martedì 3 settembre 2019



Quale è lo stato della giurisprudenza sulla giusta causa di licenziamento e reintegra ex art. 18 legge 300 del 1970 come modificato dalla legge 92 del 2012? 





Cass. civ. Sez. lavoro, 28/05/2019, n. 14500 

In tema di licenziamento, solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo, ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18, comma 4 della L. 20 maggio 1970 n. 300 novellato. Non è, invece, consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi o dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita al caso non previsto, sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare. 





Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-05-2019, n. 14063 

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento "che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici; v., tra le altre, Cass. n. 2288 del 2019; Cass. n. 7426 del 2018 n. 7426; Cass. n. 6498 del 2012). 

Tale valutazione rientra nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice e non è vincolata dalle previsioni contenute nel codice disciplinare del contratto collettivo. Anche quando la condotta sia astrattamente corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, infatti, occorre pur sempre che essa sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo (v. da ultimo Cass. n. 8826 del 2017, Cass. n. 1595 del 2016 ed i precedenti conformi ivi richiamati). 

Ciò non comporta che dalle valutazioni del codice disciplinare il giudice possa prescindere. Con la predisposizione del codice disciplinare, sebbene di solito in modo generico e meramente esemplificativo, l'autonomia collettiva individua infatti il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli artt. 2104 e 2015 c.c., in quel determinato momento storico ed in quel contesto aziendale. In tal senso, la L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, prevede che "il giudice tiene conto" delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento contenute nei contratti collettivi. Ne consegue coerentemente che, pur non essendo vincolante la tipizzazione delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell'individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso, la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c. e che le parti ben potranno sottoporre il risultato di tale valutazione cui è pervenuto il giudice di merito all'esame di questa Corte sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale costituito dalle previsioni del codice disciplinare (v. Cass. n. 18715 del 2016, Cass. n. 9396 del 2018). 

Nel caso di specie, la Corte distrettuale, pur essendo stata specificamente e ritualmente sollecitata a concretizzare la clausola generale dettata dall'art. 2119 c.c., tramite le previsioni del contratto collettivo applicato dal datore di lavoro (nella specie artt. 220, 226 e 229 c.c.n.l. settore Commercio 18.7.2008), ha trascurato completamente il parametro valutativo individuato dall'autonomia collettiva, tralasciando ogni motivazione circa lo scostamento dalle previsioni del codice disciplinare, che rappresenta il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli artt. 2104 e 2015 c.c. (cfr. in tal senso Cass. n. 28492 del 2018). 

In sintesi, va espresso il seguente principio di diritto: le tipizzazioni delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell'individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso non sono vincolanti per il giudice, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c.. 



Cass. 20-05-2019, n. 13533 



La statuizione del giudice del reclamo che riconosce la sola tutela cd. indennitaria in presenza di licenziamento ritenuto illegittimo per difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva è conforme alla giurisprudenza di questa Corte la quale ha chiarito che in tema di licenziamento disciplinare, qualora vi sia sproporzione tra sanzione e infrazione, spetta la sola tutela risarcitoria ove la condotta in addebito non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi ovvero i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa; in tal caso il difetto di proporzionalità ricade, difatti, tra le "altre ipotesi" di cui al novellato comma 5 della L. n. 300 del 1970,art. 18, come modificato dalla cit. L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento ed è accordata la tutela indennitaria cd. forte (Cass. 12/10/2018 n. 25534; 17/10/2018 n. 26013; Cass. 16/7/2018 n. 18823; Cass. 25/5/2017 n. 13178; Cass. 6/11/2014 n. 23669). 



Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 09/05/2019, n. 12365 





In tema di licenziamento disciplinare, ove la condotta addebitata al lavoratore abbia un pari disvalore disciplinare rispetto a quelle punite dal c.c.n.l. con sanzione conservativa, il giudice, sebbene gli sia precluso applicare la tutela reintegratoria alle ipotesi non tipizzate dalla contrattazione collettiva - giacché, nel regime introdotto dalla l. n. 92 del 2012, tale tutela costituisce l'eccezione alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria, presupponendo l'art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, l'abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo, derivante o dalla insussistenza del fatto contestato o dalla chiara riconducibilità della condotta tra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l'espulsione del lavoratore - se ritiene che tale condotta non costituisca comunque giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, utilizzando la graduazione delle infrazioni disciplinari articolate dalle parti collettive come parametro integrativo delle clausole generali di fonte legale, ai sensi dell'art. 30, comma 3, del d.lgs. n. 183 del 2010, potrà dichiarare illegittimo il recesso e, risolto il rapporto di lavoro, applicare la tutela indennitaria prevista dall'art. 18, comma 5, della l. n. 300 del 1970. (Nella fattispecie, relativa a un lavoratore sorpreso dal proprio superiore gerarchico, durante il turno di lavoro notturno, addormentato presso una diversa zona dello stabilimento, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, ritenuta tale condotta assimilabile al c.d. abbandono del posto di lavoro, infrazione punita dal c.c.n.l. addetti Industria Metalmeccanica con sanzione conservativa, aveva applicato la tutela reintegratoria). (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO TRIESTE, 28/11/2017) 



Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 09-05-2019, n. 12365 

In primo luogo deve accertare se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non avendo la riforma del 2012 "modificato le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla L. n. 604 del 1966, laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c., o per giustificato motivo" (così Cass. SS.UU. n. 30985 del 2017). 

Nel caso in cui il giudice escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, deve svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno di una delle due condizioni previste dall'art. 18, comma 4, per accedere alla tutela reintegratoria ("insussistenza del fatto contestato" ovvero fatto rientrante "tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili"), dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal comma 5, "da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale" (ancora Cass. SS.UU. n. 30985 del 2017). 

6. Avuto riguardo alle previsioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari, questa Corte, essendo quella della giusta causa e del giustificato motivo una nozione legale, ha più volte espresso il generale principio che tali previsioni non vincolano il giudice di merito (ex plurimis, Cass. n. 8718 del 2017; Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011). Anche se "la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c." (Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 28492 del 2018), considerato altresì che la L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, ha previsto che "nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro" (cfr. Cass. n. 32500 del 2018; circa la natura non meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nella L. n. 183 del 2010, art. 30, v. anche Cass. n. 25201 del 2016). 

Il principio generale subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (L. n. 604 del 1966, art. 12). Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti (cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non si accerti che le parti stesse "non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsivà, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016). 

7. La nuova disciplina fissata dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, in tema di tutele applicabili in caso di licenziamento illegittimo appare pienamente coerente rispetto a tali indirizzi consolidati, laddove prevede che, ove il fatto rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, non solo il licenziamento sarà ingiustificato senza possibilità di diversa valutazione da parte del giudice ma il giudice dovrà annullare il licenziamento, ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento di una indennità risarcitoria non superiore a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto. 

8. In ordine ai criteri di interpretazione di un contratto collettivo, questa Corte ha già affermato che, in considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni dettate dall'art. 1362 c.c. e ss.. Coerentemente è stato da gran tempo escluso il ricorso all'applicazione analogica (Cass. n. 7519 del 1983; Cass. n. 5726 del 1985; Cass. n. 6524 del 1988), "atteso che anche nel contratto collettivo le disposizioni in esso contenute conservano pur sempre la loro originaria natura contrattuale e non consentono conseguentemente il ricorso all'analogia, che è un procedimento di integrazione ermeneutica consentito, ex art. 12 preleggi, con esclusivo riferimento agli atti aventi forza o valore di legge" (in termini, Cass. n. 30420 del 2017). 

Con riferimento all'interpretazione estensiva, essa è, in linea generale, consentita ai sensi dell'art. 1365 c.c., per estendere un patto relativo ad un caso ad un altro caso non espressamente contemplato dalle parti. In proposito è stato di recente precisato (Cass. n. 9560 del 2017) che la norma da ultimo citata consente l'interpretazione estensiva di clausole contrattuali solo ove risulti l'"inadeguatezza per difetto" dell'espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, inadeguatezza tradottasi in un contenuto carente rispetto all'intenzione. In tale ipotesi, l'interprete deve tener presenti le conseguenze normali volute dalle parti stesse con l'elencazione esemplificativa dei casi menzionati e verificare se sia possibile ricomprendere nella previsione contrattuale ipotesi non contemplate nell'esemplificazione, attenendosi, nel compimento di tale operazione ermeneutica, al criterio di ragionevolezza imposto dalla medesima norma. E' evidente che la suddetta verifica deve essere eseguita dall'interprete con particolare severità in un contesto, come quello in esame, nel quale trova applicazione il principio generale secondo cui una norma che preveda una eccezione rispetto alla regola generale deve essere interpretata restrittivamente. Ne consegue che in siffatta ipotesi l'interpretazione non può estendersi oltre i casi in cui il plus di significato, che si intenda attribuire alla norma interpretata, non riduca la portata della norma costituente la regola con l'introduzione di nuove eccezioni (cfr., in materia di rapporto regola-eccezione e della necessità di stretta interpretazione di queste ultime e dell'esclusione di qualunque integrazione di tipo analogico o estensivo, Cass. S. U. n. 24772 del 2008 in materia di mandato senza rappresentanza; Cass. n. 13875 del 2010 in tema di patrocinio a spese dello Stato; Cass. n. 8379 del 2018 in materia di forma dei contratti collettivi; Cass. n. 20188 del 2017, che rinvia altresì a Cass. n. 9205 del 1999, in materia di successione e di diritto d'autore). 

Pertanto solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18 novellato, comma 4. 

Coerentemente non può dirsi consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita, per le ragioni suesposte, al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare. 

Una tale possibilità è negata, del resto, dalla lettera del comma 4, della L. n. 300 del 1970, art. 18, che vieta operazioni ermeneutiche che estendano l'eccezione della tutela reintegratoria alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria nonchè, dal punto di vista sistematico, in quanto violerebbe la chiara ratio nel nuovo regime in cui la tutela reintegratoria presuppone l'abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoratore, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato nell'ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l'espulsione del lavoratore. L'apertura all'analogia o a un'interpretazione che allargasse la portata della norma collettiva oltre i limiti sopra delineati, invece, produrrebbe effetti esattamente contrari a quelli chiaramente espressi dal legislatore in termini di esigenza di prevedibilità delle conseguenze circa i comportamenti tenuti dalle parti del rapporto. 

La scelta del legislatore non si palesa irragionevole, tenuto conto che al giudice non è certo inibito di trarre dal pari disvalore disciplinare della condotta addebitata rispetto a quelle punibili con sanzione conservativa secondo le previsioni collettive il convincimento che il comportamento del lavoratore non costituisca giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, utilizzando appunto la graduazione delle infrazioni disciplinari articolate dalle parti collettive come parametro integrativo delle clausole generali di fonte legale; quindi il giudice, ai sensi dell'art. 18, comma 5 cit., dichiarato illegittimo il recesso e risolto il rapporto di lavoro, condannerà il datore di lavoro al pagamento dell'indennità risarcitoria tra 12 e 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto; ciò che gli è precluso dalla previsione normativa è solo disporre la maggiore, eccezionale, tutela reintegratoria, ma, come ancora di recente ribadito dalla Corte costituzionale (sent. n. 194 del 2018, punto 9.2. del considerato in diritto), si tratta di terreno in cui si esercita la discrezionalità del legislatore, negandosi ancora espressamente che "il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost. ... imponga un determinato regime di tutela". 

9. Ebbene, nel caso di specie, la Corte distrettuale ha ritenuto ingiustificato il licenziamento in quanto diretto a sanzionare una condotta alla quale le parti sociali avevano ricollegato una sanzione conservativa ed ha, poi, tratto le immediate conseguenze in ordine al regime di tutela da applicare (scegliendo, dunque, la sanzione reintegratoria della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4). In particolare, il giudice di merito ha ritenuto di sussumere il comportamento contestato nell'ambito della previsione di cui all'art. 9 c.c.n.l. applicato in azienda, nella specie "l'abbandono del posto di lavoro senza giustificato motivo", punito con sanzione conservativa dal c.c.n.l. di settore. 

Così facendo, però, ha interpretato e poi applicato una clausola contrattuale prevedente una sanzione conservativa ad un caso concreto non contemplato dalla medesima. Invero la contrattazione collettiva applicabile annovera ulteriori fattispecie suscettibili di essere punite con sanzioni conservative (quali la mancata presentazione al lavoro, il ritardo all'inizio del lavoro senza giustificato motivo o la sospensione o l'anticipazione della cessazione) facendo riferimento a condotte tutte accomunate dalla caratteristica di essere immediatamente e agevolmente rilevabili dal datore di lavoro in quanto tenute in palese ed aperta violazione dell'obbligo di osservanza dell'orario di lavoro. Ma un'interpretazione rigorosa della clausola contrattuale non consente di sussumere il comportamento adottato dal L. nella tipizzazione contrattuale in quanto comportamento più articolato e complesso, qualitativamente differente, e consistente non semplicemente nella mancata o nell'interrotta prestazione lavorativa immediatamente percepibile al datore di lavoro bensì nella sottrazione dal controllo datoriale al fine di realizzare un'apparente situazione di regolarità lavorativa. 

Non potendo ritenersi ricollegabile la condotta tenuta dal L. con la tipizzazione contenuta nell'art. 9 del c.c.n.l. di settore, e, dunque, dovendo escludersi, per il fatto de quo l'assoggettabilità a sanzione conservativa, il giudice dovrà procedere nuovamente all'accertamento della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo (tenendo conto delle tipizzazioni espresse dalla contrattazione collettiva e utilizzando la discrezionalità che deriva dalla nozione legale di tali giustificazioni) e, nel caso ritenga sproporzionata la sanzione espulsiva adottata, dovrà - in sede di valutazione del regime sanzionatorio da applicare - applicare il regime generale della tutela risarcitoria dettato dal comma 5, dovendosi escludere, per le ragioni in precedenza enunciate, la ricorrenza dei presupposti di legge per l'applicazione della tutela reintegratoria. 

10. Il terzo motivo è assorbito. 





Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., 07-02-2019, n. 3655 

Che il motivo, così come esposto in ricorso è infondato, non avendo colto (e censurato) la ratio decidendi della sentenza impugnata basata sul consolidato orientamento di questa Corte (Cass. n. 20540/15, Cass. n. 18418/16, Cass. n. 11322/18) secondo cui l'insussistenza del fatto contestato, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, comprende anche l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicchè in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria di cui dell'art. 18, comma 4, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità. Questa Corte ha più in particolare chiarito che non è plausibile che il Legislatore, parlando di "insussistenza del fatto contestato", abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, restando estranea alla fattispecie la diversa questione della proporzione tra fatto sussistente e di illiceità modesta, rispetto alla sanzione espulsiva (Cass. 6 novembre 2014 n. 23669, che peraltro si riferiva ad un caso di insussistenza materiale del fatto contestato). In altre parole l'irrilevanza giuridica del fatto (pur accertato) equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell'art. 18, comma 4, cit.. 

Nessun commento:

Posta un commento