Nelle aziende con più
di 15 dipendenti quando posso licenziare ad nutum un lavoratore per
sopraggiunti limiti di età?
In forza dell’art. 24 comma 4 del
DL 201 del 2011: “Il proseguimento dell'attività
lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti
ordinamentali dei rispettivi
settori di appartenenza, dall'operare
dei coefficienti di
trasformazione calcolati fino all'età di settant'anni, fatti
salvi gli adeguamenti alla speranza
di vita, come
previsti dall'articolo 12
del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n.
122 e successive
modificazioni e integrazioni.
Nei confronti dei lavoratori dipendenti,
l'efficacia delle disposizioni di cui all'articolo 18 della legge 20
maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino
al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità.”
In pratica per le aziende in
regime di art. 18 il dipendente che prosegua il rapporto oltre l’età anagrafica
prevista per il pensionamento di vecchiaia non può essere licenziato senza
giusta causa o giustificato motivo sino ai 70 anni. Una volta raggiunta tale
età ferma restando l’anzianità contributiva
minima pari a 20 anni[1] il
datore di lavoro può liberamente recedere
dal rapporto di lavoro dando solo il preavviso contrattuale.
attenzione
Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Roma, con
sentenza depositata il 30 aprile 2014, ha ritenuto che l’art. 24 in questione contenga
unicamente la previsione di un incentivo alla permanenza in servizio fino al
settantesimo anno di età, in coerenza con l’impianto della riforma del sistema
pensionistico che tende all’innalzamento dell’età pensionabile, e un invito
alle parti a consentire la prosecuzione del rapporto Secondo la sentenza, il tenore letterale della norma,
nella parte in cui recita “il proseguimento dell’attività lavorativa è
incentivato … fino all’età di settant’anni …”, non consente, quindi, di
affermare che la norma sancisca un
vero e proprio diritto potestativo del lavoratore di scegliere se rimanere in
servizio fino all’età di settant’anni, né un correlativo obbligo dal datore di
lavoro di consentire la prosecuzione del rapporto fino a tale limite massimo di
età.
Sullo stesso tenore sentenza del
Tribunale di Roma n. 20718/2013, depositata il 5 novembre 2013 e Corte d’Appello di Torino n. 799/2013 (che
fa riferimento ad un licenziamento intervenuto per raggiungimento dell’età
pensionabile intimato il 24 settembre 2012).
Il giudice di merito non ritiene
che il tenore letterale della norma sopra riportata giustifichi l’esistenza di
un diritto potestativo in favore del lavoratore che sarebbe libero di scegliere
se rimanere fino all’età di 70 anni o meno, diritto di fronte al quale
sussisterebbe soltanto un obbligo del datore di lavoro di acconsentire alla
prosecuzione del rapporto fino all’età richiesta dal lavoratore.
L’utilizzazione del termine “incentivato”, secondo il Tribunale di Roma, in
assenza di altre indicazioni che consentano di affermare sia il diritto del
lavoratore che la disciplina dell’esercizio di tale diritto, porta ad affermare
che la disposizione abbia un valore prettamente programmatico: ciò significa
che l’art. 24, comma 4, è, in sostanza, un invito alle parti finalizzato ad una
eventuale prosecuzione fino al limite massimo dei 70 anni, in coerenza con
l’impianto complessivo della riforma del sistema pensionistico che porta
all’innalzamento dell’età pensionabile. La norma, non prevede alcun diritto
potestativo ma incentiva la permanenza in servizio con coefficienti di trasformazione
favorevoli e attraverso la tutela dell’art. 18 della legge n. 300/1970 che va a
sostituire la disposizione attraverso la quale per i lavoratori che
raggiungevano l’età pensionabile esisteva soltanto il recesso “ad nutum”. In
conclusione, tuttavia, il giudice di merito ha rimarcato come la possibilità di
rimanere in servizio dopo il compimento dei 66 anni e 3 mesi e fino ai 70 anni
con la fruizione degli incentivi previsti dalla legge, sia subordinata, in
assenza di un diritto potestativo, al consenso di entrambe le parti, cosa che
nella fattispecie considerata non si è verificata.
Tale principio è stato avvalato
dalla sentenza delle Sez. Unite della Cassazione del 04/09/2015, n. 17589 secondo cui “La disposizione di cui all'art. 24
comma 4 dl
201 del 2011, non attribuisce al lavoratore il diritto potestativo di
proseguire nel rapporto di lavoro fino al raggiungimento del settantesimo anno
di età, in quanto la norma non crea alcun automatismo, ma prefigura solo la
formulazione di condizioni previdenziali che costituiscano incentivo alla
prosecuzione dello stesso rapporto per un lasso di tempo che può estendersi
fino a settanta anni”[1].
[1] Prosegue
la corte: “ad avviso del Collegio,
invece, il legislatore con il richiamo ai "limiti ordinamentali"
intende precisare che la "incentivazione" al prolungamento del
rapporto di lavoro non deve collidere con le disposizioni che, sul piano
legislativo regolano gli specifici comparti (individuati sulla base della
disciplina del rapporto tanto sul piano della regolazione sostanziale che di
quella previdenziale) di appartenenza del lavoratore e che potrebbero essere
ostativi al nuovo regime previsto dalla disposizione in esame. Di fronte alla
genericità della formulazione della disposizione legislativa, quella che viene
qui sostenuta, rappresenta l'interpretazione più ragionevole della norma,
coerente con la soluzione sopra adottata, secondo cui i regimi previdenziali
toccati dall'art. 24, comma 4, sono solo quelli regolati per legge.
16. Tale conclusione trova in qualche modo conferma nella disposizione
del DL 31 agosto 2013 n.101, conv. dalla l. 2013 n. 125, che, nell'ambito del
perseguimento di obiettivi di razionalizzazione della spesa nelle pubbliche
amministrazioni e nelle società partecipate, all'art. 2, comma 5, da
l'interpretazione autentica dell'art. 24, comma 4, sopra indicato. Detto DL
31 agosto 2013 n.101, prevede, infatti, che per i lavoratori dipendenti delle
pubbliche amministrazioni il limite ordinamentale, previsto dai singoli settori
di appartenenza per il collocamento a riposo d'ufficio e vigente alla data di
entrata in vigore del decreto-legge stesso, non è modificato dall'elevazione
dei requisiti anagrafici previsti per la pensione di vecchiaia. Il suo
superamento, precisa la norma, è possibile solo per il trattenimento in
servizio o per consentire all'interessato di conseguire la prima decorrenza
utile della pensione.
17. Inoltre, la disposizione nel prevedere che "il proseguimento
dell'attività lavorativa è incentivato... dall'operaie dei coefficienti di
trasformazione calcolati fino all'età di settantanni..." non attribuisce
al lavoratore un diritto di opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro,
nè consente allo stesso di scegliere tra la quiescenza o la continuazione del
rapporto, ma prevede solo la possibilità che, grazie all'operare di
coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settanta anni, si
creino le condizioni per consentire ai lavoratori interessati la prosecuzione
del rapporto di lavoro oltre i limiti previsti dalla normativa di settore. E'
questo il senso della locuzione "è incentivato... dall'operare dei
coefficienti di trasformazione...", la quale presuppone che non solo si
siano create dette più favorevoli condizioni previdenziali, ma anche che,
grazie all'incentivo in questione, le parti consensualmente stabiliscano la
prosecuzione del rapporto sulla base di una reciproca valutazione di interessi.
Correttamente l'odierna ricorrente, dunque, sostiene che la
disposizione non attribuisce al lavoratore alcun diritto potestativo, in quanto
la norma non crea alcun automatismo ma solo prefigura la formulazione di
condizioni previdenziali che costituiscano incentivo alla prosecuzione del
rapporto di lavoro per un lasso di tempo che può estendersi fino a settanta
anni.
[1] Art. 24 Comma 7.
Il diritto alla pensione di vecchiaia
di cui al
comma 6 è conseguito in presenza di un'anzianità
contributiva minima pari a 20 anni, a condizione che l'importo della
pensione risulti essere
non inferiore, per i lavoratori
con riferimento ai
quali il primo accredito contributivo decorre
successivamente al 1° gennaio 1996, a 1,5
volte l'importo dell'assegno sociale di cui all'articolo 3, comma 6, della
legge 8 agosto 1995, n. 335. Il predetto
importo soglia pari, per l'anno 2012, a 1,5 volte l'importo
dell'assegno sociale di cui all'articolo
3, comma 6, della legge 8 agosto 1995,
n. 335, e' annualmente rivalutato sulla base della
variazione media quinquennale del prodotto interno lordo (PIL) nominale,
appositamente calcolata dall'Istituto
nazionale di statistica (ISTAT), con
riferimento al quinquennio precedente
l'anno da rivalutare.
In occasione di eventuali revisioni della serie storica
del PIL operate dall'ISTAT, i tassi di variazione da considerare sono
quelli relativi alla
seriepreesistente anche per l'anno in
cui si verifica
la revisione e quelli relativi alla nuova serie per gli
anni successivi. Il predetto importo soglia non può in ogni caso essere
inferiore, per un
dato anno, a 1,5 volte l'importo mensile
dell'assegno sociale stabilito per il medesimo anno. Si prescinde
dal predetto requisito di importo minimo
se in possesso di un'età anagrafica
pari a settanta
anni, ferma restando un'anzianità contributiva minima effettiva di cinque anni.
Fermo restando quanto
previsto dall'articolo 2
del decreto-legge 28 settembre
2001, n. 355,
convertito, con modificazioni,
dalla legge 27 novembre 2001, n. 417, all'articolo 1, comma 23 della legge 8 agosto 1995, n.
335, le parole ", ivi comprese quelle relative ai requisiti di accesso
alla prestazione di cui al
comma 19," sono soppresse.
Buongiorno.
RispondiEliminaNel mio caso, quando arriverò ai 66 anni e 7 mesi oggi richiesti, avrò raggiunto una anzianità contributiva in Italia di soli 15 anni, non 20 (dal 2002). Gentilmente vorrei capire se secondo voi il datore di lavoro mi può licenziare prima dei 70 anni o pure no.
Grazie