sabato 30 dicembre 2017



Secondo il diritto comunitario gli stati come devono disciplinare il riposo settimanale dei lavoratori?




In base all'art. 5 della direttiva 88/2003

Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici, per ogni periodo di 7 giorni, di un periodo minimo di riposo ininterrotto di 24 ore a cui si sommano le 11 ore di riposo giornaliero previste all'articolo 3.

Se condizioni oggettive, tecniche o di organizzazione del lavoro lo giustificano, potrà essere fissato un periodo minimo di riposo di 24 ore.

venerdì 29 dicembre 2017

Secondo il diritto comunitario quanto deve essere la durata minima del riposo giornaliero?

In forza dell'art. 3 della direttiva 2033/88:

Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici, nel corso di ogni periodo di 24 ore, di un periodo minimo di riposo di 11 ore consecutive.

sabato 23 dicembre 2017

Cosa stabilisce in diritto comunitario in caso di mancata fruizione delle ferie?

In base all'art. 7 della direttiva 2003/88

1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali.

2. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un'indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro.

Per Corte giustizia Unione Europea Sez. V, 29/11/2017, n. 214/16

Un lavoratore che non ha potuto esercitare il suo diritto alle ferie annuali retribuite prima della cessazione del rapporto di lavoro, per ragioni indipendenti dalla sua volontà, ha diritto a un'indennità finanziaria ai sensi dell'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88. L'importo dell'indennità in parola deve essere calcolato in modo da porre tale lavoratore in una situazione analoga a quella in cui si sarebbe trovato se avesse esercitato tale diritto nel corso del rapporto di lavoro.

giovedì 21 dicembre 2017



Come vanno valutati i requisiti fisici richiesti dal datore di lavoro per una mansione ai fini della verifica della lesione delle norme sulle pari opportunita'?




Per Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 14-12-2017, n. 30083:

Con il primo motivo, la ricorrente nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 4 e 37 Cosa. nonchè della disciplina antidiscriminatoria di cui al D.Lgs. n. 198 del 2006 (Codice delle pari opportunità), imputa alla Corte territoriale di aver disatteso la qualificazione in termini di discriminazione vietata della previsione di un limite staturale indifferenziato tra uomini e donne espressamente sancita dalla Corte costituzionale.

Con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione dell'art. 5 della legge sull'abolizione del contenzioso amministrativo del 1865, la ricorrente lamenta a carco della Corte territoriale la mancata disapplicazione dell'atto amministrativo fonte dell'illegittima discriminazione.

Nel terzo motivo si deduce il vizio di motivazione con riguardo al convincimento espresso dalla Corte territoriale circa la mancata impugnazione della certificazione di inidoneità sotto il profilo della non ragionevolezza del previsto requisito di altezza.

La violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 40 è prospettata nel quarto motivo a fronte di una lettura dell'impugnata sentenza intesa a disconoscere l'assolvimento da parte della ricorrente dell'onere della prova della discriminazione.

I quattro motivi, che, in quanto strettamente connessi, possono essere qui trattati congiuntamente, devono dirsi fondati, atteso che la dedotta discriminazione, denunciata, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, sin dal ricorso introduttivo, anche sotto il profilo della ragionevolezza del previsto limite staturale quale requisito di idoneità all'esercizio delle mansioni di Capo servizio treno - ciò implicando, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 40, l'inversione dell'onere della prova sul punto, erroneamente ritenuto assolto per difetto di contestazione da parte dell'odierna ricorrente dalla Società, che, viceversa, nulla ha opposto ai rilievi della stessa ricorrente, incentrati, in particolare, sul più ridotto requisito di altezza dei macchinisti, in relazione alle cui funzioni, che il capo servizio treno è tra l'altro chiamato a supportare, è sostenuta la necessità del possesso da parte di quest'ultima figura professionale del previsto requisito staturale - non trova limiti quanto al sindacato giudiziale negli atti amministrativi che quel requisito prevedono, essendo gli stessi suscettibili di disapplicazione (cfr. Cass. sez. lav., n. 23562/2007 e n. 25734/2013), a fronte dell'illegittimità, desumibile dalla richiamata pronunzia della Corte costituzionale n. 163/1993, di disposizioni che ingiustificatamente non tengano conto della identità o diversità delle situazioni soggettive implicate dalla regolamentazione dettata.



mercoledì 20 dicembre 2017

Come è disciplinato l'inquadramento Inps delle aziende agricole?   

Legge 240/1984 L'art. 1, legge 240/1984, dispone che le imprese cooperative e loro consorzi, che trasformano, manipolano e commercializzano prodotti agricoli e zootecnici propri o dei loro soci ricavati dalla coltivazione dei fondi, dalla silvicoltura e dall'allevamento di animali, sono inquadrati nei settori dell'industria o del commercio, quando per l'esercizio di tali attività ricorrano normalmente ed in modo continuativo ad approvvigionamenti dal mercato di prodotti agricoli e zootecnici in quantità prevalente rispetto a quella complessivamente trasformata, manipolata e commercializzata. La particolarità non riguarda le cooperative di semplice produzione o allevamento nonché quelle di servizi e le stalle sociali (Circolare n. 155 del 6.7.1984, n. 267 del 17.12.1984). Il concetto di prevalenza va inteso in senso quantitativo (oltre il 50% dell'intera quantità trasformata, manipolata e commercializzata) e deve essere valutato sulla base dei parametri della normalità e della continuità, da accertare non in una singola fase o ciclo di lavorazione ma in un arco temporale non ristretto, comunque superiore all'annualità.

martedì 19 dicembre 2017

Quale è il termine di decadenza per le azioni contro l'Inps?

In forza dell'art. 47 del 1970 n. 639:

47. Esauriti i ricorsi in via amministrativa, può essere proposta l'azione dinanzi l'autorità giudiziaria ai sensi degli articoli 459 e seguenti del codice di procedura civile.

Per le controversie in materia di trattamenti pensionistici l'azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro il termine di tre anni dalla data di comunicazione della decisione del ricorso pronunziata dai competenti organi dell'Istituto o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della predetta decisione, ovvero dalla data di scadenza dei termini prescritti per l'esaurimento del procedimento amministrativo, computati a decorrere dalla data di presentazione della richiesta di prestazione .

Per le controversie in materia di prestazioni della gestione di cui all'articolo 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88, l'azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro il termine di un anno dalle date di cui al precedente comma .

Dalla data della reiezione della domanda di prestazione decorrono, a favore del ricorrente o dei suoi aventi causa, gli interessi legali sulle somme che risultino agli stessi dovute.

L'Istituto nazionale della previdenza sociale è tenuto ad indicare ai richiedenti le prestazioni o ai loro aventi causa, nel comunicare il provvedimento adottato sulla domanda di prestazione, i gravami che possono essere proposti, a quali organi debbono essere presentati ed entro quali termini. È tenuto, altresì, a precisare i presupposti ed i termini per l'esperimento dell'azione giudiziaria.

Le decadenze previste dai commi che precedono si applicano anche alle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l'adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito. In tal caso il termine di decadenza decorre dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte

lunedì 18 dicembre 2017


Alla subfornitura si applica la responsabilita' solidale tra appaltatore e committente ex art. 29 dlgs 276 del 2003?

Secondo Corte Costituzionale n.254 del 2017:














1.- L'art. 29 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla L. 14 febbraio 2003, n. 30), nel suo comma 2 e per la parte che qui rileva ai fini dello scrutinio di legittimità costituzionale, testualmente dispone che "In caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto [...]".




2.- Sul presupposto che la garanzia della responsabilità solidale del committente per i crediti retributivi e contributivi dei lavoratori "indiretti", testualmente riferita ai dipendenti dell'appaltatore e del subappaltatore, non si estenda anche ai dipendenti del subfornitore, per la diversità di fattispecie contrattuale tra appalto e subfornitura, la Corte di appello di Venezia ravvisa in ciò una irragionevole disparità di trattamento ed un vulnus alla effettività e adeguatezza della retribuzione in danno di detta ultima categoria di lavoratori. E denuncia, pertanto, il contrasto della su riferita disposizione con l'art. 3 della Costituzione, nonché con l'art. 36 Cost., evocando, a supporto argomentativo della violazione di tale secondo parametro, anche i principi sulle giuste ed eque condizioni di lavoro, di cui all'art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e, in una versione adattata, a Strasburgo il 12 dicembre 2007.




3.- Della questione così sollevata l'Avvocatura generale dello Stato ha preliminarmente eccepito l'inammissibilità, addebitando alla rimettente l'omesso esperimento del tentativo di interpretazione della disposizione denunciata in modo conforme a Costituzione.




L'eccezione non è fondata.




Il giudice a quo - nel premettere che "la soluzione della causa dipende dalla interpretazione [...] della norma di cui all'art. 29 legge [recte: decreto legislativo] 276/03" - non ha mancato, infatti, di prospettarsi, e di verificare, la possibilità di una lettura costituzionalmente orientata di tale disposizione ed ha ritenuto di escluderla: soluzione, questa, la cui condivisibilità o meno attiene al merito - ma preclude, evidentemente, la chiesta declaratoria di inammissibilità - della questione in esame.




4.- La L. 18 giugno 1998, n. 192 (Disciplina della subfornitura nelle attività produttive) risponde ad una funzione regolativa dell'integrazione della prestazione del subfornitore nel processo produttivo dell'impresa committente "in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi" forniti dall'impresa medesima.




Dottrina e giurisprudenza di merito sono tuttora divise sulla configurazione giuridica e sul più corretto inquadramento sistematico del contratto di subfornitura, in particolare, quanto al profilo della sua autonomia o meno rispetto al contratto di appalto di cui all'art. 1655 del codice civile.




Tra tali due figure negoziali vi sarebbe, infatti, secondo un primo orientamento, un rapporto di species a genus, nel senso che la subfornitura non altro costituirebbe che un "sottotipo", se non un equivalente, del contratto di appalto, ovvero uno schema generale di protezione nel quale possono rientrare plurime figure negoziali in senso trasversale, tra cui l'appalto. Secondo altro indirizzo interpretativo vi sarebbe, invece, tra i rispettivi schemi negoziali, una sostanziale differenza. E proprio la "dipendenza tecnologica", presente nel contratto di subfornitura, segnerebbe il discrimine rispetto all'appalto che comporta, invece, una autonomia dell'appaltatore nella scelta delle modalità operative attraverso le quali conseguire il risultato richiesto ed atteso dal committente.




Anche la giurisprudenza di legittimità non è al riguardo univoca.




In un caso (sezione seconda, sentenza 29 maggio 2008, n. 14431), la Corte di cassazione ha affermato, infatti, che il rapporto di subfornitura, enucleato al fine di dare adeguata tutela, a fronte di abusi che determinino un eccessivo squilibrio nei diritti e negli obblighi delle parti, alle imprese che lavorino in stato di dipendenza economica rispetto ad altre, riguarda il fenomeno meramente economico della cosiddetta integrazione verticale fra imprese, ma "è riferibile ad una molteplicità di figure negoziali; a volte estremamente eterogenee, da individuarsi caso per caso, potendo assumere i connotati del contratto di somministrazione, della vendita di cose future, [quindi, anche] dell'appalto d'opera o di servizi ecc.".




In altra successiva occasione, in cui veniva in rilievo la figura dell'"abuso di dipendenza economica" di cui all'art. 9della L. n. 192 del 1998, la motivazione della decisione (sezioni unite, ordinanza 25 novembre 2011, n. 24906) lascia presupporre - sulla stessa linea di interrelazione tra le categorie negoziali in esame - l'attribuzione di una portata estensiva dello schema di tutela apprestato per la subfornitura.




Mentre, in una più recente pronuncia (sezione terza, sentenza 25 agosto 2014, n. 18186), la stessa Corte è incline ad attribuire connotati di specificità al contratto di subfornitura, come forma "non paritetica" di cooperazione imprenditoriale, "nella quale la dipendenza economica del subfornitore si palesa, oltre che sul piano del rapporto commerciale e di mercato [...] anche su quello delle direttive tecniche di esecuzione", in quanto "l'inserimento del subfornitore - sebbene in forza di un'opzione organizzativa di esternalizzazione - in un determinato livello del processo produttivo proprio del committente [...] non può non implicare l'assoggettamento della prestazione di subfornitura all'osservanza di più o meno penetranti (a seconda della natura della lavorazione e del prodotto) direttive tecniche del committente. Quelle stesse direttive tecniche che questi avrebbe dovuto osservare ove avesse optato per mantenere all'interno della propria organizzazione l'intero ciclo di produzione".




Ciò che, appunto, sempre secondo il giudice della nomofilachia, "diversifica il rapporto di subfornitura commerciale [...] dall'appalto d'opera o di servizi, nel quale l'appaltatore è chiamato, nel raggiungimento del risultato, ad una prestazione rispondente ad autonomia non solo organizzativa ed imprenditoriale, ma anche tecnico-esecutiva; con quanto ne deriva in ordine alla maggior ampiezza della sua responsabilità per i vizi della cosa e la sua non perfetta rispondenza a quanto convenuto".




5.- La Corte rimettente non ignora la riferita duplicità di opzioni interpretative in tema di subfornitura e si dichiara anzi "consapevole del dibattito sorto tra gli studiosi del diritto", in occasione dell'entrata in vigore della L. n. 192 del 1998.




Ma ciò che trascura poi di considerare è che ciascuno degli orientamenti emersi, in chiave di riconducibilità o meno del contratto di subfornitura alla cornice concettuale e disciplinatoria dell'appalto e del subappalto, è comunque aperto, e non chiuso, all'estensione della responsabilità solidale del committente ai crediti di lavoro dei dipendenti del subfornitore.




Una tale estensione costituisce naturale corollario della tesi che configura la subfornitura come "sottotipo" dell'appalto e, a maggior ragione, di quella che sostanzialmente equipara i due negozi.




Ma, anche nel contesto del diverso orientamento, che considera la subfornitura come "tipo" negoziale autonomo, tale premessa interpretativa non è, per lo più, ritenuta preclusiva della applicazione, in via analogica, della disposizione censurata in favore dei dipendenti del subfornitore.




All'obiezione per cui la natura eccezionale della norma sulla responsabilità solidale del committente osterebbe ad una sua applicazione estensiva in favore di una platea di soggetti diversi dai dipendenti dell'appaltatore o subappaltatore (ai quali soltanto la norma stessa fa testuale riferimento) si replica, infatti, che l'eccezionalità della responsabilità del committente è tale rispetto alla disciplina ordinaria della responsabilità civile - che esige di correlarsi alla condotta di un soggetto determinato - ma non lo è più se riferita all'ambito, ove pur distinto, ma comunque omogeneo in termini di lavoro indiretto, dei rapporti di subfornitura.




Ciò in quanto la ratio dell'introduzione della responsabilità solidale del committente - che è quella di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento, e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione, vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell'esecuzione del contratto commerciale - non giustifica una esclusione (che si porrebbe, altrimenti, in contrasto con il precetto dell'art. 3 Cost.) della predisposta garanzia nei confronti dei dipendenti del subfornitore, atteso che la tutela del soggetto che assicura una attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento.




In tal senso venendo anche in rilievo - lo sottolinea la difesa di parte attrice nel giudizio a quo - la considerazione che le esigenze di tutela dei dipendenti dell'impresa subfornitrice, in ragione della strutturale debolezza del loro datore di lavoro, sarebbero da considerare ancora più intense e imprescindibili che non nel caso di un "normale" appalto.




6.- Alla stregua di quanto precede, la norma denunciata è, pertanto, interpretabile - e va correttamente, dunque, interpretata - in modo costituzionalmente adeguato e coerente agli evocati parametri di riferimento: nel senso, appunto, che il committente è obbligato in solido (anche) con il subfornitore relativamente ai crediti lavorativi, contributivi e assicurativi dei dipendenti di questi.




L'odierna questione - sollevata sul presupposto di una (sia pur letteralmente possibile, ma comunque errata) esegesi contra Constitutionem della norma stessa - va dichiarata, pertanto, non fondata.

venerdì 15 dicembre 2017

Come è disciplinata la procedura relativa alle controversie di discriminazione?

Art. 28 Delle controversie in materia di discriminazione

1. Le controversie in materia di discriminazione di cui all'articolo 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, quelle di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, quelle di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, quelle di cui all'articolo 3 della legge 1° marzo 2006, n. 67, e quelle di cui all'articolo 55-quinquies del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo.


2. È competente il tribunale del luogo in cui il ricorrente ha il domicilio.


3. Nel giudizio di primo grado le parti possono stare in giudizio personalmente.


4. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata.


5. Con l'ordinanza che definisce il giudizio il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Nei casi di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, il piano è adottato sentito l'ente collettivo ricorrente.


6. Ai fini della liquidazione del danno, il giudice tiene conto del fatto che l'atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.


7. Quando accoglie la domanda proposta, il giudice può ordinare la pubblicazione del provvedimento, per una sola volta e a spese del convenuto, su un quotidiano di tiratura nazionale. Dell'ordinanza è data comunicazione nei casi previsti dall'articolo 44, comma 11, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dall'articolo 4, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, dall'articolo 4, comma 2, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, e dall'articolo 55-quinquies, comma 8, del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198.


giovedì 14 dicembre 2017

Nel part time la retribuzione come va determinata?

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-08-2017, n. 19269 

"La Corte di merito ha dunque correttamente affermato che il principio di non discriminazione del lavoratore part time, di cui al D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 4, (vigente ratione temporis), impone di utilizzare per calcolare la retribuzione del lavoratore part time il medesimo dato-base con il quale è calcolata la retribuzione del lavoro a tempo pieno e che come la retribuzione del lavoro a tempo pieno a tenore del CCNL prescinde dal rigore ricostruttivo dell'orario, con analogo metodo occorre procedere per riproporzionare la retribuzione del lavoro part time, assumendo come base di computo il dato mensile e non già quello orario".

In particolare:

Nella fattispecie di causa i rapporti di lavoro riguardano un part time verticale (dal giorno 1 al giorno 20 di ogni mese per B.L. e N.L. e dal lunedì al giovedì per NE.GR.).

Non è dubbio che l'importo della retribuzione mensile prevista per il lavoro full time debba essere riproporzionata in ragione del ridotto impegno del lavoratore part time ma tale proporzione non può prescindere dalla applicazione degli stessi principi previsti per la retribuzione del lavoro full time; se dunque nel lavoro full time il dato base del contratto collettivo è quello mensile (calcolato sul dato convenzionale di 26 giorni lavorativi) e la retribuzione oraria viene calcolata su un orario mensile teorico di 156 ore, come assunto dalla stessa società ricorrente, anche nel lavoro part time la base di computo deve essere la mensilità e la retribuzione di un'ora di lavoro deve essere calcolata sul dato teorico e non sulle ore effettive di lavoro nel mese.

Ragionando diversamente si determinerebbe, contrariamente all'assunto di POSTE ITALIANE, un trattamento retributivo contrario al principio di non discriminazione, il quale comporta che il lavoratore a tempo parziale benefici dei medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno comparabile anche per quanto riguarda l'importo della retribuzione oraria (Cassazione civile, sez. lav., 23/09/2016, n. 18709, in motivazione), come d'altronde assume la stessa società qui ricorrente (si veda la pagina 8 del ricorso).

Nel metodo di calcolo proposto da Poste Italiane la retribuzione oraria del lavoratore part time varia di mese ín mese, assumendosi a base del calcolo il cd. "peso effettivo orario" cioè il rapporto tra l'orario teorico di 156 ore mensili e le ore di lavoro previste in ciascun mese dell'anno in base al numero dei giorni di calendario.

Inoltre il calcolo mensile della retribuzione resta ulteriormente legato al prodotto del suddetto "peso effettivo orario" per le ore di lavoro svolte nel mese dal lavoratore part time, con un metodo che non trova corrispondenza nel calcolo della retribuzione per il full time, che avviene su base mensile e non sulla base delle ore di lavoro svolte.

La determinazione finale della percentuale di retribuzione mensile dovuta al lavoratore part time risente dunque di dati e criteri di calcolo del tutto eterogenei rispetto a quelli previsti nel contratto collettivo per il full time, il che costituisce ex se ragione di discriminazione.

mercoledì 13 dicembre 2017

Come è disciplinata la nuova definizione agevolata dei carichi?

In base all'art. 1 DL 148 del 2017


Art. 1. Estensione della definizione agevolata dei carichi

1. I termini per il pagamento delle rate di cui all'articolo 6, comma 3, lettera a), del decreto-legge 22 ottobre 2016, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2016, n. 225, sono fissati al 7 dicembre 2017 e il termine per il pagamento della rata di cui alla lettera b) dello stesso articolo 6, comma 3, del decreto-legge n. 193 del 2016 in scadenza nel mese di aprile 2018 è fissato nel mese di luglio 2018. 


[2. All'articolo 6 del decreto-legge 22 ottobre 2016, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2016, n. 225, dopo il comma 13-ter, sono inseriti i seguenti: «13-quater. Relativamente ai soli carichi definibili compresi in piani di dilazione in essere alla data del 24 ottobre 2016, per i quali il debitore non è stato ammesso alla definizione agevolata, in applicazione dell'alinea del comma 8, a causa del mancato tempestivo pagamento di tutte le rate degli stessi piani scadute al 31 dicembre 2016, il medesimo debitore può esercitare nuovamente la facoltà di cui al comma 1 provvedendo a:
a) presentare, entro il 31 dicembre 2017, apposita istanza all'agente della riscossione, con le modalità e in conformità alla modulistica pubblicate dallo stesso agente della riscossione sul proprio sito internet entro il 31 ottobre 2017; 
b) pagare, con le modalità di cui comma 7:
1) in unica soluzione, entro il 31 maggio 2018, l'importo delle predette rate scadute e non pagate. Il mancato, insufficiente o tardivo pagamento di tale importo determina automaticamente l'improcedibilità dell'istanza; 
2) nel numero massimo di tre rate di pari ammontare, scadenti nei mesi di settembre, ottobre e novembre 2018, le somme di cui al comma 1, lettere a) e b), del presente articolo, nonché, a decorrere dal 1° agosto 2017, gli interessi di cui all'articolo 21, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602.
13-quinquies. Nell'istanza di cui al comma 13-quater, lettera a), il debitore indica il numero di rate nel quale intende effettuare il pagamento delle somme di cui alla lettera b), n. 2, dello stesso comma 13-quater, entro il numero massimo ivi previsto, e assume l'impegno di cui al comma 2.
13-sexies. A seguito della presentazione dell'istanza prevista dal comma 13-quater, lettera a), si producono gli effetti previsti dal comma 5. L'agente della riscossione comunica ai debitori che hanno presentato tale istanza:
a) entro il 31 marzo 2018, l'importo di cui alla lettera b), n. 1, del comma 13-quater; 
b) entro il 31 luglio 2018, l'ammontare complessivo delle somme dovute ai fini della definizione, nonché delle relative rate e il giorno e il mese di scadenza di ciascuna di esse.
13-septies. Fermo quanto previsto dai commi 13-quinquies e 13-sexies, alla definizione agevolata di cui al comma 13-quater si applicano, tutte le disposizioni del presente articolo, ad eccezione di quelle del comma 13-ter.».  ]

3. Al fine di consentire alle Università degli studi che hanno aderito alla definizione agevolata dei debiti secondo quanto previsto dall'articolo 6 del decreto-legge 22 ottobre 2016, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2016, n. 225 (3), di completare i relativi versamenti entro l'anno 2018 e di usufruire dei benefici derivanti dalla suddetta definizione agevolata, il pagamento delle rate in scadenza nel mese di novembre 2017 è differito al mese di novembre 2018. Al relativo onere, pari a 8,3 milioni di euro per l'anno 2017, si provvede mediante corrispondente riduzione del Fondo di cui all'articolo 1, comma 207, della legge 28 dicembre 2015, n. 208. Conseguentemente, il Fondo di cui all'articolo 1, comma 207, della legge n. 208 del 2015, è incrementato di 8,3 milioni di euro nel 2018.


4. Possono essere estinti, secondo le disposizioni di cui all'articolo 6 del decreto-legge 22 ottobre 2016, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2016, n. 225, di seguito denominato “Decreto”, per quanto non derogate da quelle dei commi da 5 a 10-ter del presente articolo, i debiti relativi ai carichi affidati agli agenti della riscossione:

a) dal 2000 al 2016:
1) che non siano stati oggetto di dichiarazioni rese ai sensi del comma 2 dell'articolo 6 del Decreto;
2) compresi in piani di dilazione in essere alla data del 24 ottobre 2016, per i quali il debitore non sia stato ammesso alla definizione agevolata, in applicazione dell'alinea del comma 8 dell'articolo 6 del Decreto, esclusivamente a causa del mancato tempestivo pagamento di tutte le rate degli stessi piani scadute al 31 dicembre 2016;
b) dal 1° gennaio al 30 settembre 2017. 



5. Ai fini della definizione di cui al comma 4, il debitore manifesta all'agente della riscossione la sua volontà di avvalersene rendendo, entro il 15 maggio 2018, apposita dichiarazione, con le modalità e in conformità alla modulistica pubblicate dallo stesso agente della riscossione nel proprio sito internet entro il 31 dicembre 2017. In tale dichiarazione il debitore assume l'impegno di cui al comma 2 dell'articolo 6 del Decreto. 


6. Sulle somme dovute per la definizione prevista dal comma 4 si applicano, a decorrere dal 1° agosto 2018, gli interessi di cui all'articolo 21, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e il pagamento delle stesse somme, salvo quanto previsto dal comma 8, può essere effettuato in un numero massimo di cinque rate consecutive di uguale importo, da pagare, rispettivamente, nei mesi di luglio 2018, settembre 2018, ottobre 2018, novembre 2018 e febbraio 2019. 


7. L'agente della riscossione:

a) relativamente ai carichi di cui al comma 4, lettera b), del presente articolo, entro il 31 marzo 2018 invia al debitore, con posta ordinaria, l'avviso previsto dal comma 3-ter dell'articolo 6 del Decreto;
b) entro il 30 giugno 2018 comunica al debitore l'ammontare complessivo delle somme dovute ai fini della definizione, nonché delle relative rate e il giorno e il mese di scadenza di ciascuna di esse. 



8. In deroga a quanto previsto dai commi 6 e 7, limitatamente ai carichi di cui al comma 4, lettera a), numero 2), compresi in piani di dilazione in essere alla data del 24 ottobre 2016, per i quali non risultano pagate tutte le rate degli stessi piani scadute al 31 dicembre 2016, e ai carichi di cui al comma 4, lettera a), numero 1):

a) l'agente della riscossione comunica al debitore:
1) entro il 30 giugno 2018, l'importo delle rate scadute al 31 dicembre 2016 e non pagate;
2) entro il 30 settembre 2018, le informazioni previste dal comma 7, lettera b);
b) il debitore è tenuto a pagare:
1) in un'unica soluzione, entro il 31 luglio 2018, l'importo ad esso comunicato ai sensi della lettera a), numero 1). Il mancato, insufficiente o tardivo pagamento di tale importo determina automaticamente l'improcedibilità dell'istanza;
2) in due rate consecutive di pari ammontare, scadenti rispettivamente nei mesi di ottobre 2018 e novembre 2018, l'80 per cento delle somme complessivamente dovute ai fini della definizione;
3) entro febbraio 2019, l'ultima rata relativa al restante 20 per cento delle somme complessivamente dovute ai fini della definizione. 



9. Ai fini della definizione agevolata di cui al comma 4 del presente articolo le disposizioni del comma 4-bisdell'articolo 6 del Decreto si applicano ai carichi non inclusi in piani di dilazione in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto. 


10. A seguito della presentazione della dichiarazione prevista dal comma 5:

a) per i debiti relativi ai carichi di cui al comma 4, lettere a), numeri 1) e 2), e b), che ne sono oggetto e fino alla scadenza della prima o unica rata delle somme dovute per la definizione, è sospeso il pagamento dei versamenti rateali, scadenti in data successiva alla stessa presentazione e relativi a precedenti dilazioni in essere alla medesima data;
b) sono sospesi i termini di prescrizione e decadenza per il recupero dei carichi che sono oggetto della predetta dichiarazione e si producono gli effetti previsti dal comma 5, secondo periodo, dell'articolo 6 del Decreto. 



10-bis. In deroga alle disposizioni dell'alinea dell'articolo 6, comma 8, del Decreto, la facoltà di definizione dei carichi di cui al comma 4, lettera b), del presente articolo può essere esercitata senza che risultino adempiuti versamenti relativi ai piani rateali in essere. 

10-ter. Non si applicano le disposizioni del comma 13-ter dell'articolo 6 del Decreto. 


10-quater. Le disposizioni dei commi da 4 a 10-ter si applicano anche alle richieste di definizione presentate ai sensi delle disposizioni del presente articolo, vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto. 


10-quinquies. All'articolo 1, comma 684, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, il primo periodo è sostituito dal seguente: «Le comunicazioni di inesigibilità relative alle quote affidate agli agenti della riscossione dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2017, anche da soggetti creditori che hanno cessato o cessano di avvalersi delle società del Gruppo Equitalia ovvero dell'Agenzia delle entrate-Riscossione, sono presentate, per i ruoli consegnati negli anni 2016 e 2017, entro il 31 dicembre 2021 e, per quelli consegnati fino al 31 dicembre 2015, per singole annualità di consegna partendo dalla più recente, entro il 31 dicembre di ciascun anno successivo al 2021». 


10-sexies. All'articolo 6, comma 12, del Decreto, la parola: «2019» è sostituita dalla seguente: «2020». 


11. All'articolo 1, comma 9-bis, del decreto-legge 22 ottobre 2016, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2016, n. 225, dopo le parole «2 aprile 1958, n. 377» sono inserite le seguenti: «, per l'armonizzazione della disciplina previdenziale del personale proveniente dal gruppo Equitalia con quella dell'assicurazione generale obbligatoria sulla base dei principi e dei criteri direttivi indicati nella legge 8 agosto 1995, n. 335.». Al comma 8 del citato articolo 1 del Decreto è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Per la tutela dell'integrità dei bilanci pubblici e delle entrate degli enti territoriali, nonché nel rispetto delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, le funzioni e le attività di supporto propedeutiche all'accertamento e alla riscossione delle entrate degli enti locali e delle società da essi partecipate sono affidate a soggetti iscritti all'albo previsto dall'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446». 


11-bis. Il Fondo di cui all'articolo 1, comma 200, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, è incrementato di 13 milioni di euro per l'anno 2018 e di 96 milioni di euro per l'anno 2019. Il Fondo per interventi strutturali di politica economica, di cui all'articolo 10, comma 5, del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307, è incrementato di 25,1 milioni di euro per l'anno 2019. 


11-ter. Agli oneri derivanti dai commi da 4 a 10-sexies e 11-bis si provvede, quanto a 13 milioni di euro per l'anno 2018 e a 96 milioni di euro per l'anno 2019, mediante corrispondente utilizzo delle maggiori entrate e delle minori spese derivanti dall'applicazione dei commi da 4 a 10-sexies del presente articolo, e, quanto a 25,1 milioni di euro per ciascuno degli anni 2019 e 2020, mediante corrispondente riduzione delle proiezioni dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2017-2019, nell'ambito del programma “Fondi di riserva e speciali” della missione “Fondi da ripartire” dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2017, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al medesimo Ministero. 


11-quater. Con riferimento alle entrate, anche tributarie, delle regioni, delle province, delle città metropolitane e dei comuni, non riscosse a seguito di provvedimenti di ingiunzione fiscale ai sensi del testo unico delle disposizioni di legge relative alla riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato, di cui al regio decreto 14 aprile 1910, n. 639, notificati entro il 16 ottobre 2017, dagli enti stessi e dai concessionari della riscossione di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i medesimi enti territoriali possono stabilire, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, con le forme previste dalla legislazione vigente per l'adozione dei propri atti destinati a disciplinare le entrate stesse, l'esclusione delle sanzioni relative alle predette entrate. Alla definizione di cui al periodo precedente si applicano le disposizioni di cui all'articolo 6-ter, ad esclusione del comma 1, del Decreto. Sono fatti salvi gli effetti già prodotti dalla eventuale definizione agevolata delle controversie tributarie deliberata dai predetti enti ai sensi dell'articolo 11 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96.

martedì 12 dicembre 2017



In caso di attività lavorativa svolta in corso di malattia su chi grava l'onere di dimostrare che si compatibile con il dovere di recuperare le energie lavorative?



Cass. civ. Sez. lavoro, 08/11/2017, n. 26481

Nell'ipotesi in cui il dipendente assente per malattia venga sorpreso a svolgere attività lavorativa presso terzi, grava su di lui l'onere di provare la compatibilità dell'attività svolta con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, e perciò l'inidoneità di tale attività a pregiudicare il recupero delle normali energie lavorative (Nel caso di specie, la Suprema Corte, ritenuto inammissibile il ricorso, ha confermato la legittimità del licenziamento disciplinare irrogato dal datore di lavoro ad un proprio dipendente ritenuto responsabile di aver svolto, nel corso del periodo di infortunio, un'attività lavorativa concorrenziale avente carattere di lesività sull'esito della guarigione).

lunedì 11 dicembre 2017


L'art. 1 comma 45 della legge 92 del 2012 è applicabile anche alle procedure di licenziamenti collettivi precedenti?


Cass. civ. Sez. lavoro, 06/02/2017, n. 3045:

In tema di licenziamenti collettivi, l'efficacia sanante dell'accordo conclusivo della procedura di mobilità, di cui all'art. 1, comma 45, della l. n. 92 del 2012, in relazione all'art. 4, comma 12, della l. n. 223 del 1991, non ha una portata retroattiva, posto che la novella ha introdotto un elemento del tutto innovativo nell'ambito della procedura che assicura il controllo sindacale sulla riduzione del personale, laddove le norme di interpretazione autentica sono solo quelle dirette ad esplicitare il senso di quelle preesistenti, oppure a chiarire o ad escluderne uno tra quelli ragionevolmente attribuibili a quelle oggetto di interpretazione.

venerdì 8 dicembre 2017

Nelle aziende del credito quali sono i criteri di scelta da adottare in caso di licenziamenti collettivi?

In forza dell'art. 8 del dm 2000 n. 158

8. Individuazione dei lavoratori in esubero 

1. Ai sensi di quanto previsto dall'articolo 5, comma 1, legge 23 luglio 1991, n. 223, l'individuazione dei lavoratori in esubero, ai fini del presente regolamento, concerne, in relazione alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale, anzitutto il personale che, alla data stabilita per la risoluzione del rapporto di lavoro sia in possesso dei requisiti di legge previsti per aver diritto alla pensione di anzianità o vecchiaia, anche se abbia diritto al mantenimento in servizio.

2. L'individuazione degli altri lavoratori in esubero ai fini dell'accesso alla prestazione straordinaria di cui all'articolo 5, comma 1, lettera b), avviene adottando in via prioritaria il criterio della maggiore prossimità alla maturazione del diritto a pensione a carico dell'assicurazione generale obbligatoria di appartenenza, ovvero della maggiore età.

3. Per ciascuno dei casi di cui ai comma 1 e 2, ove il numero dei lavoratori in possesso dei suddetti requisiti risulti superiore al numero degli esuberi, si favorisce, in via preliminare, la volontarietà, che è esercitata dagli interessati nei termini e alle condizioni aziendalmente concordate, e, ove ancora risultasse superiore il numero dei lavoratori in possesso dei requisiti di cui sopra rispetto al numero degli esuberi, si tiene conto dei carichi di famiglia.

mercoledì 6 dicembre 2017

La presupposizione può incidere sulla validità delle dimissioni?

Cass. civ. Sez. lavoro, 01/12/2017, n. 28881

L'istituto della presupposizione può trovare applicazione solo con riguardo ai contratti con prestazioni  corrispettive e non anche (per la mancanza della compatibilità richiesta dall'art. 1324 c.c.) con riguardo all'atto delle dimissioni, che realizzano il diritto potestativo di recesso del lavoratore e costituiscono un negozio unilaterale ricettizio, idoneo, indipendentemente dalla volontà del datore di lavoro a determinare la risoluzione del rapporto; ne consegue che la mancata realizzazione dei vantaggi rappresentatisi dal dipendente al momento delle dimissioni non può influire su tale negozio giuridico ove le dimissioni stesse non siano state espressamente subordinate alla realizzazione di quei vantaggi.

martedì 5 dicembre 2017



L'indennità di preavviso e sostitutiva delle ferie maturate ma non godute rientrano nelle tre mensilità garantite dal fondo di garanzia Inps?

In base agli artt. 1 e 2 del dlgs 80 del 1992:

1. Garanzia dei crediti di lavoro.

1. Nel caso in cui il datore di lavoro sia assoggettato alle procedure di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa ovvero alla procedura dell'amministrazione straordinaria prevista dal decreto-legge 30 gennaio 1979, n. 26, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 aprile 1979, n. 95, il lavoratore da esso dipendente o i suoi aventi diritto possono ottenere a domanda il pagamento, a carico del Fondo di garanzia istituito e funzionante ai sensi della legge 29 maggio 1982, n. 297, dei crediti di lavoro non corrisposti di cui all'art. 2 .

2. Nel caso di datore di lavoro non assoggettabile ad una delle procedure indicate nel comma 1, il lavoratore da esso dipendente o i suoi aventi diritto possono chiedere al Fondo di garanzia il pagamento dei crediti di lavoro non corrisposti di cui all'art. 2, sempreché, a seguito dall'esperimento dell'esecuzione forzata per la realizzazione di tali crediti, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti .


2. Intervento del Fondo di garanzia di cui alla legge 29 maggio 1982, n. 297.

1. Il pagamento effettuato dal Fondo di garanzia ai sensi dell'art. 1 è relativo ai crediti di lavoro, diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro rientranti nei dodici mesi che precedono: a) la data del provvedimento che determina l'apertura di una delle procedure indicate nell'art. 1, comma 1; b) la data di inizio dell'esecuzione forzata; c) la data del provvedimento di messa in liquidazione o di cessazione dell'esercizio provvisorio ovvero dell'autorizzazione alla continuazione dell'esercizio di impresa per i lavoratori che abbiano continuato a prestare attività lavorativa, ovvero la data di cessazione del rapporto di lavoro, se questa è intervenuta durante la continuazione dell'attività dell'impresa .

2. Il pagamento effettuato dal Fondo ai sensi del comma 1 non può essere superiore ad una somma pari a tre volte la misura massima del trattamento straordinario di integrazione salariale mensile al netto delle trattenute previdenziali e assistenziali.

2-bis. L'intervento del Fondo di garanzia opera anche nel caso in cui datore di lavoro sia un'impresa, avente attività sul territorio di almeno due Stati membri, costituita secondo il diritto di un altro Stato membro ed in tale Stato sottoposta ad una procedura concorsuale, a condizione che il dipendente abbia abitualmente svolto la sua attività in Italia. Agli eventuali maggiori oneri che gravano sul fondo di garanzia si provvede ai sensi dell'articolo 2, ottavo comma, quarto periodo, della legge 19 maggio 1982, n. 297 .

3. Per il conseguimento delle somme dovute dal Fondo ai sensi del presente articolo si applicano le disposizioni di cui ai commi secondo, terzo, quarto, quinto, settimo, primo periodo e decimo dell'art. 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297. Per le somme corrisposte dal Fondo si applica il disposto di cui al comma settimo, secondo periodo, dell'art. 2 della legge citata.

4. Il pagamento di cui al comma 1 non è cumulabile fino a concorrenza degli importi: a) con il trattamento straordinario di integrazione salariale fruito nell'arco dei dodici mesi di cui al comma 1; b) [con le retribuzioni corrisposte al lavoratore nell'arco dei tre mesi di cui al comma 1] ; c) con l'indennità di mobilità riconosciuta ai sensi della legge 23 luglio 1991, n. 223, nell'arco dei tre mesi successivi alla risoluzione di rapporto di lavoro.

5. Il diritto alla prestazione di cui al comma 1 si prescrive in un anno. Gli interessi e la svalutazione monetaria sono dovuti dalla data di presentazione della domanda.

6. L'intervento del Fondo di garanzia previsto dalle disposizioni che procedono opera soltanto nei casi in cui le procedure indicate nell'art. 1 siano intervenute successivamente all'entrata in vigore del presente decreto legislativo.

7. Per la determinazione dell'indennità eventualmente spettante, in relazione alle procedure di cui all'art. 1, comma 1, per il danno derivante dalla mancata attuazione della direttiva CEE 80/987, trovano applicazione i termini, le misure e le modalità di cui ai commi 1, 2 e 4. L'azione va promossa entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto


Secondo Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., 12-06-2017, n. 14559

"si controverte della pretesa di C.B., D.M.A. e Z.L. a veder riconosciuto nei confronti dell'Inps, a seguito del fallimento della ex datrice di lavoro, il loro diritto alla inclusione delle indennità maturate per mancato preavviso e per ferie non godute nel credito garantito delle ultime tre mensilità di cui al D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 2;

che la Corte d'appello di Venezia, nel confermare la sentenza del Tribunale di Verona di condanna dell'Inps alla corresponsione delle relative differenze economiche, ha respinto il gravame dell'istituto di previdenza, dopo aver evidenziato che il diritto alla predetta inclusione era giustificato dalla natura retributiva delle indennità in esame;

che per la cassazione della sentenza ricorre l'Inps con un solo motivo, al quale resistono con controricorso le lavoratrici, il tutto seguito dal deposito delle rispettive memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

che l'Inps ha denunziato la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, art. 2, comma 1, con riferimento agli art. 2118 c.c., comma 2 e art. 2109 c.c., assumendo la necessità di delimitare i confini del possibile intervento del Fondo di garanzia al posto del datore di lavoro insolvente e censurando la decisione della Corte territoriale di includere le indennità per mancato preavviso e per ferie non godute nel novero dei crediti di lavoro inerenti gli ultimi tre mesi;

che la funzione propria dei trattamenti previdenziali è quella di tutelare gli stati di bisogno della classe lavoratrice entro determinati limiti compatibili con le risorse finanziarie del periodo e che lo scopo del Fondo di garanzia è quello di assicurare che tutti quei lavoratori, che a causa dell'insolvenza del datore di lavoro non abbiano ricevuto le retribuzioni relative agli ultimi tre mesi, ricevano comunque un minimo e non quello di garantire, come se si trattasse di un'assicurazione privata, il risarcimento di un danno entro un massimale determinato;

che il preavviso è un istituto di natura civilistica che, nell'ambito dei contratti di durata senza prefissione di termine (esclusa la validità di un vincolo contrattuale perpetuo) e per i quali la estinzione è rimessa alla facoltà di recesso consentita alle parti, ha la funzione economica, giuridicamente disciplinata, di attenuare le conseguenze della improvvisa interruzione del rapporto per chi subisce il recesso (cfr. artt. 1569, 1616, 1750, 1833, 1845, 1855, 1899, 2118 e 2160 c.c.);

che nell'ambito del contratto di lavoro il preavviso ha la funzione di permettere, rispettivamente, al datore di lavoro di trovare un altro dipendente e, al prestatore, di procurarsi un'altra occupazione (cfr. Cass., 3 aprile 1980 n. 2188);

che la parte che non osserva la normativa contrattuale sul preavviso, sia essa il lavoratore o il datore di lavoro, è tenuta ad indennizzare l'altra parte del disagio e del danno (che, peraltro, può anche mancare, come nel caso che il datore di lavoro trovi immediatamente un sostituto del lavoratore recedente, o che questi trovi subito una nuova occupazione);

che l'indennità per mancato preavviso rappresenta, quindi, un risarcimento corrispondente al "lucro cessante" preveduto o prevedibile per l'ulteriore periodo in cui il rapporto avrebbe seguitato a svolgersi qualora il preavviso avesse avuto il suo corso regolare e che, comunque, il lavoratore non può ottenere un danno maggiore (così come il datore non può dimostrare un danno minore), atteso che, secondo l'art. 1382 c.c., "la clausola con cui si conviene che, in caso di inadempimento uno dei contraenti è tenuto ad una determinata prestazione, ha l'effetto di limitare il risarcimento alla prestazione promessa...";

che in tal senso si è pronunciata ripetutamente questa Corte (Cass., 30 ottobre 1961 n. 2488; 18 febbraio 1960 n. 279; 21 luglio 1956 n. 2841) e che la natura risarcitoria - o "indennitaria", come hanno ritenuto le Sezioni Unite con la sentenza n. 7914 del 29 settembre 1994 - dell'indennità di preavviso, finalizzata ad indennizzare il lavoratore del mancato guadagno per un periodo ulteriore rispetto alla data nella quale il rapporto si è interrotto, esclude che la stessa possa rientrare tra i crediti retributivi inerenti gli ultimi un mesi del rapporto di lavoro, per i quali opera, ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1992, il Fondo di garanzia;

che nè a diversa soluzione si perviene aderendo alla teoria della c.d. efficacia reale del preavviso, nel senso che il rapporto di lavoro, nonostante il recesso intimato da una delle due parti e il pagamento dell'indennità, rimane in ogni caso giuridicamente in vita fino alla scadenza del relativo periodo, salvo il consenso delle parti all'immediata o anticipata risoluzione dello stesso (cfr., in tal senso, Cass., 6 agosto 1987 n. 6769);

che questa Corte ha avuto modo di evidenziare la natura mista, sia risarcitoria che retributiva dell'indennità per ferie non godute (Cass. Sez. lav. n. 20836/2013 e n. 1757/2016) e che, da parte sua, la difesa dell'Inps ha posto in rilievòla natura proporzionale di tale indennità rispetto al periodo di lavoro al quale va necessariamente rapportata;

che per le ragioni finora esposte deve escludersi che l'indennità sostitutiva del preavviso e quella per ferie non godute possano essere incluse nel computo delle ultime tre mensilità ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 2 e che, pertanto, il ricorso è fondato, con conseguente accoglimento dello stesso e con cassazione dell'impugnata sentenza;

lunedì 4 dicembre 2017

Come sono regolamentati i i benefici previdenziali in favore dei lavoratori esposti all'amianto, l'art. 3, comma 132 della L. 24 dicembre 2003, n. 350?

Cass. civ. Sez. lavoro, 24/11/2017, n. 28090

In tema di benefici previdenziali in favore dei lavoratori esposti all'amianto, l'art. 3, comma 132 della L. 24 dicembre 2003, n. 350, che, con riferimento alla nuova disciplina introdotta dall'art. 47, comma 1 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, nella L. 24 novembre 2003, n. 326, ha fatto salva l'applicabilità della precedente disciplina, prevista dall'art. 13 della L. 27 marzo 1992, n. 257, per i lavoratori che alla data del 2 ottobre 2003 abbiano avanzato domanda di riconoscimento all'I.N.A.I.L. od ottenuto sentenza favorevole per cause avviate entro la medesima data, va interpretato nel senso che: 

a) per maturazione del diritto deve intendersi la maturazione del diritto a pensione; 

b) tra coloro che non hanno ancora maturato il diritto a pensione, la salvezza concerne esclusivamente gli assicurati che, alla data indicata, abbiano avviato un procedimento amministrativo o giudiziario per l'accertamento del diritto alla rivalutazione contributiva.

sabato 2 dicembre 2017



Che rapporto intercorre tra delibera di esclusione del socio lavoratore e licenziamento?




Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 20-11-2017, n. 27436 ricostruisce integralmente la materia:



"Il legislatore, nel costruire la riforma della cooperazione di lavoro, ha disegnato il lavoro cooperativo come combinazione del rapporto associativo con "un ulteriore e distinto rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi rapporti di collaborazione coordinata non occasionale" (L. n. 142 del 2001, art. 1).

4.- Il raggiungimento dello scopo sociale della cooperativa di lavoro si realizza, quindi, con una attività di impresa nel cui ambito si inscrivono, appunto, i rapporti di lavoro.

4.1.- La combinazione dei due rapporti, associativo e di lavoro, assume la veste di collegamento necessario, perchè è animata dallo scopo pratico unitario dell'operazione complessiva, al perseguimento del quale entrambi sono indirizzati: il legame dei due rapporti innerva per volontà del legislatore la funzione del lavoro cooperativo.

4.1.1.- La categoria del collegamento negoziale si rivela più adeguata dello schema del contratto normativo, preferito da una parte della dottrina.

Ciò in quanto la causa della cooperativa di lavoro tende alla realizzazione dello scopo mutualistico e non già alla stipulazione di contratti particolari, come avviene nel caso del contratto collettivo di lavoro (giusta gli artt. 2071 e 2077 c.c.) o anche in quello del contratto collettivo di consorzio (secondo gli artt. 2602 e 2603 c.c.).

Opportunamente si è sottolineato che, tra gli altri, lo statuto della cooperativa rappresenta un contratto normativo apparente, perchè esso, pur ponendo una serie di norme, è destinato a disciplinare non già futuri rapporti, sibbene rapporti che sono in atto.

5.- L'equilibrio del peso dei due rapporti in seno alla combinazione è stato, tuttavia, intaccato dalla novella della L. n. 142 del 2001, dovuta alla L. 14 febbraio 2003, n. 30.

La L. n. 30 del 2003, ha disposto l'eliminazione dalla L. n. 142 del 2001, art. 1, comma 3, dell'aggettivo "distinto", lasciando, in riferimento al rapporto di lavoro, soltanto la qualificazione di "ulteriore"; ha aggiunto inoltre l'art. 5, comma 2, il quale prescrive che:

"2. Il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l'esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli artt. 2526 e 2527 c.c. (oggi, con l'art. 2533 c.c.). Le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario".

5.1.- Il collegamento, quindi, nella fase estintiva dei rapporti, ha assunto caratteristica unidirezionale.

La cessazione del rapporto di lavoro, non soltanto per recesso datoriale, ma anche per dimissioni del socio lavoratore, non implica necessariamente il venir meno di quello associativo.

Ciò perchè il rapporto associativo può essere alimentato dal socio mediante la partecipazione alla vita ed alle scelte dell'impresa, al rischio ed ai risultati economici della quale comunque egli partecipa, a norma della L. n. 142 del 2001, art. 1, comma 2.

Nè la figura del socio inerte, che emerge anche per mano del legislatore, con riguardo alla cooperativa a mutualità non prevalente, entra in frizione con le regole costituzionali, in quanto l'art. 45 Cost., riconosce funzione sociale alla cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata, alla quale il socio inerte non è estraneo.

5.2.- La cessazione del rapporto associativo, tuttavia, trascina con sè ineluttabilmente quella del rapporto di lavoro. Sicchè il socio, se può non essere lavoratore, qualora perda la qualità di socio non può più essere lavoratore.

Lo si legge nella L. n. 142 del 2001, art. 5, comma 2, il quale esclude che il rapporto di lavoro possa sopravvivere alla cessazione di quello associativo.

Regola, questa, espressione di quella generale fissata in tema di esclusione del socio di cooperativa dall'art. 2533 c.c., in virtù della quale "qualora l'atto costitutivo non preveda diversamente, lo scioglimento del rapporto sociale determina anche la risoluzione dei rapporti mutualistici pendenti" (discorre di dipendenza dell'estinzione del rapporto di lavoro da quella del rapporto sociale, tra le ultime, Cass., ord. 18 maggio 2016, n. 10306).

6.- Non può, quindi, essere condiviso l'orientamento (espresso da Cass. 23 gennaio 2015, n. 1259; 11 agosto 2014, n. 17868; 6 agosto 2012, n. 14143) secondo il quale qualora l'esclusione di un socio lavoratore di cooperativa si fondi esclusivamente sul suo licenziamento, non si configura l'ipotesi propria della L. n. 142 del 2001, art. 5, comma 20, che prevede, si è visto, l'automatica caducazione del rapporto di lavoro alla cessazione del rapporto associativo.

In base a questa tesi quel che rileverebbe sarebbe la natura delle ragioni addotte a fondamento dell'espulsione del lavoratore.

Sicchè, in caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento che ha costituito motivo determinante l'esclusione, anche quest'ultima risulterebbe illegittima.

Verrebbe in tal caso a trovare attuazione l'art. 18 dello statuto dei lavoratori, perchè, nel caso di delibera di esclusione fondata sul licenziamento, non ricorrerebbero i presupposti di applicazione della L. n. 142 del 2001, art. 2, il quale prevede l'"esclusione dell'articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo".

6.1.- Quest'impostazione determina il capovolgimento della relazione di dipendenza prefigurata dal legislatore tra l'estinzione del rapporto associativo e quella del rapporto di lavoro, che deriva dal collegamento tra essi.

E' la caratteristica morfologica dell'unidirezionalità del collegamento fra i rapporti, difatti, a determinare la dipendenza delle loro vicende estintive, non già l'indagine, necessariamente casistica, sulle ragioni che sono poste a fondamento dell'espulsione del socio lavoratore.

7.- Il nesso di collegamento tra rapporto associativo e rapporto di lavoro, tuttavia, per quanto unidirezionale, non riesce ad oscurare la rilevanza di quello di lavoro, anche nella fase estintiva.

Basta l'aggettivo "ulteriore", tuttora contenuto nel testo novellato della L. n. 142 del 2001, art. 1, ad evidenziarla ed a sottolinearne l'autonomia.

7.1.- Non mostra di tener conto di tale autonoma rilevanza l'orientamento, di segno opposto al precedente, in base al quale, al cospetto di condotte che ledano nel contempo il rapporto associativo e quello di lavoro, sarebbe unico il procedimento volto all'estinzione di entrambi; di modo che, adottata la delibera di esclusione, risulterebbe ultroneo un distinto atto di recesso datoriale dal rapporto di lavoro (Cass. 13 maggio 2016, n. 9916; 12 febbraio 2015, n. 2802; 5 luglio 2011, n. 14741).

Orientamento del quale rappresenta logico corollario quello, già richiamato, secondo il quale l'omessa impugnazione della delibera di esclusione preclude l'esame dell'impugnazione del licenziamento.

8.- Alla duplicità di rapporti può corrispondere la duplicità degli atti estintivi, in quanto ciascun atto colpisce, e quindi lede, un autonomo bene della vita, sia pure per le medesime ragioni: la delibera di esclusione lo status socii, il licenziamento il rapporto di lavoro. Coerentemente si è stabilito (Cass., ord. 29 luglio 2016, n. 15798; ordd. 6 ottobre 2015, nn. 19977, 19976, 19975 e 19974; ord. 21 novembre 2014, n. 24917, le quali evocano la pluralità di tutele) che, in tal caso, il concorso dell'impugnativa della delibera di esclusione e del provvedimento di licenziamento configura un'ipotesi di connessione di cause.

Il punto concerne, ancora, l'interazione degli effetti rispettivamente scaturenti da ciascun atto, al fine della ricostruzione dell'apparato rimediale che si delinea al cospetto della soppressione del bene della vita costituito dal rapporto di lavoro.

8.1.- In seno a questo apparato rimediale, l'effetto estintivo del rapporto di lavoro derivante dall'esclusione dalla cooperativa a norma della L. n. 142 del 2001, art. 5, comma 2, impedisce senz'altro, in mancanza d'impugnazione della delibera che l'abbia prodotto, di conseguire il rimedio della restituzione della qualità di lavoratore.

E' la tutela restitutoria ad essere preclusa dall'omessa impugnazione della delibera di esclusione (sull'applicabilità di tale tutela, in caso di accoglimento dell'impugnazione della delibera, vedi Cass. n. 9916/16, cit.; n. 2802/15, cit.; n. 11741/11, cit.).

Tutela restitutoria, che consegue all'invalidazione della delibera, dalla quale deriva la ricostituzione sia del rapporto societario, sia dell'ulteriore rapporto di lavoro e che, quindi, ripete genesi e fisionomia dalla dinamica del rapporto sociale. Essa risulta quindi del tutto estranea ed autonoma rispetto alla tutela reale prevista dall'art. 18 dello statuto dei lavoratori, di matrice, appunto, lavoristica (sulla quale invece punta, una volta "rimosso il provvedimento di esclusione", Cass. 4 giugno 2015, n. 11548).

L'omessa impugnazione della delibera ne garantisce per conseguenza l'efficacia, anche per il profilo estintivo del rapporto di lavoro.

8.2.- L'effetto estintivo, tuttavia, di per sè non esclude l'illegittimità del licenziamento, come del resto non esclude l'illegittimità della stessa delibera di esclusione che sia fondata sui medesimi fatti; nè elide l'interesse a far valere l'illegittimità del recesso.

8.3.- Qualora s'impugni il solo licenziamento, difatti, non si prescinde dall'effetto estintivo del rapporto di lavoro prodotto dalla delibera di esclusione.

Anzi: proprio perchè la delibera di esclusione, essendo efficace, produce anche l'effetto estintivo del rapporto di lavoro, destinato a restar fermo per mancanza d'impugnazione della fonte che l'ha determinato, viene a determinarsi un danno.

Ed al danno si può porre rimedio con la tutela risarcitoria.

8.4.- Questa ricostruzione si specchia nella previsione già richiamata della L. n. 142 del 2001, art. 2, a proposito dell'"esclusione dell'articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo".

La disposizione conferma che è la - sola - tutela restitutoria ad essere preclusa qualora, insieme col rapporto di lavoro, venga a cessare anche quello associativo: il proprium dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori del quale è esclusa l'applicazione, almeno all'epoca in cui la norma è stata confezionata, consisteva giustappunto nella tutela reale.

Essa, però, lascia impregiudicata l'esperibilità di tutela diversa da questa, ossia di quella risarcitoria contemplata dalla L. 16 luglio 1966, n. 604, art. 8, sempre dovuta qualora il rapporto non si ripristini; laddove, rispetto al risarcimento, l'offerta datoriale di riassunzione contemplata dall'art. 8, corrisponde ad una proposta contrattuale di ricostituzione di un nuovo rapporto (Cass. 24 febbraio 2011, n. 4521; 26 febbraio 2002, n. 2846).

9.- L'accoglimento della domanda risarcitoria non travolge gli effetti della delibera di esclusione; e non impedisce neppure che essa continui a produrre i propri effetti anche come regola del caso concreto: ciò perchè la domanda ha per oggetto il diritto ad un ristoro per il fatto che la cessazione del rapporto di lavoro ha cagionato un danno e l'ha provocato illegittimamente.

L'oggetto del giudizio è definito dalla pretesa fatta valere con la domanda; e qui la pretesa consiste soltanto nel diritto al risarcimento del danno, che deve avere la qualificazione di "ingiusto", ma che innanzi tutto deve essere identificabile come tale.

Rispetto a questa pretesa l'illegittimità del recesso e della delibera di esclusione dovuta ai medesimi fatti identifica l'ingiustizia del danno ed è per conseguenza oggetto di accertamento.

9.1- Pretendere che chi intenda chiedere soltanto la tutela risarcitoria derivante dal licenziamento illegittimo debba impugnare la delibera di esclusione equivarrebbe ad assoggettare la fruizione della prima ad un presupposto proprio della tutela restitutoria conseguente all'invalidazione dell'esclusione.

Laddove, in virtù dell'art. 24 Cost., spetta al titolare della situazione protetta scegliere a quale tutela far ricorso per poter ottenere ristoro del pregiudizio subito.

9.2.- Gli effetti derivanti dalla delibera di esclusione non s'identificano quindi con quelli scaturenti dal licenziamento.

Anzi: sono proprio gli effetti della delibera di esclusione a dare consistenza agli effetti risarcitori derivanti dal licenziamento illegittimo.

Il che sostanzia l'autonomia delle rispettive tutele (secondo un modello già applicato in altri settori come, in via d'esempio, è accaduto a proposito dell'ammissibilità della tutela risarcitoria degli interessi legittimi anche se non sia stata in precedenza richiesta e dichiarata in sede di annullamento l'illegittimità dell'atto: cfr., fra varie, Cass., sez. un., ord. 10 novembre 2010, n. 22809; 3 marzo 2010, n. 5025; 23 dicembre 2008, n. 30254; 15 giugno 2006, n. 13911, nonchè 13 giugno 2006, nn. 13660 e 13659).

9.3.- E', questa, l'opzione più coerente con le esigenze di tutela e garanzia, dinanzi sottolineate, del socio lavoratore, il quale pur sempre, nonostante partecipi alla realizzazione dello scopo mutualistico, permane l'anello debole della combinazione sintetizzata nel lavoro cooperativo.

giovedì 30 novembre 2017


Quali sanzioni derivano dall'inosservanza della legge 260 del 1949?


In base all'art. 6 della legge 260 del 1949:

6. In caso di inosservanza alle norme della presente legge gli imprenditori sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire trecentomila a un milione ottocentomila

mercoledì 29 novembre 2017



Quale retribuzione spetta nelle festivita' ex art. 5 l. 260 del 1949?


In base all'art.5 della legge 260 del 1949:

5. Nelle ricorrenze della festa nazionale (2 giugno), dell'anniversario della liberazione (25 aprile), della festa del lavoro (1° maggio) e nel giorno dell'unità nazionale (4 novembre), lo Stato, gli Enti pubblici ed i privati datori di lavoro sono tenuti a corrispondere ai lavoratori da essi dipendenti i quali siano retribuiti non in misura fissa, ma in relazione alle ore di lavoro da essi compiute, la normale retribuzione globale di fatto giornaliera compreso ogni elemento accessorio. La normale retribuzione sopra indicata sarà determinata ragguagliandola a quella corrispondente ad un sesto dell'orario settimanale contrattuale o, in mancanza, a quello di legge. Per i lavoratori retribuiti a cottimo, a provvigione o con altre forme di compensi mobili, si calcolerà il valore delle quote mobili sulla media oraria delle ultime quattro settimane. 

Ai lavoratori considerati nel precedente comma, che prestino la loro opera nelle suindicate festività, è dovuta, oltre la normale retribuzione globale di fatto giornaliera, compreso ogni elemento accessorio, la retribuzione per le ore di lavoro effettivamente prestate, con la maggiorazione per il lavoro festivo.

Ai salariati retribuiti in misura fissa, che prestino la loro opera nelle suindicate festività, è dovuta, oltre la normale retribuzione globale di fatto giornaliera, compreso ogni elemento accessorio, la retribuzione per le ore di lavoro effettivamente prestate, con la maggiorazione per il lavoro festivo. Qualora la festività ricorra nel giorno di domenica, spetterà ai lavoratori stessi, oltre la normale retribuzione globale di fatto giornaliera, compreso ogni elemento accessorio, anche una ulteriore retribuzione corrispondente all'aliquota giornaliera (12).

martedì 28 novembre 2017

Il lavoratore può rifiutarsi di lavorare nei giorni delle festività infrasettimali?



Cass. civ. Sez. lavoro, Sent. 23-11-2017, n. 27948

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 260 del 1949, artt. 2 e 5; L. n. 90 del 1954, artt. 2 e 3; artt. 1362, 1363, 1368 e 1371 c.c., con riferimento agli artt. 5, parte speciale, sez. 3, 8, comma 14, parte speciale, del c.c.n.l. 7.5.03 per l'industria metalmeccanica privata.

Lamenta che al lavoratore è riconosciuto il diritto soggettivo di astenersi dal lavoro in occasione delle festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze civili o religiose, e tuttavia, allorquando la contrattazione collettiva applicabile preveda, come eccezione alla regola legale, che l'attività lavorativa possa essere svolta anche nei giorni festivi, subordinando la fruizione della festività alle esigenze aziendali, la sussistenza di tali esigenze costituisce l'unico presupposto per l'applicazione del regime di eccezione (contrattuale) in luogo della regola (legale), sicchè il datore di lavoro, che invochi l'applicazione della norma contrattuale, deve solo provare la sussistenza del presupposto di fatto, e cioè delle esigenze aziendali.

Si doleva pertanto che la sentenza impugnata aveva configurato il trattamento economico della festività come un diritto soggettivo incondizionato, inderogabile anche ad opera della contrattazione collettiva.

Il motivo è infondato, come già ritenuto da questa Corte in identica fattispecie (Cass. n.22482/16), alle cui argomentazioni si rinvia.

Qui basti evidenziare che gli artt. 5 e 8 citati prevedono la possibilità di lavorare anche durante le festività, ma non un obbligo. Soprattutto l'art. 8, comma 14, secondo cui "nessun lavoratore può rifiutarsi, salvo giustificato motivo, di compiere lavoro straordinario, notturno e festivo" non può incidere, stante la genericità della dizione festivo sulla disciplina, sovraordinata, di cui alla L. n. 260 del 1949, art. 5, comma 3. Nè la norma può ritenersi comunque derogabile se non dall'accordo individuale col datore di lavoro o da accordi sindacali stipulati da oo.ss. cui il lavoratore abbia conferito esplicito mandato (Cass. n.22482/16, Cass. n.16634/05).

2.- Con il secondo motivo la società denuncia la violazione, omessa e falsa applicazione della L. n. 260 del 1949,artt. 2 e 5; della L. n. 90 del 1954, artt. 2 e 3, oltre che dell'art. 12 preleggi.

Lamenta che dal combinato disposto della L. n. 90 del 1954, art. 2, lett. a) e c) deriverebbe la non estensibilità del trattamento di festività per il lavoratore assente ingiustificato o che sospenda il lavoro per sua volontà.

Il motivo è infondato: la questione è che l'art. 2 prevede la spettanza del trattamento di festività anche se la prestazione lavorativa non è affatto resa in taluni casi di assenza in generale dal lavoro, ritenuti degni di maggior tutela (malattia, gravidanza, etc.), mentre ritenere assente ingiustificato il lavoratore che non presti attività lavorativa durante le festività di legge non è consentito dalla norma.

Questa Corte ha anzi ritenuto che (Cass. n. 16592/15) il provvedimento con cui il datore di lavoro impone al dipendente di prestare l'attività lavorativa nelle festività infrasettimanali in violazione della L. n. 260 del 1949(nella specie, nelle giornate dell'8 dicembre, 25 aprile, 1 maggio e 6 gennaio, con la maggiorazione dei compensi prevista per il lavoro straordinario), è nullo ed integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, sicchè l'inottemperanza del lavoratore è giustificata in base al principio "inadimplenti non est adimplendum" ex art. 1460 c.c. e sul rilievo che gli atti nulli non producono effetti, dovendosi escludere che i provvedimenti aziendali siano assistiti da una presunzione di legittimità che ne imponga l'ottemperanza fino a contrario accertamento in giudizio.

La società, pur prendendo atto del contrario orientamento di questa Corte (Cass. n. 4039/80, n. 9176/97, n. 5712/86) deduce che la rinunciabilità alla festività infrasettimanale comporterebbe la perdita del diritto del lavoratore al relativo trattamento qualora sia rimasto assente senza giustificato motivo o per causa dipendente dalla sua volontà.

Anche tale critica non è fondata per le ragioni sopra evidenziate: la L. n. 90 del 1954, art. 2 estende il diritto al trattamento di festività anche ad alcuni casi, di totale assenza dal lavoro, ritenuti meritevoli di particolare tutela (malattia, gravidanza, etc.). Rovesciare tale norma nel senso di ritenere che il trattamento non spetti in ipotesi in cui il lavoratore semplicemente rifiuti di prestare, come suo diritto, la sua opera durante le festività previste dalla legge non è operazione consentita, nè desumibile dalla norma.

D'altro canto questa Corte ha già osservato che, atteso che la L. n. 260 del 1949, come modificata dalla L. n. 90 del 1954, relativa alle festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze civili o religiose, riconosce al lavoratore il diritto soggettivo di astenersi dal lavoro in occasione di tali festività, regolando compiutamente la materia, non è consentita - ai sensi dell'art. 12 preleggi - l'applicazione analogica delle eccezioni al divieto di lavoro domenicale e deve escludersi che il suddetto diritto possa essere posto nel nulla dal datore di lavoro, essendo rimessa la rinunciabilità al riposo nelle festività infrasettimanali solo all'accordo tra datore di lavoro e lavoratore (Cass. n. 16634/05).

lunedì 27 novembre 2017



Le norme sul licenziamento collettivo si applicano al fine lavoro nelle costruzioni edili?




In base al comma 4 art. 24 della legge 223 del 1991:


4. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano nei casi di scadenza dei rapporti di lavoro a termine, di fine lavoro nelle costruzioni edili e nei casi di attività stagionali o saltuarie.

sabato 25 novembre 2017

Nei criteri di scelta da adottare nei licenziamenti collettivi quale deve essere il rapporto uomini e donne?

In base al comma 2 dell'art. 5 della legge 223 del 1991: "L'impresa non può altresì licenziare una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione".

giovedì 23 novembre 2017



Quale è la nozione di rischio elettivo negli infortuni secondo la giurisprudenza?




Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-07-2017, n. 17917 riepiloga lo stato della giurisprudenza:


Con riferimento al comportamento del lavoratore, per risalente giurisprudenza, l'ambito della tutela risulta delimitato, attraverso il concetto di rischio elettivo, inteso come tutto ciò che sia estraneo e non attinente alla attività lavorativa e dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore; il concetto di rischio elettivo finisce quindi per delimitare sul piano oggettivo l'occasione di lavoro e dunque il concetto di rischio assicurato o di attività protetta. Di recente sul punto, Sez. L, Sentenza n. 6 del 05/01/2015: "In materia di infortuni sul lavoro, l'" occasione di lavoro" di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1224, art. 2, ricomprende tutte le condizioni, incluse quelle ambientali e socio economiche in cui l'attività lavorativa si svolge e nelle quali è insito un rischio di danno per il lavoratore, indipendentemente dal fatto che tale danno provenga dall'apparato produttivo o dipenda da terzi o da fatti e situazioni proprie del lavoratore, con il solo limite, in questo caso, del cosiddetto rischio elettivo".

17.- Dunque, secondo la giurisprudenza, l'assicurato non ha diritto all'indennizzo soltanto quando l'infortunio derivi da "rischio elettivo", ossia quando esso sia la conseguenza di un rischio collegato ad un comportamento volontario, volto a soddisfare esigenze meramente personali e, comunque, indipendente dall'attività lavorativa, cioè di rischio generato da un'attività che non abbia rapporto con lo svolgimento dell'attività lavorativa o che esorbiti in modo irrazionale dai limiti di essa.

19.- Per quanto attiene l'attività lavorativa diretta si afferma invece (Sez. L, Sentenza n. 11417 del 18/05/2009): In materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce rischio elettivo la deviazione, puramente arbitraria ed animata da finalità personali, dalle normali modalità lavorative, che comporta rischi diversi da quelli inerenti le usuali modalità di esecuzione della prestazione. Tale genere di rischio che è in grado di incidere, escludendola, sull'occasione di lavoro - si connota per il simultaneo concorso dei seguenti elementi: a) presenza di un atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; c) mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa.

In materia è stato autorevolmente osservato, da Cass. 15047/2007 (rel. De Matteis): "Quanto alla nozione di rischio elettivo, esso è qualificato dalla dottrina e dalla giurisprudenza come una deviazione puramente arbitraria dalle normali modalità lavorative per finalità personali, che comporta rischi diversi da quelli inerenti alle normali modalità di esecuzione della prestazione (Cass. 18 agosto 1977 n. 3789; Cass. 24 luglio 1991 n. 8292; Cass. 17 novembre 1993 n. 11351; Cass. 3 febbraio 1995 n. 1269; Cass. maggio 1995 n. 6088;Cass. 1 settembre 1997 n. 8269; Cass. 4 dicembre 2001 n. 15312). Nella giurisprudenza di legittimità più recente, esso viene configurato come l'unico limite che incide sulla occasione di lavoro, escludendola (Cass. 19 aprile 1999 n. 3885; Cass. 2 giugno 1999 n. 5419; Cass. 9 ottobre 2000 n. 13447; Cass. 8 marzo 2001 n. 3363). Con formula ormai consolidata e tralaticia, il rischio elettivo può essere individuato attraverso il concorso simultaneo dei seguenti elementi caratterizzanti: a) vi deve essere non solo un atto volontario (in contrapposizione agli atti automatici del lavoro, spesso fonte di infortuni), ma altresì arbitrario, nel senso di illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) diretto a soddisfare impulsi meramente personali (il che esclude le iniziative, pur incongrue, ed anche contrarie alle direttive datoriali, ma motivate da finalità produttive, come nella fattispecie esaminata da Cass. 25 novembre 1975 n. 3950, la quale ha ritenuto non costituire rischio elettivo, ma infortunio sul lavoro connotato eventualmente da colpa del lavoratore, quello di un fattorino che, contrariamente alle direttive aziendali, si attrezzi con un proprio ciclomotore per provvedere ad una più rapida consegna dei plichi della quale è incaricato); c) che affronti un rischio diverso da quello cui sarebbe assoggettato, sicchè l'evento non abbia alcun nesso di derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa.

Questi elementi concorrono a distinguere il rischio elettivo dall'atto lavorativo compiuto con colpa, costituita da imprudenza, negligenza, imperizia, nel quale permane la copertura infortunistica".