lunedì 23 marzo 2015

Nelle aziende con più di 15 dipendenti quando posso licenziare ad nutum un lavoratore per sopraggiunti limiti di età?

In forza dell’art. 24 comma 4 del DL 201 del 2011: “Il proseguimento  dell'attività  lavorativa  è  incentivato, fermi restando i  limiti  ordinamentali  dei  rispettivi  settori  di appartenenza,  dall'operare  dei   coefficienti   di   trasformazione calcolati fino all'età di settant'anni, fatti salvi gli  adeguamenti alla  speranza  di  vita,  come   previsti   dall'articolo   12   del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito,  con  modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010,  n.  122  e  successive  modificazioni  e integrazioni. Nei confronti dei  lavoratori  dipendenti,  l'efficacia delle disposizioni di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera  fino  al  conseguimento  del predetto limite massimo di flessibilità.”


In pratica per le aziende in regime di art. 18 il dipendente che prosegua il rapporto oltre l’età anagrafica prevista per il pensionamento di vecchiaia non può essere licenziato senza giusta causa o giustificato motivo sino ai 70 anni. Una volta raggiunta tale età ferma restando l’anzianità contributiva  minima pari a 20 anni[1] il datore di lavoro può liberamente recedere  dal rapporto di lavoro dando solo il preavviso contrattuale. 

attenzione

 Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Roma, con sentenza depositata il 30 aprile 2014, ha ritenuto che l’art. 24 in questione contenga unicamente la previsione di un incentivo alla permanenza in servizio fino al settantesimo anno di età, in coerenza con l’impianto della riforma del sistema pensionistico che tende all’innalzamento dell’età pensionabile, e un invito alle parti a consentire la prosecuzione del rapporto Secondo la sentenza, il tenore letterale della norma, nella parte in cui recita “il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato … fino all’età di settant’anni …”, non consente, quindi, di affermare che la norma sancisca un vero e proprio diritto potestativo del lavoratore di scegliere se rimanere in servizio fino all’età di settant’anni, né un correlativo obbligo dal datore di lavoro di consentire la prosecuzione del rapporto fino a tale limite massimo di età.

Sullo stesso tenore sentenza del Tribunale di Roma n. 20718/2013, depositata il 5 novembre 2013  e Corte d’Appello di Torino n. 799/2013 (che fa riferimento ad un licenziamento intervenuto per raggiungimento dell’età pensionabile intimato il 24 settembre 2012).

Il giudice di merito non ritiene che il tenore letterale della norma sopra riportata giustifichi l’esistenza di un diritto potestativo in favore del lavoratore che sarebbe libero di scegliere se rimanere fino all’età di 70 anni o meno, diritto di fronte al quale sussisterebbe soltanto un obbligo del datore di lavoro di acconsentire alla prosecuzione del rapporto fino all’età richiesta dal lavoratore. L’utilizzazione del termine “incentivato”, secondo il Tribunale di Roma, in assenza di altre indicazioni che consentano di affermare sia il diritto del lavoratore che la disciplina dell’esercizio di tale diritto, porta ad affermare che la disposizione abbia un valore prettamente programmatico: ciò significa che l’art. 24, comma 4, è, in sostanza, un invito alle parti finalizzato ad una eventuale prosecuzione fino al limite massimo dei 70 anni, in coerenza con l’impianto complessivo della riforma del sistema pensionistico che porta all’innalzamento dell’età pensionabile. La norma, non prevede alcun diritto potestativo ma incentiva la permanenza in servizio con coefficienti di trasformazione favorevoli e attraverso la tutela dell’art. 18 della legge n. 300/1970 che va a sostituire la disposizione attraverso la quale per i lavoratori che raggiungevano l’età pensionabile esisteva soltanto il recesso “ad nutum”. In conclusione, tuttavia, il giudice di merito ha rimarcato come la possibilità di rimanere in servizio dopo il compimento dei 66 anni e 3 mesi e fino ai 70 anni con la fruizione degli incentivi previsti dalla legge, sia subordinata, in assenza di un diritto potestativo, al consenso di entrambe le parti, cosa che nella fattispecie considerata non si è verificata.

Tale principio è stato avvalato dalla sentenza delle Sez. Unite della Cassazione del  04/09/2015, n. 17589 secondo cui “La disposizione di cui all'art. 24 comma 4 dl 201 del 2011, non attribuisce al lavoratore il diritto potestativo di proseguire nel rapporto di lavoro fino al raggiungimento del settantesimo anno di età, in quanto la norma non crea alcun automatismo, ma prefigura solo la formulazione di condizioni previdenziali che costituiscano incentivo alla prosecuzione dello stesso rapporto per un lasso di tempo che può estendersi fino a settanta anni”[1].



[1] Prosegue la corte: “ad avviso del Collegio, invece, il legislatore con il richiamo ai "limiti ordinamentali" intende precisare che la "incentivazione" al prolungamento del rapporto di lavoro non deve collidere con le disposizioni che, sul piano legislativo regolano gli specifici comparti (individuati sulla base della disciplina del rapporto tanto sul piano della regolazione sostanziale che di quella previdenziale) di appartenenza del lavoratore e che potrebbero essere ostativi al nuovo regime previsto dalla disposizione in esame. Di fronte alla genericità della formulazione della disposizione legislativa, quella che viene qui sostenuta, rappresenta l'interpretazione più ragionevole della norma, coerente con la soluzione sopra adottata, secondo cui i regimi previdenziali toccati dall'art. 24, comma 4, sono solo quelli regolati per legge.
16. Tale conclusione trova in qualche modo conferma nella disposizione del DL 31 agosto 2013 n.101, conv. dalla l. 2013 n. 125, che, nell'ambito del perseguimento di obiettivi di razionalizzazione della spesa nelle pubbliche amministrazioni e nelle società partecipate, all'art. 2, comma 5, da l'interpretazione autentica dell'art. 24, comma 4, sopra indicato. Detto DL 31 agosto 2013 n.101, prevede, infatti, che per i lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni il limite ordinamentale, previsto dai singoli settori di appartenenza per il collocamento a riposo d'ufficio e vigente alla data di entrata in vigore del decreto-legge stesso, non è modificato dall'elevazione dei requisiti anagrafici previsti per la pensione di vecchiaia. Il suo superamento, precisa la norma, è possibile solo per il trattenimento in servizio o per consentire all'interessato di conseguire la prima decorrenza utile della pensione.
17. Inoltre, la disposizione nel prevedere che "il proseguimento dell'attività lavorativa è incentivato... dall'operaie dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settantanni..." non attribuisce al lavoratore un diritto di opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro, nè consente allo stesso di scegliere tra la quiescenza o la continuazione del rapporto, ma prevede solo la possibilità che, grazie all'operare di coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di settanta anni, si creino le condizioni per consentire ai lavoratori interessati la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre i limiti previsti dalla normativa di settore. E' questo il senso della locuzione "è incentivato... dall'operare dei coefficienti di trasformazione...", la quale presuppone che non solo si siano create dette più favorevoli condizioni previdenziali, ma anche che, grazie all'incentivo in questione, le parti consensualmente stabiliscano la prosecuzione del rapporto sulla base di una reciproca valutazione di interessi.
Correttamente l'odierna ricorrente, dunque, sostiene che la disposizione non attribuisce al lavoratore alcun diritto potestativo, in quanto la norma non crea alcun automatismo ma solo prefigura la formulazione di condizioni previdenziali che costituiscano incentivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro per un lasso di tempo che può estendersi fino a settanta anni.


NB con  ordinanza Tribunale di Roma 24 febbraio 2014: L'art. 24, quarto comma, della legge n. 214 del 2011 si limita a disporre che "Il proseguimento dell'attività lavorativa è incentivato (...) fino all'età di settantenni”. Sotto un profilo strettamente letterale e di tecnica redazionale normativa, la presenza nella proposizione in oggetto del verbo essere unito al participio passato del verbo incentivare indica l'intenzione del legislatore di ritenere dispositiva e immediatamente cogente la previsione relativa. Sotto un profilo logico e di connessione tra il significato dei termini utilizzati, non pare che "l'incentivo" previsto - inteso nel suo significato di "spinta, sprone" - fermi restando "i coefficienti di trasformazione" e il mantenimento delle tutele ex art. 18 1. n. 300 del 1970 "fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità", legato all'utilizzo del termine "proseguimento" che indica la semplice "continuazione" del rapporto, possa essere considerato come un mero invito o essere sottoposto ad un accordo tra le parti. Del resto, la precisazione in tema di garanzia di stabilità del rapporto, in caso di prosecuzione, esclude che il datore di lavoro possa opporsi alla richiesta del lavoratore. Sotto il profilo teleologico, appare chiara la ratio espressa dalla norma e volta ad incentivare il lavoratore alla continuazione dell'attività lavorativa anche alla luce degli intenti espressamente nel comma 1, lett. b) dell'art. 24 in esame ove espressamente si fa riferimento, tra l'altro, al principio della "flessibilità" nell'accesso ai trattamenti pensionistici "anche attraverso incentivi alla prosecuzione della vita lavorativa". Tanto chiarito, la norma in esame stabilisce un consequenziale diritto, di fonte legale, alla continuazione del rapporto lavorativo sino al compimento dei 70 anni di età, pur se il lavoratore abbia raggiunto la massima anzianità contributiva prevista dal proprio ordinamento di categoria.






[1] Art. 24  Comma 7. Il diritto alla pensione di vecchiaia  di  cui  al  comma  6  è conseguito in presenza di un'anzianità contributiva minima pari a 20 anni, a condizione che l'importo della pensione  risulti  essere  non inferiore, per  i  lavoratori  con  riferimento  ai  quali  il  primo accredito contributivo decorre successivamente al 1° gennaio 1996,  a 1,5 volte l'importo dell'assegno sociale di cui all'articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n.  335. Il  predetto  importo  soglia pari, per l'anno 2012, a 1,5 volte l'importo dell'assegno sociale  di cui all'articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995,  n.  335,  e' annualmente rivalutato sulla base della variazione media quinquennale del prodotto interno lordo (PIL)  nominale,  appositamente  calcolata dall'Istituto nazionale di statistica  (ISTAT),  con  riferimento  al quinquennio  precedente  l'anno  da  rivalutare.  In   occasione   di eventuali revisioni della serie storica del PIL operate dall'ISTAT, i tassi di variazione da considerare sono quelli  relativi  alla  seriepreesistente anche per l'anno in  cui  si  verifica  la  revisione  e quelli relativi alla nuova serie per gli anni successivi. Il predetto importo soglia non può in ogni caso essere inferiore,  per  un  dato anno, a 1,5 volte l'importo mensile  dell'assegno  sociale  stabilito per il medesimo anno. Si prescinde dal predetto requisito di  importo minimo se in possesso di un'età anagrafica  pari  a  settanta  anni, ferma restando un'anzianità contributiva minima effettiva di  cinque anni.  Fermo   restando   quanto   previsto   dall'articolo   2   del decreto-legge  28   settembre   2001,   n.   355,   convertito,   con modificazioni, dalla legge 27 novembre 2001, n. 417, all'articolo  1, comma 23 della legge 8 agosto 1995, n. 335, le parole ", ivi comprese quelle relative ai requisiti di accesso alla prestazione  di  cui  al comma 19," sono soppresse.

1 commento:

  1. Buongiorno.
    Nel mio caso, quando arriverò ai 66 anni e 7 mesi oggi richiesti, avrò raggiunto una anzianità contributiva in Italia di soli 15 anni, non 20 (dal 2002). Gentilmente vorrei capire se secondo voi il datore di lavoro mi può licenziare prima dei 70 anni o pure no.
    Grazie

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