorio, potrebbero configurarsi "danni punitivi". Lo spettro è ampio ed ampia è la discrezionalità del legislatore nazionale vincolato solo al parametro delle "misure equivalenti": al fine della compatibilità comunitaria la reazione "sanzionatoria" dell'ordinamento interno deve avere una forza dissuasiva non inferiore alle misure di prevenzione degli abusi previste dalla clausola 5 cit..

8. In attuazione della direttiva è stato emanato il D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES), che ha dettato la nuova disciplina del contratto a termine in conformità alla direttiva (prima del D.Lgs. n. 81 del 2015).

In particolare in attuazione della clausola 3 del suddetto accordo quadro l'art. 1 ha posto la prescrizione generale secondo cui è consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. La giurisprudenza ha poi chiarito, in via interpretativa, le conseguenze della violazione dell'art. 1 a partire da Cass., sez. lav., 21 maggio 2008, n. 12985, che, con riferimento appunto alla fattispecie dell'insussistenza delle ragioni giustificative del termine, ha affermato che, pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza di tali ragioni, si ha che, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonchè alla stregua dell'interpretazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE, l'illegittimità del termine e la nullità della clausola di apposizione dello stesso comportano l'invalidità parziale relativa alla sola clausola e l'instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (id est: conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato).

In attuazione della clausola 4, l'art. 6 ha fissato il principio di non discriminazione rispetto al lavoratore a tempo indeterminato prevedendo che al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato spettano le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo prestato sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine.

Ciò che però maggiormente rileva in causa è l'attuazione della clausola 5 dell'accordo quadro alla quale possono riferirsi gli artt. 4 e 5, rispettivamente sulla disciplina della proroga e sulla successione di contratti a termine; disposizioni dirette appunto a contrastare l'abusivo ricorso al contratto a termine come richiesto dalla clausola 5 dell'accordo quadro.

Da una pane l'art. 4, poi modificato dal D.L. 20 marzo 2014, n. 34, art. 1, comma 1, lett. b), conv, in L. 16 maggio 2014, n. 78, ha previsto che il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive, il cui onere probatorio è a carico del datore di lavoro, e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Da ultimo è stata introdotta la durata complessiva del rapporto a termine che non potrà essere superiore ai tre anni e il cui superamento costituisce un chiaro indice della fattispecie dell'abuso del ricorso al contratto a termine rispetto alla mera illegittimità dell'apposizione del termine al contratto di lavoro (limite poi confermato dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 19, comma 1).

D'altra parte l'art. 5 ha posto una serie di limitazioni alla successione di rapporti a termine prevedendo la conversione del rapporto. Ha stabilito che se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.

Parimenti si considera a tempo indeterminato il secondo contratto qualora il lavoratore venga riassunto a termine entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi. Se invece due assunzioni successive a termine sono senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.

Il cit. D.Lgs. n. 368 del 2001, è stato modificato più volte, da ultimo - prima della sua abrogazione ad opera del D.Lgs. n. 81 del 2015, (con ulteriormente nuova disciplina della materia) - ad opera del D.L. n. 34 del 2014, conv. in L. n. 78 del 2014. Ma nel complesso rimane l'attuazione delle tre clausole dell'accordo quadro suddetto, seppur con contenuti in parte variati. In particolare la fattispecie dell'abuso (clausola 5 dell'accordo quadro e D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5) - inteso come successione di contratti a termine in violazione dei limiti di legge, che è fattispecie "aggravata" rispetto alla mera illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro - viene precisata meglio con l'introduzione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5, comma 4 bis.

Disposizione questa che tipizzando un'ipotesi di abuso del ricorso reiterato a contratti a termine (poi confermata dal D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, art. 19, comma 2, nel nuovo regime del lavoro a tempo determinato) ha previsto che, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato.

L'abusivo ricorso al contratto a termine - ed anzi, più in generale, l'illegittimo ricorso al contratto a termine - è fonte di danno risarcibile per il lavoratore che abbia reso la sua prestazione lavorativa in questa condizione di illegalità. Ma, quando il risarcimento del danno si accompagna alla conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato, il risarcimento del danno è contenuto nella misura fissata dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, che prevede che, in tal caso, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

Quando poi il legislatore con il cit. D.Lgs. n. 81 del 2015, ha ridisciplinato la materia, ha riformulato (all'art. 28) la norma sul risarcimento del danno in termini sostanzialmente analoghi, ribadendo che l'indennità spettante al lavoratore ristora per intero il pregiudizio subito dallo stesso, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.

Nel complesso può dirsi soddisfatta l'esigenza di misure di contrasto dell'abusivo ricorso al termine nei contratti di lavoro, che siano non solo proporzionate, ma anche sufficientemente effettive e dissuasive, esigenza quale si ricava dalla normativa europea nella ricostruzione operatane dalla Corte di giustizia.

9. Rimane però che la reazione dell'ordinamento giuridico all'illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato è, nel lavoro pubblico contrattualizzato, differenziata rispetto a quella nel rapporto di lavoro privato dove è prevista, secondo l'interpretazione di questa Corte, la conversione del rapporto in caso di violazione delle prescrizioni imperative sia della L. 18 aprile 1962, n. 230, (cfr. già Cass., sez. lav., 4 settembre 1981 n. 5046) sia del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368 (cfr. ex plurimis Cass., sez. lav. 23 agosto 2006 n. 18378), oltre al risarcimento del danno che però da ultimo la cit. L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, ha fissato, sostanzialmente limitandolo, in un'indennità compensativa nei termini già sopra indicati, che si applica anche ai fatti pregressi, salvo l'eventuale giudicato.

Quindi vi è una disciplina differenziata tra pubblico e privato che pone un problema di compatibilità sia, nell'ordinamento interno, con il principio di eguaglianza sia. nell'ordinamento sovranazionale, con la disciplina comunitaria. Però può ritenersi per quanto si viene ora a dire - che la questione, nei suoi due profili interno (di costituzionalità) ed europeo (di compatibilità comunitaria), è stata risolta rispettivamente dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e da quella della Corte di giustizia.

10. La Corte costituzionale (sent. 27 marzo 2003, n. 89) ha ritenuto che la disposizione in esame (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36), per la parte in cui non consente, a differenza di quanto accade nel rapporto di lavoro privato, che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori possa dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni, non viola gli artt. 3 e 97 Cost.. E', infatti, giustificata la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di quelle disposizioni conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, dato che il principio dell'accesso mediante concorso - enunciato dall'art. 97 Cost., a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione rende non omogeneo il rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto alle dipendenze di datori privati.

In particolare nella cit. pronuncia la Corte ha enunciato, come criterio generale, che "...il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello... dell'accesso mediante concorso, enunciato dall'art. 97 Cost., comma 3". Ed ha sottolineato che "ffesistenza di tale principio, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione, di cui al primo comma dello stesso art. 97 della Costituzione, di per sè rende palese la non omogeneità - sotto l'aspetto considerato delle situazioni poste a confronto dal rimettente e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati". In termini inequivocabili la Corte ha quindi escluso, sotto questo profilo, l'esigenza di uniformità di trattamento rispetto alla disciplina dell'impiego privato, cui il principio del concorso è del tutto estraneo.

Anche la successiva giurisprudenza costituzionale ha ribadito il principio del pubblico concorso, quale mezzo ordinario e generale di reclutamento del personale delle pubbliche amministrazioni, principio che risponde alla finalità di assicurare "il buon andamento e l'efficacia dell'Amministrazione", valori presidiati dall'art. 97 Cost., commi 1 e 3, (sentenze n. 190 del 2005, n. 205 e n. 34 del 2004 e n. 1 del 1999).

A tale principio il legislatore può derogare solo in casi eccezionali (sentenze n. 320 del 1997, n. 205 del 1996). Secondo il consolidato orientamento della Corte, le deroghe alla regola del pubblico concorso sono sottoposte ad un vaglio di ragionevolezza della scelta operata dal legislatore (sentenze n. 213 e n. 150 del 2010); devono necessariamente essere conformi a peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico (sentenza n. 81 del 2006); infine, devono essere delimitate in modo rigoroso (sentenze n. 9 del 2010, n. 363 del 2006 e n. 194 del 2002). Cfr. più recentemente sent. 299 del 2013 secondo cui " la facoltà del legislatore di introdurre deroghe al principio del concorso pubblico è stata delimitata in modo rigoroso, potendo tali deroghe essere considerate legittime solo quando siano funzionali esse stesse alle esigenze di buon andamento dell'amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle" (conf. sentenze n. 52 del 2011 e n. 195 del 2010).

Oltre al rispetto del parametro diretto costituito dal principio di eguaglianza la Corte (ord. 206 del 2013, sent. n. 89 del 2003) ha avuto modo di verificare anche che la previsione generale, applicabile a tutto il pubblico impiego, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, secondo cui la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la instaurazione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, non confligga con il parametro interposto, ex art. 117 Cost., comma 1, della normativa comunitaria.

Infatti le norme comunitarie possono costituire elementi integrativi del parametro di costituzionalità di cui all'art. 117 Cost., comma 1, quando siano prive di effetto diretto; circostanza questa che ricorre per la clausola 5 del menzionato accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CE, come già rilevato dalla Corte di giustizia (sentenza 15 aprile 2008, C268/06) e dalla stessa Corte costituzionale (sent. 267 del 2013).

Solo per il precariato dei docenti della scuola pubblica, per il quale trova applicazione una disciplina ulteriormente speciale rispetto a quella ora in esame, la Corte (ord. n. 207 del 2013) ha rimesso alla Corte di giustizia dell'Unione europea in via pregiudiziale la questione interpretativa della clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro suddetto con riferimento alla speciale disciplina - che qui non rileva - delle supplenze annuali.

Con riguardo poi al profilo del risarcimento del danno in ragione dell'illegittima apposizione del termine la Corte (sent. n. 303 del 2011) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, sollevata in particolare nella parte in cui il comma 5, stabilisce che, nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il risarcimento del lavoratore illegittimamente estromesso alla scadenza del termine dev'essere ragguagliato ad una indennità onnicomprensiva da liquidare tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, alla stregua dei criteri dettati dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8; indennità onnicomprensiva che - osserva la Corte - "assume una chiara valenza sanzionatoria" essendo dovuta in ogni caso, anche in mancanza di danno e di offerta della prestazione. Nello stesso tempo però - in ragione di quello che la Corte ritiene un "equilibrato componimento dei contrapposti interessi" - è assicurato al datore di lavoro la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d'interruzione del rapporto fino a quella dell'accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso.

La L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 13, ha poi offerto l'interpretazione autentica dell'art. 32, comma 5, cit. chiarendo che l'indennità risarcitoria suddetta limita l'ammontare del risarcimento del danno dovuto a seguito della illegittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro fissandolo nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto e disponendo che esso ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro. La questione di costituzionalità di tale norma di interpretazione autentica è stata ritenuta non fondata da Corte cost. n. 226 del 2014 anche con riferimento alla sua compatibilità, a livello di ordinamento comunitario, con l'accordo quadro suddetto.

Ha posto in rilievo la Corte come la scelta di prevedere un'indennità forfettaria proporzionata risponda all'esigenza di "tutela economica dei lavoratori a tempo determinato più adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi anche al fine di superare le inevitabili divergenze applicative cui aveva dato luogo il sistema previgente". Inoltre - ha sottolineato la Corte - la clausola 8.3 dell'accordo quadro, nell'interpretazione fornita dalla Corte di giustizia, non preclude in via generale modifiche che possano essere ritenute peggiorative del trattamento dei lavoratori a tempo determinato allorchè attraverso di esse il legislatore nazionale persegua obiettivi diversi dalla attuazione dell'accordo quadro.

Peraltro, la stessa Corte ha affermato a più riprese che "la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale" (sentenza n. 148 del 1999), purchè sia garantita l'adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991).

C'è comunque - ha ulteriormente rilevato la Corte - che il ricorso ai criteri indicati dalla L. n. 604 del 1966, art. 8, consente di calibrare l'importo dell'indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell'anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l'indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonchè le stesse dimensioni dell'impresa (immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti).

11. Alla giurisprudenza costituzionale si affianca, quanto alla compatibilità della disciplina interna con la normativa comunitaria, quella della Corte di giustizia dell'Unione Europea. La quale, dopo aver precisato che la menzionata direttiva si applica anche ai contratti e rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi dalle pubbliche amministrazioni, ha pure ribadito, in più pronunce, che la citata clausola 5, punto 1), dell'accordo quadro, non è autoapplicativa non essendo sufficientemente precisa sicchè non può essere direttamente invocata davanti ad un giudice nazionale (sentenza 15 aprile 2008, in causa C-268/06, Impact, e sentenza 23 aprile 2009, in cause da C-378/07 a C-380/07, Angelidaki; cfr. anche ordinanza 1 ottobre 2010 (in causa C3/10, Affatato) e sentenza 26 gennaio 2012 (in causa C-586/10, Kucuk). E parimenti ha ritenuto la compatibilità comunitaria dello speciale regime del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, quanto alla prescrizione secondo cui la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni. La Corte di giustizia ha ritenuto che la direttiva 1999/70/CE e l'accordo quadro ad essa allegato devono essere interpretati nel senso che essi si applicano ai contratti e rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con le amministrazioni e gli altri enti del settore pubblico (sentenze 8 settembre 2011, in causa C-177/10, Rosado Santana; 7 settembre 2006, in causa C-53/04, Marrosu e Sardino; 4 luglio 2006, in causa C-212/04, Adeneler).

Le pronunce della Corte però contengono anche una sorta di riserva, espressa con riferimento al contesto normativo complessivo in cui si inserisce la preclusione alla conversione del rapporto che sconta l'interpretazione del diritto interno da parte dei giudici nazionali:

la compatibilità comunitaria del regime differenziato per i dipendenti a termine delle pubbliche amministrazioni quanto alla preclusione che non consente la conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato deve comunque rispettare il principio dell'equivalenza e quello dell'effettività e dissuasività della reazione dell'ordinamento interno a situazioni di abuso nel ricorso al contratto a termine e quindi della tutela approntata in favore del dipendente pubblico.

In particolare la Corte di giustizia nell'ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C50/13, che richiama precedenti enunciati della stessa Corte (cfr. sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04; del 7 settembre 2006, M. e S., C-53/04; Vassallo, C-180/04, e del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07; nonchè ordinanze del 12 giugno 2008, Vassilakis e a., C-364/07; del 24 aprile 2009, Koukou, C-519/08; del 23 novembre 2009, Lagoudakis e a., da C-162/08, e del 1 ottobre 2010, Affatato, C-3/10) ha ribadito che la clausola 5 dell'accordo quadro non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato. La direttiva del 1999 non contempla alcuna ipotesi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato così "lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia". Neppure la direttiva contiene una disciplina generale del contratto a tempo determinato, ma pone principi specifici che, per gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, valgono come obiettivi da raggiungere ed attuare, tra cui appunto il principio di contrasto dell'abuso del datore di lavoro, privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinato (clausola 5). Questa è la portata dell'accordo quadro e segnatamente della sua clausola 5; precisa infatti la Corte di giustizia (7 settembre 2006, M. e S., C-53/04, cit.) che "l'obiettivo di quest'ultimo è quello di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato".

Quindi il legislatore nazionale avrebbe anche potuto non prevedere in alcun caso - nè nel settore pubblico nè in quello privato - la conversione del rapporto consistente in una successione di contratti a termine connotata dal carattere dell'abusività e sanzionare tale abuso con altre misure diversamente dissuasive e parimenti efficaci.

In questa discrezionalità rientra anche un assetto - quale quello vigente nel nostro ordinamento giuridico - che distingue tra pubblico e privato in ragione di precisi vincoli costituzionali per il legislatore ordinario. La Corte di giustizia sul punto è categorica ed inequivoca: "la clausola 5 dell'accordo quadro non osta, in quanto tale, a che uno Stato membro riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico" (7 settembre 2006, M. e S., C-53/04, cit.), potendo sussistere "ragioni obiettive" che giustificano lo scostamento dell'ordinamento nazionale dai principi da essa stabiliti.

Quindi la compatibilità comunitaria di un regime differenziato pubblico/privato è un punto fermo, che si aggiunge alla compatibilità interna con il canone costituzionale del principio di eguaglianza (Corte cost. n. 89/2003, cit.).

12. Muovendo dalla considerazione che la giurisprudenza della Corte costituzionale, da una parte, e quella della Corte di giustizia, dall'altra, consentono di ritenere verificata la compatibilità costituzionale e comunitaria del regime differenziato del contratto a termine nel pubblico impiego, connotato com'è dalla previsione del pubblico concorso per l'accesso all'impiego e quindi dal divieto di conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato, c'è ora da esaminare - per misurare il grado di effettività della tutela del lavoratore - il profilo del risarcimento del danno in caso di illegittimo o abusivo ricorso al contratto a termine: occorre interrogarsi su cosa si intende per danno risarcibile D.Lgs. n. 165 del 2001 cit. ex art. 36, comma 5.

La norma non aggiunge altro e quindi deve farsi riferimento alla regola generale della responsabilità contrattuale posta dall'art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno deve comprendere così la perdita subita, nella specie dal lavoratore, come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta.

Innanzi tutto - per quanto finora si è detto sull'obbligo del concorso pubblico e sul conseguente divieto di conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato nel caso di rapporto con pubbliche amministrazioni - va precisato che fuori dal risarcimento del danno è la mancata conversione del rapporto. Questa è esclusa per legge e tale esclusione - si è appena detto - è legittima sia secondo i parametri costituzionali (v. sopra sub 10) che quelli europei (v. sopra sub 11). Non ci può essere risarcimento del danno per il fatto che la norma non preveda un effetto favorevole per il lavoratore a fronte di una violazione di norme imperative da parte delle pubbliche amministrazioni. Quindi il danno non è la perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato perchè una tale prospettiva non c'è mai stata: in nessun caso il rapporto di lavoro a termine si potrebbe convertire in rapporto a tempo indeterminato perchè l'accesso al pubblico impiego non può avvenire - invece che tramite di concorso pubblico - quale effetto, sia pur in chiave sanzionatoria, di una situazione di illegalità.

Lo stesso art. 36, comma 5, cit., definisce il danno risarcibile come derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative e non già come derivante dalla perdita di un posto di lavoro. Se la pubblica amministrazione non avesse fatto illegittimo ricorso al contratto a termine, non per questo il lavoratore sarebbe stato assunto a tempo indeterminato senza concorso pubblico.

L'ipotizzata legittima azione della pubblica amministrazione esclude sì l'illegittimo ricorso al contratto a termine, ma esclude anche, per rimanere in un'ipotesi ricostruttiva controfattuale secundum ius, che possa predicarsi l'assunzione in ruolo in violazione dell'obbligo del concorso pubblico per l'accesso al pubblico impiego a tempo indeterminato. Ossia se l'Amministrazione pubblica avesse agito legittimamente non commettendo l'abuso, non avrebbe posto in essere la sequenza di contratti a termine in violazione di legge e il lavoratore non sarebbe stato affatto assunto.

Non c'è quindi un danno da mancata conversione del rapporto e quindi da perdita del posto di lavoro.

13. Il danno è altro.

Il lavoratore, che abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzata illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem, subisce gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi.

Si può soprattutto ipotizzare una perdita di chance nel senso che, se la pubblica amministrazione avesse operato legittimamente emanando un bando di concorso per il posto, il lavoratore, che si duole dell'illegittimo ricorso al contratto a termine, avrebbe potuto parteciparvi e risultarne vincitore. Le energie lavorative del dipendente sarebbero state liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato. Il lavoratore che subisce l'illegittima apposizione del termine o, più in particolare, l'abuso della successione di contratti a termine rimane confinato in una situazione di precarizzazione e perde la chance di conseguire, con percorso alternativo, l'assunzione mediante concorso nel pubblico impiego o la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo indeterminato.

L'evenienza ordinaria è la perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella misura in cui l'illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile.

Ma non può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un'occupazione migliore.

In ogni caso l'onere probatorio di tale danno grava interamente sul lavoratore. Pur potendo operare il regime delle presunzioni semplici (art. 2729 c.c.), però indubbiamente il danno - una volta escluso che possa consistere nella perdita del posto di lavoro occupato a termine - può essere in concreto di difficile prova; di qui il monito della Corte di giustizia con riferimento all'ipotesi dell'abuso del ricorso al contratto a termine.

Occorre allora un'operazione di integrazione in via interpretativa, orientata dalla conformità comunitaria, che valga a dare maggiore consistenza ed effettività al danno risarcibile. Ed è ciò che ha fatto la giurisprudenza di questa Corte pervenendo però a conclusioni non univoche (di cui si è detto sub 4).

14. Si è sottolineato sopra - all'esito della ricostruzione del quadro normativo di riferimento nell'ordinamento interno - che sono previste, nel complesso, "misure energiche" fortemente dissuasive per contrastare l'illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato.

Ma il pur forte carattere dissuasivo di queste misure (sia quella risarcitoria, sia quelle di indiretto presidio della legalità dell'azione dell'Amministrazione pubblica) secondo in particolare la ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13 della Corte di giustizia - non è sufficiente per assicurare il rispetto della clausola 5 del cit. accordo quadro ove il lavoratore, "il quale desideri ottenere il risarcimento del danno sofferto, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, non goda di nessuna presunzione d'esistenza di un danno e, di conseguenza, debba dimostrare concretamente il medesimo" (così la censura del giudice rimettente che la Corte di giustizia mostra di condividere). La Corte riconosce che "spetta al giudice del rinvio, l'unico competente a pronunciarsi sull'interpretazione del diritto interno, valutare in che misura le disposizioni di tale diritto miranti a punire il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato rispettino i principi di effettività ed equivalenza". Ma c'è un monito ben preciso: la clausola 5 dell'accordo quadro osta a "una normativa nazionale..., la quale, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all'obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall'ordinamento dell'Unione.

15. E' questo un snodo decisivo della questione portata all'esame di queste sezioni unite.

A livello di normativa interna la prova del danno grava sul lavoratore che eserciti in giudizio la pretesa risarcitoria regolata dalla disciplina codicistica (art. 1223 c.c.). La circostanza che effettivamente il lavoratore abbia difficoltà a provare il danno subito, che consiste essenzialmente nella perdita di chance di un'occupazione migliore, costituisce un inconveniente di mero fatto che non mina la legittimità - si ripete, a livello interno - di tale normativa applicata a questa fattispecie.

Se però ci si sposta a livello comunitario, la situazione è differente ed è tale in ragione proprio del ricordato monito della giurisprudenza della Corte di giustizia: la difficoltà della prova non può dirsi che costituisca un inconveniente di mero fatto, ma in caso di abusivo ricorso al contratto a termine che va prevenuto con misure equivalenti, di efficacia non inferiore a quelle previste dalla clausola 5 del citato accordo quadro - ridonda in deficit di adeguamento della normativa interna a quella comunitaria e quindi in violazione di quest'ultima; la quale, per essere (pacificamente) non autoapplicativa, opererebbe non di meno come parametro interposto ex art. 117 Cost., comma 1, e potrebbe inficiare la legittimità costituzionale della norma interna (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5) che tale pretesa risarcitoria disciplina in termini comunitariamente inadeguati nel caso di abuso nella successione di contratti a termine.

16. Ma prima di sollevare l'incidente di costituzionalità - e come condizione preliminare di ammissibilità - c'è da sperimentare la possibilità di un'interpretazione adeguatrice che, con riferimento all'ipotesi dell'abuso, che costituisce una illegittimità qualificata, consenta di rinvenire nell'ordinamento nazionale un regime risarcitorio di tale abuso che soddisfi quell'esigenza di tutela del lavoratore evidenziata dalla Corte di giustizia.

L'interpretazione adeguatrice, orientata alla conformità costituzionale della normativa ordinaria, si muove comunque nel perimetro delle interpretazioni plausibili e non svincola del tutto il giudice dal dato positivo della norma interpretata. Sussiste - si è osservato - un limite all'interpretazione adeguatrice al di là della quale c'è solo l'incidente di costituzionalità (cfr., in altra materia, Corte cost. n. 77 del 2007).

Ed allora la verifica di una disciplina comunitariamente adeguata va ricercata - e, se rinvenuta, non c'è necessità di sollevare la questione di costituzionalità che risulterebbe altrimenti inammissibile - in un ambito normativo omogeneo, sistematicamente coerente e strettamente contiguo, che è quello del risarcimento del danno nel rapporto a tempo determinato nel lavoro privato e non già in quella del risarcimento del danno in caso di licenziamento illegittimo in cui sia stata ordinata la reintegrazione nel posto di lavoro L. 20 maggio 1970, n. 300, ex art. 18, (Statuto dei lavoratori), nè in quella di licenziamento parimenti illegittimo in cui sia stata ordinata dal giudice la riassunzione L. n. 604 del 1966, ex art. 8, e neppure in quella di licenziamento illegittimo in cui non possa essere ordinata la reintegrazione ma ci sia solo una compensazione economica (L. n. 92 del 2012, art. 1, e successivamente, per i contratti di lavoro a tutele crescenti, D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3).

L'ipotesi del licenziamento evoca la perdita del posto di lavoro che nella fattispecie del lavoro pubblico contrattualizzato - per quanto sopra diffusamente argomentato - è esclusa in radice dalla legge ordinaria (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 cit.) in ottemperanza di un precetto costituzionale sull'agire della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) in stretta connessione con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost., comma 1). Il dipendente pubblico che subisce la precarizzazione per effetto di una successione di contratti a termine connotata da abusività non perde alcun posto di lavoro alle dipendenze dell'Amministrazione pubblica per la quale ha lavorato ed al quale non avrebbe mai avuto diritto non avendo superato il vaglio di un concorso pubblico per un posto stabile.

Il danno per il dipendente pubblico - come già rilevato - è altro:

il lavoratore a termine nel pubblico impiego, se il termine è illegittimamente apposto, perde la chance della occupazione alternativa migliore e tale è anche la connotazione intrinseca del danno, seppur più intenso, ove il termine sia illegittimo per abusiva reiterazione dei contratti.

Ma l'esigenza di conformità alla cit. direttiva del 1999 richiede di differenziare. In questo secondo caso - di abuso nella reiterazione dei contratti a termine - occorre anche una disciplina concretamente dissuasiva che abbia, per il dipendente, la valenza di una disciplina agevolativa e di favore, la quale però non può essere ricercata nell'ambito della fattispecie del licenziamento illegittimo, perchè questa implica la illegittima perdita di un posto di lavoro a tempo indeterminato, mentre la fattispecie in esame, all'opposto, esclude in radice che ci sia il mancato conseguimento di un posto di lavoro a tempo indeterminato stante la preclusione nascente dall'obbligo del concorso pubblico per l'accesso al pubblico impiego.

La fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, è invece quella della cit. L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, che prevede - per l'ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato che "il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8" (in tal senso già Cass. 21 agosto 2013, n. 19371).

La misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, è proprio in questa agevolazione della prova da ritenersi in via di interpretazione sistematica orientata dalla necessità di conformità alla clausola 5 del più volte cit. accordo quadro: il lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo.

La trasposizione di questo canone di danno presunto esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario (così già Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481 e 3 luglio 2015, n. 13655) nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale; essa quindi esaurisce l'esigenza di interpretazione adeguatrice. La quale si ferma qui e non si estende anche alla regola della conversione, pure prevista dall'art. 32, comma 5, cit., perchè - si ripete - la mancata conversione è conseguenza di una norma legittima, che anzi rispecchia un'esigenza costituzionale, e che non consente di predicare un (inesistente) danno da mancata conversione.

In sintesi, il richiamo alla disciplina del licenziamento illegittimo, sia quella dell'art. 8 della legge n. 604/66 che dell'art. 18 della legge n. 300/1970, che altresì, in ipotesi, quella del regime indennitario in caso di contratto di lavoro a tutele crescenti (D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3), è incongruo perchè per il dipendente pubblico a termine non c'è la perdita di un posto di lavoro. Può invece farsi riferimento all'art. 32, comma 5, cit. che appunto riguarda il risarcimento del danno in caso di illegittima apposizione del termine.

17. Deve aggiungersi che solo apparentemente può sembrare che il lavoratore privato consegue - in termini di tutela approntata dall'ordinamento - qualcosa di più (la conversione del rapporto e quindi la reintegrazione nel posto di lavoro oltre all'indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5, cit.) rispetto al lavoratore pubblico (al quale è riconosciuto solo il risarcimento del danno da quantificarsi innanzi tutto nella misura della stessa indennità risarcitoria).

In realtà così non è.

L'indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5, cit. ha una diversa valenza secondo che sia collegata, o no, alla conversione del rapporto.

Per il lavoratore privato l'indennizzo ex art. 32, comma 5, è in chiave di contenimento del danno risarcibile per essere - o poter essere - l'indennizzo meno del danno che potrebbe conseguire il lavoratore secondo i criteri ordinari; contenimento che è risultato essere compatibile con i parametri costituzionali degli artt. 3, 4 e 24 Cost., (Corte cost. n. 303 del 2011, cit.).

Per il lavoratore pubblico invece l'indennizzo ex art. 32, comma 5, è, all'opposto, in chiave agevolativa, di maggior tutela nel senso che, in quella misura, risulta assolto l'onere della prova del danno che grava sul lavoratore.

L'esigenza di interpretazione orientata alla compatibilità comunitaria, che secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia richiede un'adeguata reazione dell'ordinamento che assicuri effettività alla tutela del lavoratore, sì che quest'ultimo non sia gravato da un onere probatorio difficile da assolvere, comporta che è su questo piano che tale interpretazione adeguatrice deve muoversi per ricercare dal sistema complessivo della disciplina del rapporto a tempo determinato una regola che soddisfi l'esigenza di tutela suddetta. L'indennità ex art. 32, comma 5, quindi, per il dipendente pubblico che subisca l'abuso del ricorso al contratto a tempo determinato ad opera di una pubblica amministrazione, va ad innestarsi, nella disciplina del rapporto, in chiave agevolativa dell'onere probatorio del danno subito e non già in chiave di contenimento di quest'ultimo, come per il lavoratore privato.

In sostanza il lavoratore pubblico - e non già il lavoratore privato - ha diritto a tutto il risarcimento del danno e, per essere agevolato nella prova (perchè ciò richiede l'interpretazione comunitariamente orientata), ha intanto diritto, senza necessità di prova alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato dall'onere probatorio, all'indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5. Ma non gli è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perchè impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato.

Invece il lavoratore privato non ha questa possibilità e questa restrizione è stata ritenuta costituzionalmente non illegittima (Corte cost. n. 303 del 2011, cit.) considerandosi che egli ha comunque diritto alla conversione del rapporto.

18. Per tutte le ragioni sopra esposte il ricorso va accolto avendo la Corte d'appello commisurato il danno risarcibile, spettante ai lavoratori controricorrenti, parametrandolo, invece, alla fattispecie della perdita del posto di lavoro nell'impiego privato in caso di licenziamento illegittimo.

Va conseguentemente cassata l'impugnata pronuncia con rinvio alla corte d'appello di Genova in diversa composizione che si adeguerà al seguente principio di diritto: Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall'onere probatorio nella misura e nei limiti di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, e quindi nella misura pari ad un'indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

martedì 25 aprile 2017

L'art. 29 del Dlgs 276 del 2003 si applica alle società  di proprietà pubblica che appicano il codice degli appalti?


Secondo la cassazione: 

“Sicchè, ben a ragione si deve ritenere applicabile il regime di responsabilità solidale stabilito dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2 a quei soggetti privati, quale Trenitalia s.p.a., anche qualora committenti in appalti pubblici, alla cui disciplina pure siano soggetti. Ed infatti, nessuna incompatibilità è ravvisabile tra le due discipline. Il D.Lgs. n. 276 del 2003 regola la materia dell'occupazione e del mercato del lavoro, sul piano della tutela delle condizioni dei lavoratori, con riserva di una più forte protezione ad essi, titolari di un'azione diretta nei confronti (in via solidale con il proprio datore di lavoro) del committente per ottenere i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti in dipendenza dell'appalto e non soltanto, come a norma del D.P.R. n. 207 del 2010, art. 5, comma 1, le retribuzioni arretrate (peraltro nei limiti delle somme dovute all'esecutore del contratto ovvero al subappaltatore inadempiente nel caso in cui sia previsto il pagamento diretto, con detrazione da queste del loro importo): e ciò non per riconoscimento di un proprio diritto, ma per esercizio di una facoltà ("possono pagare anche in corso d'opera") attribuita ai soggetti indicati dall'art. 3, comma 1, lett. b) D.P.R. cit. ("amministrazioni aggiudicatrici, organismi di diritto pubblico, enti aggiudicatori, altri soggetti aggiudicatori, soggetti aggiudicatori e stazioni appaltanti: i soggetti indicati rispettivamente dall'art. 3, commi 25, 26, 29, 31, 32 e 33, del codice"). Il D.Lgs. n. 163 del 2006 opera, invece, sul diverso piano della disciplina degli appalti pubblici, anche apprestando una tutela ai lavoratori, nei limiti detti, in corso d'opera, ma con più intensa concentrazione sull'esecuzione dell'appalto in conformità a tutti gli obblighi previsti dalla legge: e ciò mediante un costante monitoraggio dell'osservanza del loro regolare adempimento a cura dell'appaltatore e dei suoi subappaltatori, per effetto di una disciplina sintomatica di una più preoccupata attenzione legislativa alla corretta esecuzione dell'appalto pubblico, siccome non riguardante soltanto diritti dei lavoratori, ma anche l'appaltatore inadempiente nel suo rapporto con il committente pubblico (come osservato anche da Cass. 7 luglio 2014, n. 15432). Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente la possibilità di un concorso, nei confronti di un imprenditore soggetto di diritto privato come Trenitalia s.p.a., delle due discipline, in assenza di un espresso divieto di legge e tra loro, per le ragioni dette, ben compatibili”. Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 24-05-2016, n. 10731

Tale orientamento è stato confermato anche dalla recente Cassazione 2017 n. 8959 che accogliendo il ricorso presentato dal lavoratore ha statuito:

“che quindi è stato ritenuto a ragione applicabile il regime di responsabilità solidale stabilito dall'art. 29, secondo comma d. lgs. 276/2003 a quei soggetti privati, quale Trenitalia s.p.a., anche qualora committenti in appalti pubblici, alla cui disciplina pure siano soggetti, essendo stata esclusa ogni incompatibilità tra le due discipline;

sabato 22 aprile 2017

Il lavoratore può rinunciare a diritti non ancora entrati nel proprio patrimonio?

Secondo la Cassazione

“In caso di collocamento in mobilità, il verbale di conciliazione con il quale i lavoratori abbiano rinunziato alle possibili rivendicazioni economiche e normative relative al pregresso rapporto di lavoro non comporta la valida rinunzia ai diritti futuri concernenti il nuovo rapporto di lavoro instaurato, né del diritto di chiedere l'accertamento dell'effettiva natura di detto rapporto e dell'eventuale violazione della disciplina in materia di intermediazione di manodopera, dovendosi escludere che la conciliazione possa riguardare diritti non ancora entrati nel patrimonio del prestatore di lavoro”. (Cassa con rinvio, App. Roma, 22/10/2007) Cass. civ. Sez. lavoro, 08/09/2011, n. 18405

“La rinuncia del lavoratore subordinato a diritti futuri ed eventuali è radicalmente nulla ai sensi dell'art. 1418 c.c. e non annullabile previa impugnazione da proporsi nel termine di cui all'art. 2113 c.c., riferendosi tale ultima norma ad atti dispositivi di diritti già acquisiti e non ad una rinuncia preventiva, come tale incidente sul momento genetico dei suddetti diritti”. Cass. civ. Sez. lavoro 14/12/1998, n. 12548

“La rinuncia preventiva del lavoratore subordinato a futuri, eventuali e non precisati diritti, è radicalmente nulla ai sensi dell'art. 1418 c. c., e non semplicemente annullabile con l'esercizio della facoltà di impugnazione nel termine perentorio previsto dall'art. 2113 c. c., disposizione che concerne i diritti maturati, concreti e individuati dal rinunciante”. Cass. civ. Sez. lavoro, 15/02/1988, n. 1622

Nella giurisprudenza di merito:

“Le rinunce contenute nella conciliazione intervenuta tra lavoratore e parte datoriale assumono rilievo solo fino alla data della stessa, poiché la rinuncia avente ad oggetto il diritto eventuale e futuro al risarcimento di danni è radicalmente nulla ex art. 1418 c.c. e, dunque, sottratta alla disciplina dell'art. 2113 c.c., nella parte in cui sanziona con l'annullamento le rinunzie e le transazioni aventi ad oggetto diritti indisponibili già acquisiti al patrimonio del lavoratore”. Trib. Campobasso Sez. lavoro, 10/03/2014

“La rinuncia del lavoratore subordinato a diritti futuri ed eventuali è radicalmente nulla, ai sensi dell'art. 1418 c.c., e non annullabile previa impugnazione da proporsi nel termine di cui all'art. 2113 c.c., riferendosi tale ultima norma ad atti dispositivi di diritti già acquisiti e non ad una rinuncia preventiva, come tale incidente sul momento genetico dei suddetti diritti”. T.A.R. Sicilia Catania Sez. I, 05/09/2002, n. 1547

“La rinunzia avente a oggetto il diritto eventuale e futuro al risarcimento di danni è radicalmente nulla ex art. 1418 c.c. e dunque sottratta alla disciplina dell'art. 2113 c.c, il quale sanziona con l'annullamento le rinunzie e transazioni aventi a oggetto diritti indisponibili già acquisiti al patrimonio del lavoratore”. Trib. Milano, 26/08/2005

giovedì 20 aprile 2017



Come sono regolamentati gli assegni ai nuclei familiari?


In base all'art. 65 della legge 448 del 1998: 

1. Con effetto dal 1° gennaio 1999, in favore dei nuclei familiari composti da cittadini italiani e dell'Unione europea residenti, da cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, nonché dai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, con tre o più figli tutti con età inferiore ai 18 anni, che risultino in possesso di risorse economiche non superiori al valore dell'indicatore della situazione economica (ISE), di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, tabella 1, pari a lire 36 milioni annue con riferimento a nuclei familiari con cinque componenti, è concesso un assegno sulla base di quanto indicato al comma 3. Per nuclei familiari con diversa composizione detto requisito economico è riparametrato sulla base della scala di equivalenza prevista dal predetto decreto legislativo n. 109 del 1998, tenendo anche conto delle maggiorazioni ivi previste.

2. L'assegno di cui al comma 1 è concesso dai comuni, che ne rendono nota la disponibilità attraverso pubbliche affissioni nei territori comunali, ed è corrisposto a domanda. L'assegno medesimo è erogato dall'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) sulla base dei dati forniti dai comuni, secondo modalità da definire nell'ambito dei decreti di cui al comma 6. A tal fine sono trasferite dal bilancio dello Stato all'INPS le somme indicate al comma 5, con conguaglio, alla fine di ogni esercizio, sulla base di specifica rendicontazione. 

3. L'assegno di cui al comma 1 è corrisposto integralmente, per un ammontare di 200.000 lire mensili e per tredici mensilità, per i valori dell'ISE del beneficiario inferiori o uguali alla differenza tra il valore dell'ISE di cui al comma 1 e il predetto importo dell'assegno su base annua. Per valori dell'ISE del beneficiario compresi tra la predetta differenza e il valore dell'ISE di cui al comma 1 l'assegno è corrisposto in misura pari alla differenza tra l'ISE di cui al comma 1 e quello del beneficiario, e per importi annui non inferiori a 20.000 lire. 

4. Gli importi dell'assegno e dei requisiti economici di cui al presente articolo sono rivalutati annualmente sulla base della variazione dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati.

5. Per le finalità del presente articolo è istituito un Fondo presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, la cui dotazione è stabilita in lire 390 miliardi per l'anno 1999, in lire 400 miliardi per l'anno 2000 e in lire 405 miliardi a decorrere dall'anno 2001.

6. Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con uno o più decreti del Ministro per la solidarietà sociale, di concerto con i Ministri del lavoro e della previdenza sociale e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, sono emanate le necessarie norme regolamentari per l'applicazione del presente articolo, inclusa la determinazione dell'integrazione dell'ISE, con l'indicatore della situazione patrimoniale.

mercoledì 19 aprile 2017

I diritti nascenti da un medesimo rapporto di lavoro possono essere azionati con diversi giudizi?



Ecco la decisione della Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 16-02-2017, n. 4090

1.Con un unico motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2909 c.c., e art. 111 Cost., la società ricorrente - premesso che la domanda azionata in questo processo è stata preceduta da altra domanda, anch'essa proposta dal lavoratore nei confronti della società datrice di lavoro dopo la cessazione del rapporto, intesa ad ottenere la rideterminazione del TFR tenendo conto di alcune voci retributive percepite in via continuativa; che successivamente l' A. ha proposto il presente giudizio volto al ricalcolo del premio fedeltà senza motivare in alcun modo la scelta di "parcellizzare" i giudizi; che entrambe le domande scaturiscono da un unico rapporto obbligatorio intercorrente tra la società e l' A. ed avente ad oggetto il contratto di lavoro; che il lavoratore al momento dell'attivazione della prima vertenza era nelle condizioni di fatto e di diritto per far valere entrambe le pretese e non aveva addotto alcuna ragione a sostegno della scelta di promuovere giudizi separati- ha sostenuto che la domanda proposta nel presente giudizio viola il divieto di abuso del processo per indebito frazionamento quale affermato dalle Sezioni unite nella sentenza n. 23726 del 2007.

Con ordinanza interlocutoria n. 1251 del 2016 il collegio della sezione lavoro di questa Corte ha dato atto che, con le decisioni numeri 11256 e 27064 del 2013, altri collegi hanno sostenuto che il principio affermato dalle sezioni unite con la sentenza n. 23726 del 2007 secondo la quale è vietato l'indebito frazionamento di pretese dovute in forza di un "unico rapporto obbligatorio" - è applicabile (anche) nelle ipotesi in cui siano avanzate diverse pretese creditorie derivanti da un medesimo rapporto di lavoro, fonte unitaria di obblighi e doveri per le parti e produttivo di crediti collegabili unitariamente alla loro genesi - la volontà delle parti di stipulare un contratto di natura subordinata ex art. 2094 c.c.-: collegamento, questo, ancora più stringente nel caso di controversie promosse entrambe a rapporto concluso, quando il complesso di obbligazioni derivanti dal contratto è ormai noto e consolidato.

Non condividendo l'equiparazione del fascio di rapporti obbligatori retributivi e risarcitori - derivanti dal rapporto di lavoro al "rapporto unico" considerato dalla citata sentenza delle Sezioni unite, nè la sussistenza dei presupposti per imporre al creditore di agire in un unico contesto in relazione a crediti diversi connessi solo in virtù di una complessiva relazione negoziale o legale, e dubitando a fortiori che dalla proposizione in differenti giudizi di una pluralità di domande concernenti diversi crediti, pur riferibili ad un medesimo rapporto di lavoro ormai cessato, possa farsi derivare l'improponibilità delle domande successive alla prima, il predetto collegio ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'assegnazione del ricorso alle Sezioni unite.

2. Risulta sottoposta allo scrutinio delle Sezioni unite la questione "se, una volta cessato il rapporto di lavoro, il lavoratore debba avanzare in un unico contesto giudiziale tutte le pretese creditorie che sono maturate nel corso del suddetto rapporto o che trovano titolo nella cessazione del medesimo e se il frazionamento di esse in giudizi diversi costituisca abuso sanzionabile con l'improponibilità della domanda".

Con la sentenza n. 23726 del 2007 le Sezioni unite sono intervenute sulla questione e, mutando il precedente orientamento (sent. n. 108 del 2000), hanno affermato che non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di "un unico rapporto obbligatorio", frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo. Tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale aggravamento della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede sia con il principio costituzionale del giusto processo, in quanto la parcellizzazione della domanda diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria si traduce in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale.

Più recentemente le Sezioni unite, con la sentenza n. 26961 del 2009 (pronunciata in tema di giurisdizione), riferendosi alle obbligazioni pecuniarie nascenti da un unico rapporto di lavoro, hanno ribadito quanto affermato dalla sentenza n. 23726 del 2007, sostenendo che costituisce principio generale la regola secondo la quale "la singola obbligazione" va adempiuta nella sua interezza ed in un'unica soluzione, dovendosi escludere che la stessa possa, anche nell'eventuale fase giudiziaria, essere frazionata dal debitore o dal creditore.

Come emerge con chiarezza dalla lettura delle sentenze suddette, quando le sezioni unite hanno discusso di (in)frazionabilità del credito si sono riferite sempre ad un singolo credito, non ad una pluralità di crediti facenti capo ad un unico rapporto complesso. Pertanto solo una interpretazione dell'espressione "unico rapporto obbligatorio", avulsa dal contesto nel quale essa è inserita, può indurre a ritenere che nella sentenza n. 23726 del 2007 il principio di infrazionabilità sia stato espressamente affermato non (soltanto) in relazione ad un singolo credito, bensì (anche) in relazione ad una pluralità di crediti riferibili ad un unico rapporto di durata.

Risulta inoltre evidente che l'infrazionabilità del singolo diritto di credito (decisamente condivisibile, nella considerazione che la parte può disporre della situazione sostanziale ma non dell'oggetto del processo, da relazionarsi al diritto soggettivo del quale si lamenta la lesione, in tutta l'estensione considerata dall'ordinamento) non comporta inevitabilmente (tanto meno implicitamente) la necessità di agire nel medesimo, unico processo per diritti di credito diversi, distinti ed autonomi, anche se riferibili ad un medesimo rapporto complesso tra le stesse parti.

I rilievi che precedono non esimono tuttavia le Sezioni unite dal dare risposta al quesito sopra prospettato (se il lavoratore, una volta cessato il rapporto di lavoro, debba avanzare in un unico processo tutte le pretese creditorie maturate nel corso del medesimo rapporto - quindi, più in generale, se debbano essere richiesti nello stesso processo tutti i crediti concernenti un unico rapporto di durata - e se la proposizione delle domande relative in giudizi diversi comporti l'improponibilità di quelle successive alla prima).

Tale risposta non può che essere negativa con riguardo ad entrambi i profili considerati.

3. La tesi secondo la quale più crediti distinti, ma relativi ad un medesimo rapporto di durata, debbono essere necessariamente azionati tutti nello stesso processo non trova, infatti, conferma nella disciplina processuale, risultando piuttosto questa costruita intorno a una prospettiva affatto diversa.

Il sistema processuale risulta, invero, strutturato su di una ipotesi di proponibilità in tempi e processi diversi di domande intese al recupero di singoli crediti facenti capo ad un unico rapporto complesso esistente tra le parti, come autorizza a ritenere la disciplina di cui agli artt. 31, 40 e 104 c.p.c., in tema di domande accessorie, connessione, proponibilità nel medesimo processo di più domande nei confronti della stessa parte. Ulteriori argomenti in tal senso possono trarsi dalla contemplata possibilità di condanna generica ovvero dalla prevista necessità, ex art. 34 c.p.c., di esplicita domanda di parte perchè l'accertamento su questione pregiudiziale abbia efficacia di giudicato. D'altro canto, l'elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria in tema di estensione oggettiva del giudicato - in relazione alla preclusione per le questioni rilevabili o deducibili - perderebbe gran parte di significato se dovesse ritenersi improponibile qualunque azione per il recupero di un credito solo perchè preceduta da altra, intesa al recupero di credito diverso e tuttavia riconducibile ad uno stesso rapporto di durata tra le medesime parti, a prescindere dal passaggio in giudicato della decisione sul primo credito o comunque dalla inscrivibilità della diversa pretesa creditoria successivamente azionata nel medesimo ambito oggettivo di un giudicato in fieri tra le stesse parti relativo al medesimo rapporto di durata.

La mancanza di una specifica norma che autorizzi a ritenere comminabile la grave sanzione della improponibilità della domanda per il creditore che abbia in precedenza agito per il recupero di diverso credito, sia pure riguardante lo stesso rapporto di durata, e, soprattutto, la presenza nell'ordinamento di numerose norme che autorizzano, invece, l'ipotesi contraria, rafforzano la fondatezza ermeneutica della soluzione.

Per altro verso, una generale previsione di improponibilità della domanda relativa ad un credito dopo la proposizione da parte dello stesso creditore di domanda riguardante altro e diverso credito, ancorchè relativo ad un unico rapporto complesso, risulterebbe ingiustamente gravatoria della posizione del creditore, il quale sarebbe costretto ad avanzare tutte le pretese creditorie derivanti da un medesimo rapporto in uno stesso processo (quindi in uno stesso momento, dinanzi al medesimo giudice e secondo la medesima disciplina processuale); con conseguente indebita sottrazione alla autonoma disciplina prevista per i diversi crediti vantati e perdita, ad esempio, della possibilità di agire in via monitoria per i crediti muniti di prova scritta o di agire dinanzi al giudice competente per valore per ciascuno dei crediti - quindi di fruire del più semplice e spedito iter processuale eventualmente previsto dinanzi a quel giudice-, e con possibile esposizione alla necessità di "scegliere" di proporre (o meno) una tempestiva insinuazione al passivo fallimentare, col rischio di improponibilità di successive insinuazioni tardive per altri crediti.

Che la perdita della possibilità di fruire di riti più "snelli" per recuperare i propri crediti costituisca perdita di una importante "caratteristica" di tali crediti (i.e. la pronta "realizzabilità" sul piano processuale), nonchè vanificazione della pre-valutazione del legislatore circa la possibilità, in determinate condizioni, di un rito diverso e più spedito, trova conferma in alcune recenti pronunce di questa Corte (v. Cass. nn. 22574 del 2016 e 10177 del 2015), nelle quali si è affermato che il creditore può, finanche in relazione ad un singolo, unico credito, agire con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento sommario di cognizione per la parte residua senza incorrere in un abuso dello strumento processuale per frazionamento del credito.

In ogni caso, l'onere di agire contestualmente per crediti distinti, che potrebbero essere maturati in tempi diversi, avere diversa natura (ad esempio - come frequentemente accade in relazione ad un rapporto di lavoro - retributiva e risarcitoria), essere basati su presupposti in fatto e in diritto diversi e soggetti a diversi regimi in tema di prescrizione o di onere probatorio, oggettivamente complica e ritarda di molto la possibilità di soddisfazione del creditore, traducendosi quasi sempre non in un alleggerimento bensì - in un allungamento dei tempi del processo, dovendo l'istruttoria svilupparsi contemporaneamente in relazione a numerosi fatti, ontologicamente diversi ed eventualmente tra loro distanti nel tempo.

E' verosimile che per questa via il processo (lungi dal costituire un agile strumento di realizzazione del credito) finisca per divenire un contenitore eterogeneo smarrendo ogni duttilità, in violazione del principio di economia processuale, inteso come principio di proporzionalità nell'uso della giurisdizione.

E' infine il caso di evidenziare che l'affermazione di un principio generale di necessaria azione congiunta per tutti i diversi crediti nascenti da un medesimo rapporto di durata, a pena di improponibilità delle domande proposte successivamente alla prima, sarebbe suscettibile di arrecare pregiudizievoli conseguenze per l'economia.

Se, infatti, si ha riguardo in prospettiva non solo ai crediti derivanti dai rapporti di lavoro, ma a tutti i crediti riferibili a rapporti di durata, anche tra imprese (consulenza, assicurazione, locazione, finanziamento, leasing), l'idea che essi debbano ineluttabilmente essere tutti veicolati - pena la perdita della possibilità di farli valere in giudizio - in un unico processo monstre (meno "spedito" dei processi adeguati per i singoli, differenti crediti) risulta incompatibile con un sistema inteso a garantire l'agile soddisfazione del credito, quindi a favorire la circolazione del danaro e ad incentivare gli scambi e gli investimenti.

4. Le considerazioni che precedono non esauriscono l'analisi della problematica in esame.

La disciplina codicistica - relativa, tra l'altro, a connessione, domande accessorie, preclusione da giudicato -, sopra richiamata perchè idonea a testimoniare di un sistema che "contempla" - e perciò autorizza - l'ipotesi di diverse domande proposte in tempi e processi differenti con riguardo a crediti (diversi e tuttavia) riferibili ad un medesimo rapporto di durata, si presta in realtà ad una significativa lettura speculare.

Se è vero, infatti, che la citata disciplina ipotizza la proponibilità delle pretese creditorie suddette in processi (e tempi) diversi, è anche vero che essa è univocamente intesa a consentire, ove possibile, la trattazione unitaria dei suddetti processi e comunque ad attenuare o elidere gli inconvenienti della proposizione e trattazione separata dei medesimi.

L'ordinamento guarda con particolare attenzione alle domande connesse che, pur legittimamente, siano state proposte separatamente, e, con riguardo alle domande inscrivibili nel medesimo "ambito" oggettivo di un ipotizzabile giudicato, pur non escludendone la separata proponibilità, prevede, tuttavia, un meccanismo di "preclusione" dopo il passaggio in cosa giudicata della sentenza che chiude uno dei giudizi, e comunque uno specifico rimedio impugnatorio per la sentenza contraria a precedente giudicato tra le stesse parti, con una disciplina dettata dall'esigenza di evitare, ove possibile, la "duplicazione" di attività istruttoria e decisoria, il rischio di giudicati contrastanti, la dispersione dinanzi a giudici diversi della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale. Di tale esigenza si è espressamente fatta carico la giurisprudenza di queste Sezioni unite (v. in particolare, tra le altre, S.u. n. 12310 del 2015 in materia di modificabilità della domanda ex art. 183 c.p.c., e S.u. n. 26242 del 2014 in materia di patologia negoziale), nella consapevolezza che la trattazione dinanzi a giudici diversi, in contrasto con il principio di economia processuale, di una medesima vicenda "esistenziale", sia pure connotata da aspetti in parte dissimili, incide negativamente sulla "giustizia" sostanziale della decisione (che può essere meglio assicurata veicolando nello stesso processo tutti i diversi aspetti e le possibili ricadute della stessa vicenda, evitando di fornire al giudice la conoscenza parziale di una realtà artificiosamente frammentata), sulla durata ragionevole dei processi (in relazione alla possibile duplicazione di attività istruttoria e decisionale) nonchè, infine, sulla stabilità dei rapporti (in relazione al rischio di giudicati contrastanti).

Si tratta di una giurisprudenza che afferma la necessità di favorire, ove possibile, una decisione intesa al definitivo consolidamento della situazione sostanziale direttamente o indirettamente dedotta in giudizio, "evitando di trasformare il processo in un meccanismo potenzialmente destinato ad attivarsi all'infinito".

Nel solco dell'indirizzo tracciato dalle citate decisioni deve ritenersi che, se sono proponibili separatamente le domande relative a singoli crediti distinti, pur riferibili al medesimo rapporto di durata, le questioni relative a tali crediti che risultino inscrivibili nel medesimo ambito di altro processo precedentemente instaurato, così da potersi ritenere già in esso deducibili o rilevabili - nonchè, in ogni caso, le pretese creditorie fondate sul medesimo fatto costitutivo - possono anch'esse ritenersi proponibili separatamente, ma solo se l'attore risulti in ciò "assistito" da un oggettivo interesse al frazionamento.

Quest'ultima affermazione impone un chiarimento.

Nella giurisprudenza di legittimità (a partire da Cass. n. 1540 del 2007, riferita al principio di non contestazione) risulta chiara la consapevolezza che il "giusto" processo regolato dalla legge resta affidato non solo alle norme che lo regolano, bensì anche agli stessi protagonisti del processo (giudice e parti), responsabilizzati, ciascuno per quanto di "competenza", a dare concreta e corretta attuazione alla relativa normativa.

Tali concetti, affermati dalla giurisprudenza di legittimità soprattutto con riguardo al principio di non contestazione (di origine giurisprudenziale e successivamente recepito dal legislatore nel novellato art. 115 c.p.c.), quindi con riguardo, in particolare, alla posizione del convenuto, non possono che ritenersi riferiti anche all'attore, il quale deve farsi carico di un esercizio consapevole e responsabile del diritto di azione che la Costituzione gli garantisce.

Pertanto, se l'interesse ad agire esprime il rapporto di utilità tra la lesione lamentata e la specifica tutela richiesta, è da ritenersi, nell'ottica di un esercizio responsabile del diritto di azione, che tale rapporto abbia ad oggetto anche le caratteristiche della suddetta tutela (ivi comprese la relativa "estensione" e le connesse modalità di intervento rispetto ad una più ampia vicenda sostanziale), con la conseguenza che l'interesse di cui all'art. 100 c.p.c., investe non solo la domanda ma anche, ove rilevante, la scelta delle relative "modalità" di proposizione.

Non si tratta quindi di valutare "caso per caso" (in relazione al bilanciamento degli interessi di ricorrente e resistente) l'azionabilità separata dei diversi crediti, nè tanto meno si tratta di accertare eventuali intenti emulativi o di indagare i comportamenti processuali del creditore agente sul versante psico-soggettivistico.

Quel che rileva è che il creditore abbia un interesse oggettivamente valutabile alla proposizione separata di azioni relative a crediti riferibili al medesimo rapporto di durata ed inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un ipotizzabile giudicato, ovvero fondati sul medesimo fatto costitutivo.

Da ultimo, sul piano della dialettica processuale, è indubbio che al creditore procedente debba essere consentito di provare ed argomentare ogni qual volta il convenuto evidenzi la necessità di siffatto interesse e ne denunci la mancanza. Ove il convenuto nulla abbia allegato o dedotto in proposito, il giudice che rilevi ex actis la necessità di un interesse oggettivamente valutabile al "frazionamento" e ne metta in dubbio l'esistenza, dovrà indicare la questione ex art. 183 c.p.c., e, se del caso, riservare la decisione ed assegnare alle parti termine per memorie ex art. 101 c.p.c..

5. Sulla base delle considerazioni che precedono, va affermato il seguente principio di diritto:

"Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi. Se tuttavia i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque "fondati" sul medesimo fatto costitutivo - sì da non poter essere accertati separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale -, le relative domande possono essere proposte in separati giudizi solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata. Ove la necessità di siffatto interesse (e la relativa mancanza) non siano state dedotte dal convenuto, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ai sensi dell'art. 183 c.p.c., e, se del caso, riservare la decisione assegnando alle parti termine per memorie ai sensi dell'art. 101 c.p.c., comma 2".

Alla luce dei sopra esposti principi, e considerato che la domanda proposta dal lavoratore nel presente processo è intesa al ricalcolo del premio fedeltà con inclusione dello straordinario prestato a titolo continuativo, mentre la domanda precedentemente proposta (anch'essa dopo la cessazione del rapporto di lavoro) era intesa ad ottenere la rideterminazione del TFR tenendo conto di alcune voci retributive percepite in via continuativa, il ricorso della società non risulta fondato.

Deve infatti osservarsi che gli istituti del TFR e del premio fedeltà hanno diversa fonte (legale l'uno e pattizia l'altro), nonchè differenti presupposti e finalità, non risultando, in particolare, che il credito azionato in relazione al premio fedeltà sia inscrivibile nel medesimo ambito oggettivo del giudicato ipotizzabile in relazione alla precedente domanda riguardante la rideterminazione del TFR, nè che i due crediti siano fondati sul medesimo fatto costitutivo; onde è da ritenersi che ben poteva il lavoratore proporre le domande suddette in diversi processi, senza neppure la necessità di verificare la sussistenza di un interesse oggettivamente valutabile a tale separata proposizione.

Il ricorso deve essere pertanto respinto.