Cosa ha stabilito la sentenza della Corte Costituzionale n. 178 del
2015 sul blocco dei contratti nella PA?
composta dai signori: Presidente:
Alessandro CRISCUOLO; Giudici : Paolo Maria NAPOLITANO, Paolo GROSSI, Giorgio
LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo
CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale
dell’art. 9, commi 1, 2-bis, 17, primo periodo, e 21, ultimo periodo, del
decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione
finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122 e dell’art. 16, comma
1, lettere b) e c) del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti
per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, promossi dal Tribunale
ordinario di Roma con ordinanza del 27 novembre 2013 e dal Tribunale ordinario
di Ravenna con ordinanza del 1° marzo 2014, rispettivamente iscritte ai nn. 76
e 125 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica nn. 22 e 35, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visti gli atti di costituzione di FLP –
Federazione lavoratori pubblici e funzioni pubbliche ed altra, di Nardini
Graziella ed altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri e della Federazione GILDA-UNAMS, della CONFEDIR – Confederazione
autonoma dei dirigenti, quadri e direttivi della pubblica amministrazione e
della CSE – Confederazione indipendente sindacati europei;
udito nell’udienza pubblica del 23 giugno
2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi gli avvocati Tommaso De Grandis per la Federazione GILDA-UNAMS ,
Sergio Galleano per la
CONFEDIR – Confederazione autonoma dei dirigenti, quadri e
direttivi della pubblica amministrazione, Michele Lioi per la CSE – Confederazione
indipendente sindacati europei, Michele Lioi, Stefano Viti e Michele Mirenghi
per la FLP –
Federazione lavoratori pubblici e funzioni pubbliche ed altra, Pasquale Lattari
per Nardini Graziella ed altri e l’avvocato dello Stato Vincenzo Rago per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in
funzione di giudice del lavoro, con ordinanza depositata il 27 novembre 2013 e
iscritta al n. 76 del registro ordinanze 2014, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 17, primo periodo,
del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, e
dell’art. 16, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni
urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, prospettando la
violazione degli artt. 2, 3, primo comma, 35, primo comma, 36, primo comma, 39,
primo comma, e 53 della Costituzione.
1.1.– Il giudice rimettente espone di dover
esaminare i ricorsi presentati il 26 ottobre 2012 dalla Federazione lavoratori
pubblici e funzioni pubbliche (FLP) e dalla Federazione italiana autonoma lavoratori
pubblici (FIALP), in qualità di firmatarie dei contratti collettivi stipulati
con l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni
(ARAN) per il personale della Presidenza del Consiglio dei ministri e del
comparto ministeri e per il personale degli enti pubblici non economici.
I sindacati ricorrenti nel giudizio
principale hanno chiesto di accertare il diritto a dar corso alle procedure
contrattuali e negoziali, relative al triennio 2010-2012, per il personale di
cui all’art. 2, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche) e di condannare l’ARAN ad avviare le trattative per il rinnovo dei
contratti, deducendo, a sostegno di tali domande, l’illegittimità
costituzionale della normativa che “congela” i trattamenti economici percepiti
dai dipendenti e “blocca” la contrattazione collettiva «con possibilità di
proroga anche per l’anno 2014».
Nel giudizio principale, si è costituito il
Presidente del Consiglio dei ministri, per contestare la fondatezza del
ricorso, l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, per
carenza del requisito dell’incidentalità, nonché per contestare la sussistenza
dei dedotti profili di contrasto con i parametri costituzionali evocati.
Il giudice rimettente ha disatteso le
eccezioni pregiudiziali, mosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, e ha
ritenuto che risulti soddisfatto il requisito dell’incidentalità.
L’esame della questione di legittimità
costituzionale, invero, rappresenterebbe l’antecedente ineludibile per giungere
all’accertamento del diritto (art. 39, primo comma, Cost.), invocato dalla
parte ricorrente. Tali considerazioni confermerebbero la rilevanza della
questione, poiché il diritto della parte ricorrente ad avviare la
contrattazione con riferimento al periodo 2010-2012 discenderebbe dal vaglio di
costituzionalità della norma in esame.
Con riguardo alla non manifesta
infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, il giudice
rimettente argomenta che la sospensione della contrattazione collettiva
determina una interruzione delle procedure negoziali che si propongono di
garantire la proporzionalità tra il lavoro prestato e la retribuzione dovuta.
La sospensione della contrattazione sui
trattamenti retributivi fino al 31 dicembre 2014 si accompagna
all’impossibilità di qualsivoglia recupero, se solo si considera che,
indipendentemente dalle ragioni poste a base della decretazione d’urgenza, si
riscontra un prolungamento dei limiti posti all’autonomia collettiva.
Tali limiti confliggerebbero con il dettato
degli artt. 35, primo comma, 36, primo comma, e 39, primo comma, Cost.
Le disposizioni censurate, inoltre, si
porrebbero in contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost., anche in relazione
all’art. 2 Cost. Le misure di risanamento sarebbero, infatti, destinate a
ripercuotersi sulle retribuzioni dei soli pubblici dipendenti, così violando il
principio di eguaglianza tra i cittadini e il dovere di solidarietà politica,
sociale ed economica di cui agli artt. 3, primo comma, e 2 Cost.
Tale dovere di solidarietà, difatti, non
potrebbe non gravare sull’intera comunità.
Il giudice a quo osserva che la sospensione
delle procedure contrattuali riguardanti gli incrementi retributivi,
protraendosi fino al 31 dicembre 2014, con esclusione di ogni possibilità di
recupero e di ogni adeguamento dell’indennità di vacanza contrattuale,
interrompe la dinamica retributiva, senza presentare quei caratteri di
eccezionalità e di temporaneità che la
Corte costituzionale ha ritenuto imprescindibili nel vagliare
analoghe misure di contenimento della spesa pubblica.
1.2.– Sono intervenute nel giudizio le
organizzazioni sindacali FLP e FIALP, chiedendo l’accoglimento della questione
di legittimità costituzionale e lamentando, in particolare, l’irragionevole
sacrificio dell’autonomia collettiva, costituzionalmente garantita ed
espressione del principio democratico e partecipativo che permea la Carta costituzionale.
I sindacati intervenuti si dolgono del
fatto che il legislatore abbia inibito del tutto alle organizzazioni sindacali
la libertà di modulare la contrattazione nella materia retributiva, alla luce
della situazione economica generale, così da impedire la ricerca di soluzioni
volte a non far gravare i sacrifici sui lavoratori più deboli.
A questa stregua, finanche i contratti
collettivi dal contenuto prettamente normativo, che non incidono sulla spesa
pubblica, sarebbero stati arbitrariamente preclusi.
La disciplina, destinata a penalizzare in
misura esorbitante il lavoro pubblico, sarebbe discriminatoria rispetto a
quella applicabile al settore privato, non coinvolto da alcuna misura di
contenimento delle retribuzioni, e lo sarebbe anche rispetto a quella che
concerne il personale delle Forze armate, delle Forze di polizia e del Corpo
nazionale dei vigili del fuoco, che beneficerebbe di assegni una tantum nel
corso del triennio di blocco degli adeguamenti retributivi.
1.3.– Nel giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare l’infondatezza della
questione.
Il blocco delle retribuzioni sarebbe
legittimo, in quanto circoscritto ad un periodo contenuto, in concomitanza con
una situazione eccezionale di emergenza economica e finanziaria, e
risponderebbe all’obiettivo di rispettare l’equilibrio di bilancio (art. 81
Cost.) adottando politiche proiettate in un periodo che necessariamente
travalica l’anno.
La difesa dello Stato rileva che il giudice
rimettente censura la violazione dell’art. 53 Cost. soltanto nella parte
dispositiva. Tale censura, oltretutto, sarebbe carente di fondamento, in quanto
difetterebbero gli elementi caratteristici del prelievo tributario.
Quanto al merito della questione e
all’adombrata violazione dell’art. 39, primo comma, Cost., l’Avvocatura
generale dello Stato ribatte che non ha alcuna ragion d’essere una
contrattazione collettiva che non possa approdare ad un risultato utile per le
parti rappresentate.
La difesa dello Stato esclude che vi siano
illegittime disparità di trattamento tra lavoratori privati e lavoratori alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in considerazione delle difformità
delle fattispecie comparate.
1.4.– Nel giudizio è intervenuta la Federazione GILDA-UNAMS ,
che asserisce di essere legittimata ad intervenire, in quanto portatrice di una
posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata dall’esito del giudizio
di legittimità costituzionale.
L’art. 64, comma 5, del d.lgs. n. 165 del
2001 offrirebbe un argomento a favore dell’ammissibilità dell’intervento, in
quanto accorderebbe alle organizzazioni sindacali firmatarie dei contratti
collettivi la facoltà di intervenire nel giudizio anche oltre il termine
previsto dall’art. 419 del codice di procedura civile.
La normativa, inoltre, contravverrebbe alla
Carta sociale europea (art. 6, sul diritto di negoziazione collettiva), riveduta,
con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva
con legge 9 febbraio 1999, n. 30, e agli artt. 27 e 28 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e
adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che tutelano, rispettivamente, il
diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’àmbito
dell’impresa e il diritto di negoziazione e di azioni collettive.
La norma impugnata istituirebbe, in spregio
all’art. 53 Cost., un prelievo tributario e pregiudicherebbe il diritto dei
lavoratori a percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla
qualità del lavoro svolto, violando, inoltre, i princípi di affidamento, di
buona fede e di eguaglianza sostanziale.
1.5.– Nel giudizio è intervenuta la Confederazione
indipendente sindacati europei (CSE), insistendo per l’accoglimento della
questione di legittimità costituzionale.
Da tale status discenderebbe l’interesse
qualificato a intervenire nel giudizio di costituzionalità, poiché le
disposizioni impugnate lederebbero l’esercizio delle prerogative negoziali
della Confederazione.
Fra tali fonti sovranazionali, la Confederazione
menziona l’art. 6 della Carta sociale europea, l’art. 28 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 152 del TFUE, gli artt. 11,
12, 13 e 14 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei
lavoratori, adottata a Strasburgo il 9 dicembre 1989, la Convenzione n. 151
dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), relativa alla protezione
del diritto di organizzazione e alle procedure per la determinazione delle
condizioni di impiego nella funzione pubblica, adottata a Ginevra il 27 giugno
1978 nel corso della 64ª sessione della Conferenza generale, ratificata e resa
esecutiva con legge 19 novembre 1984, n. 862.
La parte intervenuta osserva che, secondo
la giurisprudenza costituzionale, la mancata attuazione dell’art. 39, secondo
comma, Cost. non dovrebbe giustificare alcun impedimento alla libertà d’azione
dei sindacati e al potere di stipulare contratti, seppure vincolanti soltanto
per gli iscritti.
Nel caso di specie, per contro,
l’intervento legislativo, discriminatorio rispetto ai lavoratori pubblici e
immemore del canone di ragionevolezza, avrebbe «annichilito» la libertà
sindacale.
1.6.– Nel giudizio è intervenuta anche la Confederazione
autonoma dei dirigenti, quadri e direttivi della pubblica amministrazione
(CONFEDIR), rivendicando, a sostegno dell’ammissibilità dell’intervento, un
ruolo primario di rappresentanza delle aree dirigenziali, leso dalle norme
censurate e idoneo a giustificare la partecipazione al giudizio di
costituzionalità di una organizzazione, firmataria degli accordi del 1993, del
1998, del 2009 e chiamata, in particolare, a partecipare a tutti i tavoli di
contrattazione relativi alle aree dirigenziali II, III, IV.
Essa denuncia, inoltre, la violazione degli
artt. 5 e 6 della Carta sociale europea, che tutelano, rispettivamente, i
diritti sindacali e il diritto di negoziazione collettiva, la violazione degli
artt. 27 e 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che
attengono al diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione
nell’àmbito dell’impresa e al diritto di negoziazione e di azioni collettive,
il contrasto inconciliabile delle norme impugnate con la Convenzione OIL n.
87, firmata a San Francisco il 17 giugno 1948, concernente la libertà sindacale
e la protezione del diritto sindacale, e con la Convenzione OIL n.
98, firmata a Ginevra l’8 giugno 1949, concernente l’applicazione dei Principi
del diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva, entrambe ratificate
e rese esecutive con legge 23 marzo 1958, n. 367.
1.7.– In prossimità dell’udienza, la difesa
dello Stato ha depositato una memoria illustrativa, che ribadisce le
argomentazioni già svolte.
La difesa dello Stato ha imputato ai
giudici rimettenti di non avere esplorato la possibilità di un’interpretazione
costituzionalmente orientata, di non avere offerto argomentazioni convincenti
in merito alla rilevanza, trascurando, inoltre, lo stato di emergenza, in cui
le misure si collocano.
Così inquadrata, la normativa impugnata
andrebbe esente dalle censure di violazione degli artt. 2 e 3, primo comma,
Cost.
Essa non avrebbe natura tributaria,
perseguirebbe l’obiettivo di razionalizzare e contenere la spesa pubblica, in
un’ottica di programmazione di bilancio necessariamente pluriennale, e si
limiterebbe a imporre un contributo equamente distribuito tra tutte le
componenti dell’apparato pubblico, senza arrecare alcun vulnus al principio di
proporzionalità della retribuzione al lavoro svolto.
Neppure le doglianze sulla violazione
dell’art. 39, primo comma, Cost. coglierebbero nel segno, giacché la
contrattazione collettiva avrebbe avuto occasione di svolgersi sia a livello
nazionale, sia decentrato.
1.8.– In vista dell’udienza, hanno
depositato una memoria illustrativa anche la FIALP e la
FLP , replicando che le disposizioni impugnate hanno
irragionevolmente limitato e perfino «annichilito», per un arco temporale di
ben cinque anni, quella libertà sindacale, che proprio nella libertà di
contrattazione ha la sua espressione caratteristica.
La contrattazione collettiva nel settore
del lavoro pubblico, che può essere limitata in ragione di esigenze finanziarie
di carattere generale e delle risorse concretamente disponibili (art. 47 del
d.lgs. n. 165 del 2001), non dovrebbe essere sospesa per un periodo così lungo.
Pur in assenza di risorse finanziarie, le
parti collettive potrebbero operare interventi redistributivi e perequativi,
per erogare tutela nei confronti delle fasce di lavoratori a più basso reddito.
Per contro, in conseguenza delle misure
impugnate, il peso del risanamento dei conti pubblici graverebbe in misura
sproporzionata sulla sola categoria dei dipendenti pubblici.
2.– Con ordinanza depositata il 1° marzo
2014 e iscritta al n. 125 del registro ordinanze 2014, il Tribunale ordinario
di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1, 2-bis, 17, primo periodo, e
21, ultimo periodo, del d.l. n. 78 del 2010 e dell’art. 16, comma 1, lettere b)
e c), del d.l. n. 98 del 2011,
in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 35, primo
comma, 36, primo comma, 39, primo comma, e 53 Cost.
2.1.– Il giudice rimettente espone di
conoscere della controversia promossa da dipendenti del Ministero della
giustizia, in servizio presso il Tribunale ordinario di Ravenna.
I ricorrenti hanno chiesto, previo
accertamento dell’illegittimità del blocco stipendiale e contrattuale, di
vedere riconosciuto il diritto all’aumento e/o all’adeguamento del trattamento
retributivo, fermo al 2010, e comunque il diritto all’indennizzo e/o
all’indennità per il danno patito per effetto della violazione del diritto a
una retribuzione giusta e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro
prestato o perlomeno adeguata all’inflazione e/o al costo della vita.
Il lavoro – allegano i ricorrenti – si
sarebbe aggravato in conseguenza della diminuzione del numero dei dipendenti
dell’Ufficio per il “blocco” legislativo del turn over.
La controversia è stata incardinata dinanzi
al Tribunale di Ravenna anche dalla CONFSAL-UNSA, Confederazione generale dei
sindacati autonomi dei lavoratori – Unione nazionale sindacati autonomi. In
qualità di sindacato maggiormente rappresentativo del comparto Ministeri e di
sindacato primo per rappresentatività del Ministero della giustizia, ha
chiesto, in primo luogo, l’accertamento del diritto a partecipare alle
procedure contrattuali collettive e, in secondo luogo, è intervenuta in senso
adesivo alle ragioni dei propri iscritti.
Il Ministero della giustizia si è
costituito nel giudizio principale, deducendo l’infondatezza delle domande e
delle questioni di legittimità costituzionale e sollevando eccezioni
pregiudiziali d’incompetenza per territorio, di carenza di legittimazione
attiva e passiva delle parti.
Il giudice rimettente ha scelto di
decidere, unitamente al merito della causa, le eccezioni relative
all’incompetenza per territorio, con riguardo alla posizione di D’A.C. e P.A.,
le eccezioni di difetto di legittimazione attiva dei ricorrenti e di legittimazione
passiva del Ministero della giustizia.
Quanto alle domande proposte dal sindacato,
volte ad ottenere la riapertura della contrattazione collettiva, il giudice
rimettente si è spogliato della controversia a favore del Tribunale ordinario
di Roma, in funzione di giudice del lavoro. La competenza per territorio si
radicherebbe innanzi a tale giudice, in quanto a Roma ha sede il Ministero
convenuto in causa.
Tale declaratoria d’incompetenza – ad
avviso del giudice rimettente – non elide la rilevanza delle questioni di
legittimità costituzionale del blocco della contrattazione.
Il sindacato, difatti, avrebbe comunque
titolo a sostenere le domande degli iscritti, che presuppongono l’accertamento
dell’illegittimità costituzionale di tale blocco.
In punto di rilevanza, il giudice
rimettente evidenzia che la normativa censurata preclude l’accoglimento delle
domande dei ricorrenti.
Per quel che attiene alla non manifesta
infondatezza, le disposizioni impugnate contrasterebbero con il principio di
eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), poiché si rivolgerebbero ai soli
pubblici dipendenti “contrattualizzati”, senza coinvolgere altre categorie del
lavoro pubblico (appartenenti al comparto scuola, forze armate, prefetti,
ambasciatori, magistrati).
Tali misure confliggerebbero con l’art. 3,
primo comma, Cost., anche sotto il profilo dell’irragionevolezza intrinseca,
giacché sarebbero irrispettose dei caratteri di transitorietà e di
eccezionalità, che la giurisprudenza costituzionale ha indicato come parametri
di legittimità di provvedimenti affini.
Il giudice rimettente scorge un altro
profilo d’illegittimità costituzionale nel contrasto con la gradualità dei
sacrifici imposti (art. 53 Cost.) e la solidarietà (art. 2 Cost.).
La disciplina censurata, secondo questa prospettazione,
penalizzerebbe i dipendenti pubblici che percepiscono gli stipendi più bassi,
preservando la posizione di quelli con redditi più elevati.
Il giudice rimettente segnala, inoltre, la
violazione dell’art. 36, primo comma, Cost., rilevando che il blocco
contrattuale e stipendiale, protraendosi dal 2010, pregiudicherebbe il diritto
a una retribuzione adeguata e proporzionata al lavoro svolto. Il pregiudizio si
aggraverebbe per effetto del blocco del turn over.
Il blocco contrattuale sarebbe lesivo dei
princípi consacrati dagli artt. 35, primo comma, e 39, primo comma, Cost.,
visto che andrebbe a detrimento dell’autonomia negoziale e della libertà
sindacale riservata alle parti nell’àmbito della contrattazione collettiva.
Gli interventi normativi, che limitano al
2013/2014 la riapertura delle procedure contrattuali soltanto per la parte
normativa, non varrebbero a mutare il quadro appena delineato.
2.2.– Nel giudizio sono intervenuti i
lavoratori, ricorrenti nel giudizio a quo, e la Confederazione CONFSAL-UNSA ,
chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale,
sollevata dal Tribunale ordinario di Ravenna, sotto tutti i profili evocati
(violazione della libertà sindacale e dell’autonomia collettiva, tutelate
dall’art. 39, primo comma, Cost., violazione degli artt. 35, primo comma, e 36,
primo comma, Cost., violazione del principio di eguaglianza e di
ragionevolezza).
2.3.– È intervenuto nel giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, con una memoria corredata anche da una
nota del Dipartimento della funzione pubblica, chiedendo di respingere le
questioni di legittimità costituzionale proposte dal Tribunale ordinario di
Ravenna, in quanto irrilevanti, inammissibili e manifestamente infondate.
L’Avvocatura generale dello Stato adombra,
in via pregiudiziale, la carenza d’interesse dell’organizzazione sindacale, che
non ha impugnato gli atti lesivi applicativi.
Per quel che concerne il merito delle
questioni, la difesa dello Stato ribadisce che le disposizioni censurate mirano
a ridurre la spesa pubblica, in adempimento degli obblighi che derivano
dall’appartenenza all’Unione europea e dell’obbligo, costituzionalmente
sancito, di raggiungere l’equilibrio strutturale delle entrate e delle spese
del bilancio.
Sarebbe legittima, alla luce delle
enunciazioni di principio della giurisprudenza costituzionale, l’introduzione
di misure eccezionali, transitorie, non arbitrarie e consentanee allo scopo
prefisso, volte a fissare limiti di compatibilità della contrattazione
collettiva con le finanze pubbliche.
Tali misure non sarebbero irragionevoli, in
quanto salvaguarderebbero l’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale e
non assoggetterebbero al vincolo né le componenti retributive legate ad eventi
straordinari della dinamica retributiva individuale, né la parte accessoria
variabile.
Tali peculiarità garantirebbero il rispetto
del principio di parità di trattamento, del vincolo sinallagmatico, tutelato
dall’art. 36, primo comma, Cost., del diritto di azione sindacale e
dell’autonomia negoziale, che non sarebbe stata affatto esclusa in radice, come
dimostrerebbe l’esplicarsi della contrattazione integrativa e della
contrattazione nazionale.
La difesa dello Stato revoca in dubbio il
carattere pregiudizievole della mancata applicazione dell’indicatore
d’inflazione IPCA (indice dei prezzi al consumo armonizzato europeo) e della
conseguente applicazione, per la rivalutazione dello stipendio, del tasso
d’inflazione programmata.
I dipendenti pubblici, inoltre, avrebbero
percepito quote aggiuntive di salario in misura percentualmente maggiore
rispetto al settore privato, erogate dalla contrattazione integrativa. Le
retribuzioni di fatto del pubblico impiego beneficerebbero di una dinamica
superiore al TIP (tasso di inflazione programmata) e resisterebbero
all’inflazione reale registrata a consuntivo.
Non sarebbero, dunque, fondati i rilievi
sulla disparità di trattamento tra il settore pubblico e il settore privato,
anche perché pretermettono la specialità del rapporto di lavoro pubblico e le
esigenze di perseguimento di interessi generali, coessenziali a tale àmbito.
A fronte di una misura sfornita di ogni
carattere tributario, non parrebbero aver pregio neppure le censure di
violazione degli artt. 2 e 53 Cost.
La normativa, pertanto, ripromettendosi di
neutralizzare gli effetti della crisi economica, in un’ottica di
razionalizzazione e di riduzione della spesa pubblica, non presterebbe il
fianco alle censure proposte.
2.4.– Nella memoria, depositata in
prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha passato in
rassegna le argomentazioni già spese nel giudizio r.o. n. 76 del 2014 (si veda
supra punto 1.7. del Ritenuto in fatto).
2.5.– In vista dell’udienza, hanno
depositato una memoria illustrativa anche i dipendenti del Ministero della
giustizia e la
CONFSAL-UNSA , confutando le tesi propugnate dalla difesa
dello Stato e puntualizzando che, con la legge di stabilità per il 2015, il
blocco della contrattazione economica è stato esteso fino al 31 dicembre 2015.
Le parti intervenute lamentano che la
normativa abbia bilanciato in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti
sociali fondamentali (artt. 35, primo comma, 36, primo comma, e 39, primo
comma, Cost.) e gli obiettivi di pareggio di bilancio e di risanamento
economico (art. 81 Cost.).
La reiterazione delle misure, così come
congegnata in questi anni, implicherebbe una deroga costante al meccanismo di
adeguamento retributivo, pregiudizievole per i dipendenti che percepiscono una
retribuzione modesta e sono costretti, in conseguenza del blocco del turn over,
a un carico di lavoro superiore.
Quanto ai contratti integrativi, enumerati
dalla difesa dello Stato, riguarderebbero aspetti estranei al trattamento
retributivo, sottoposto, con il decorrere del tempo, a una rilevante erosione
del potere d’acquisto, dovuta anche al temporaneo abbandono del meccanismo di
adeguamento secondo l’indice IPCA, che registra dati costantemente superiori al
tasso d’inflazione programmata.
3.– All’udienza pubblica, le parti
costituite nel giudizio e il Presidente del Consiglio dei ministri hanno
insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte.
Considerato
in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in
funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art.
9, commi 1 e 17, primo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure
urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività
economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30
luglio 2010, n. 122, e dell’art. 16, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011,
n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, in riferimento agli
artt. 2, 3, primo comma, 35, primo comma, 36, primo comma, 39, primo comma, e
53 Cost.
La normativa impugnata, che determina per i
lavoratori di cui all’art. 2, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001,
n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche) una prolungata sospensione delle procedure negoziali e
dell’ordinaria dinamica retributiva, si porrebbe in contrasto con i princípi di
eguaglianza, di tutela del lavoro, di proporzionalità della retribuzione al
lavoro svolto, di libertà di contrattazione collettiva.
Le limitazioni, imposte dal legislatore per
il periodo 2010-2014, introdurrebbero una disciplina irragionevole e
sproporzionata, discriminando, per un periodo tutt’altro che transitorio ed
eccezionale, i lavoratori pubblici rispetto ai lavoratori del settore privato.
2.– Il Tribunale ordinario di Ravenna, in
funzione di giudice del lavoro, sospetta di illegittimità costituzionale l’art.
9, commi 1, 2-bis, 17, primo periodo, e 21, ultimo periodo, del d.l. n. 78 del
2010, e l’art. 16, comma 1, lettere b) e c), del d.l. n. 98 del 2011, in riferimento agli
artt. 2, 3, primo comma, 35, primo comma, 36, primo comma, 39, primo comma, e
53 Cost.
Il giudice rimettente assume che il
“congelamento” delle retribuzioni dei pubblici dipendenti rientranti nel regime
della contrattazione collettiva, prolungatosi per il periodo 2010-2014, senza
alcuna possibilità di recupero, riveli molteplici profili di contrasto con la Carta costituzionale.
Tale disciplina, destinata ad applicarsi
per un periodo apprezzabile, comprometterebbe irreparabilmente lo svolgersi
della contrattazione collettiva e il diritto dei lavoratori pubblici,
sottoposti ad un carico di lavoro sempre più gravoso, a percepire una
retribuzione proporzionata al lavoro svolto.
Le norme impugnate, che trascendono i
limiti della transitorietà e dell’eccezionalità tracciati dalla giurisprudenza
costituzionale per gli interventi di contenimento della spesa, introdurrebbero
un prelievo tributario a carico dei pubblici dipendenti, in spregio
all’universale dovere di solidarietà economica (art. 2 Cost.) e al principio di
gradualità dei sacrifici imposti (art. 53 Cost.).
La disciplina in esame discriminerebbe i
lavoratori pubblici rispetto ai lavoratori privati e introdurrebbe disparità di
trattamento arbitrarie anche tra le varie categorie di dipendenti pubblici.
3.– Alle censure dei giudici rimettenti la
difesa dello Stato ha contrapposto l’eccezionalità dell’intervento normativo,
che, in armonia con le esigenze costituzionalmente imposte di salvaguardia
della stabilità di bilancio, si articola comunque in un periodo di tempo
circoscritto e impone un sacrificio ragionevole all’autonomia collettiva e ai
diritti tutelati dall’art. 36, primo comma, Cost., senza introdurre alcun
prelievo tributario e senza ingenerare discriminazioni di sorta con altre
categorie di lavoratori.
4.– I due giudizi, in ragione
dell’omogeneità delle questioni e dell’intima connessione delle censure, devono
essere riuniti e decisi con un’unica sentenza.
5.– In via preliminare, dev’essere
confermata l’ordinanza letta nel corso dell’udienza pubblica e qui allegata,
che ha dichiarato ammissibile l’intervento della Confederazione indipendente
sindacati europei (CSE) e inammissibili gli interventi spiegati dalla Federazione
GILDA-UNAMS e dalla Confederazione autonoma dei dirigenti, quadri e direttivi
della pubblica amministrazione (CONFEDIR), nel giudizio iscritto al n. 76 del
registro ordinanze 2014.
6.– La normativa impugnata, nei termini
esposti dai giudici rimettenti, concerne le previsioni del d.l. n. 78 del 2010
e del d.l. n. 98 del 2011, nella parte in cui sacrificano la libertà di
accedere alla contrattazione collettiva e circondano di limiti rigorosi
l’incremento delle retribuzioni nel lavoro pubblico.
Il d.l. n. 78 del 2010 stabilisce che non
si dia luogo, senza possibilità di recupero, «alle procedure contrattuali e
negoziali relative al triennio 2010-2012 del personale di cui all’articolo 2,
comma 2 […] del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni»
e salvaguarda l’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale «nelle misure
previste a decorrere dall’anno 2010
in applicazione dell’articolo 2, comma 35, della legge
22 dicembre 2008, n. 203» (art. 9, comma 17).
Alla sospensione delle «procedure
contrattuali e negoziali» si associa la previsione del “congelamento” dei
trattamenti retributivi, che, per gli anni 2011, 2012, 2013, non possono
superare, neppure nelle componenti accessorie, «il trattamento ordinariamente
spettante per l’anno 2010» (art. 9, comma 1).
Anche il trattamento accessorio del
personale, ivi compreso quello di livello dirigenziale, e il trattamento
retributivo delle progressioni di carriera soggiacciono a limitazioni
drastiche, che sono fatte segno delle specifiche censure del Tribunale
ordinario di Ravenna.
Quanto al trattamento accessorio del
personale, l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78 del 2010 sancisce che «non può
superare il corrispondente importo dell’anno 2010 ed è, comunque,
automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in
servizio».
L’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010
attribuisce alle progressioni di carriera, per gli anni 2011, 2012, 2013, una
valenza esclusivamente giuridica.
A prolungare gli effetti di tali misure di
contenimento della spesa, interviene il d.l. n. 98 del 2011, che persegue
l’obiettivo di assicurare il consolidamento delle misure di razionalizzazione e
contenimento della spesa in materia di pubblico impiego adottate nell’àmbito
della manovra di finanza pubblica per gli anni 2011-2013, indicando ulteriori
risparmi in termini di indebitamento netto che si spingono fino al 2016 (art.
16, comma 1).
In tale ottica, il legislatore ha demandato
a uno o più regolamenti, da emanare ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge
23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della
Presidenza del Consiglio dei Ministri), previa proposta dei Ministri per la
pubblica amministrazione e l’innovazione e dell’economia e delle finanze, la
previsione della «proroga fino al 31 dicembre 2014 delle vigenti disposizioni
che limitano la crescita dei trattamenti economici anche accessori del
personale delle pubbliche amministrazioni previste dalle disposizioni medesime»
(art. 16, comma 1, lettera b), e «la fissazione delle modalità di calcolo
relative all’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale per gli anni
2015-2017» (art. 16, comma 1, lettera c).
Il d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122
(Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli
automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16,
commi 1, 2 e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111) si colloca nel solco di tali
indicazioni normative.
L’art. 1, comma 1, lettera a), proroga sino
al 31 dicembre 2014 le disposizioni di cui all’art. 9, commi 1, 2-bis e 21 del
d.l. n. 78 del 2010, in
tema di trattamenti economici individuali, di trattamenti accessori, di
progressioni di carriera. L’art. 1, comma 1, lettera c), precisa che «si dà
luogo, alle procedure contrattuali e negoziali ricadenti negli anni 2013-2014
del personale dipendente dalle amministrazioni pubbliche così come individuate
ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, e
successive modificazioni, per la sola parte normativa e senza possibilità di
recupero per la parte economica».
Quanto all’indennità di vacanza
contrattuale, l’art. 1, comma 1, lettera d), esclude che, per il periodo
2013-2014, siano dovuti incrementi. Per la tornata 2015-2017, l’indennità è
dovuta «secondo le modalità ed i parametri individuati dai protocolli e dalla
normativa vigenti».
Le previsioni regolamentari sono state
trasfuse in una fonte di rango legislativo (legge 27 dicembre 2013, n. 147,
recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato – Legge di stabilità 2014»), con riguardo all’indennità di vacanza
contrattuale per il periodo 2015-2017 (art. 1, comma 452), alla sospensione
delle procedure negoziali inerenti alla parte economica per il periodo
2013-2014 (art. 1, comma 453), all’ammontare dei trattamenti accessori (art. 1,
comma 456). Per effetto dell’art. 1, comma 254, della legge 23 dicembre 2014,
n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato – legge di stabilità 2015), la sospensione delle procedure negoziali è
destinata a protrarsi, per la parte economica, fino al 31 dicembre 2015.
A tale sospensione non fa riscontro alcun
incremento dell’indennità di vacanza contrattuale, ancorata, fino al 2018, ai
valori del 31 dicembre 2013 (art. 1, comma 255, della legge n. 190 del 2014).
7.– Le questioni di legittimità
costituzionale devono essere esaminate alla stregua del quadro normativo appena
delineato, caratterizzato da disposizioni susseguitesi nel tempo, legate da un
evidente nesso di continuità, al fine di perseguire un dichiarato obiettivo di
contenimento della spesa.
7.1.– La difesa dello Stato formula alcune
eccezioni preliminari.
Quanto al paventato difetto di
incidentalità, si deve rilevare che entrambi i giudizi non si esauriscono
nell’accertamento dell’illegittimità costituzionale della normativa censurata.
Nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale
ordinario di Roma, le organizzazioni sindacali, oltre all’accertamento del
diritto di accedere alla contrattazione collettiva, hanno chiesto la condanna
dell’ARAN ad avviare le trattative. Nel contenzioso ravennate il giudice è
investito delle questioni concernenti le pretese retributive dei lavoratori
ricorrenti, nonché delle domande di natura indennitaria e risarcitoria.
Da tali considerazioni si evince che il
petitum del giudizio principale, in ambedue i casi, ha una maggiore latitudine
rispetto all’oggetto della questione di legittimità costituzionale e involge un
tema di indagine più complesso, che impone ai giudici rimettenti, dopo la
soluzione del dubbio di costituzionalità, di orientare su aspetti diversi il
dibattito processuale. Nei giudizi a quibus, pertanto, non è dato discernere
quella perfetta sovrapponibilità del petitum del giudizio principale rispetto
all’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale (sentenza n. 84 del
2006), che snatura il carattere incidentale del giudizio.
7.2.– La difesa dello Stato, nel giudizio
iscritto al n. 125 del registro ordinanze 2014, adombra una carenza d’interesse
delle organizzazioni sindacali ricorrenti, desumendola dalla mancata
impugnazione degli atti lesivi, chiamati a dare applicazione alle norme
censurate.
Tale rilievo non può essere condiviso.
È palese l’interesse delle organizzazioni
ricorrenti a reclamare l’effettiva tutela di prerogative costituzionali, ad
esse riconoscibili, che si ritiene siano messe a repentaglio dalle norme
impugnate.
7.3.– Nelle memorie integrative, depositate
il 29 maggio 2015, la difesa dello Stato lamenta che i giudici rimettenti
abbiano omesso di esplorare la praticabilità di un’interpretazione conforme al
dettato costituzionale e di offrire una motivazione esaustiva sulla rilevanza
della questione.
Le ordinanze di rimessione superano, anche
da tale angolo visuale, il vaglio di ammissibilità, sollecitato a questa Corte.
Le censure di illegittimità costituzionale si appuntano contro una normativa
con un significato letterale e sistematico inequivocabile, che non offre alcun
appiglio ad una interpretazione alternativa, rispettosa dei princípi della
Carta fondamentale.
8.– Le ordinanze di rimessione, nondimeno,
non appaiono scevre da lacune, che ridondano sul piano dell’inammissibilità di
alcune delle questioni proposte.
8.1.– Presentano, anzitutto, profili di
inammissibilità le censure riguardanti l’indennità di vacanza contrattuale.
I giudici rimettenti, nell’impugnare l’art.
16, comma 1, lettera c), del d.l. n. 98 del 2011, non spiegano per quale
ragione sia rilevante ratione temporis, alla luce delle domande proposte dalle
parti sindacali e dai lavoratori, una normativa che riguarda specificamente le
modalità di calcolo relative all’erogazione dell’indennità di vacanza
contrattuale per gli anni 2015-2017.
Le ordinanze non chiariscono, inoltre, il
profilo attinente alla non manifesta infondatezza, incentrato sulla violazione
dell’art. 36, primo comma, Cost.
I giudici a quibus, nell’esaminare la
disciplina che concerne la determinazione dell’indennità di vacanza
contrattuale e l’esclusione degli incrementi di questa voce fino al 2017 (e
poi, nella pendenza della lite, fino al 2018), non enunciano le ragioni del
contrasto della normativa con il canone della proporzionalità della
retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.).
Secondo l’insegnamento costante di questa
Corte, la conformità della retribuzione ai requisiti di proporzionalità e
sufficienza indicati dall’art. 36, primo comma, Cost. deve essere valutata in
relazione alla retribuzione nel suo complesso, non già alle singole componenti
di essa (fra le tante, sentenze n. 366 del 2006 e n. 164 del 1994).
Le ordinanze non si soffermano su tale
valutazione complessiva.
8.2.– Con riguardo alla dedotta violazione
dell’art. 35, primo comma, Cost., le ordinanze di rimessione non offrono, a
sostegno dei dubbi di costituzionalità, argomentazioni autonome, che valgano ad
affrancare il richiamo al precetto costituzionale dalla sua funzione ancillare
rispetto alle censure fondate sugli artt. 36, primo comma, e 39, primo comma,
Cost.
8.3.– Sono inammissibili anche le questioni
proposte dal Tribunale ordinario di Roma in riferimento all’art. 53 Cost.
Su tale profilo, l’ordinanza di rimessione
è parca di riferimenti circostanziati e – come la difesa dello Stato non ha
mancato di eccepire – si limita a menzionare nel dispositivo il parametro
costituzionale, omettendo di fornire un’argomentazione esaustiva sulle ragioni
del contrasto con le norme invocate.
9.– Così delimitato l’àmbito del giudizio,
occorre esaminare le censure che postulano l’illegittimità radicale dei
provvedimenti legislativi restrittivi della dinamica contrattuale e salariale
nel lavoro pubblico, senza annettere alcun rilievo al fattore della durata di
tali misure.
9.1.– Il Tribunale ordinario di Ravenna
ritiene di argomentare tale illegittimità sulla scorta del richiamo all’art. 53
Cost. e configura, per il caso di specie, un prelievo tributario a tutti gli
effetti. Il giudice rimettente raccorda il principio di “gradualità dei
sacrifici imposti”, di progressività dell’imposizione e di capacità
contributiva (art. 53 Cost.) al più generale dovere di solidarietà, prescritto
dall’art. 2 Cost.
Le censure, così articolate, muovono
dall’erroneo presupposto interpretativo che il meccanismo di “blocco” si
sostanzi, in ultima analisi, nell’imposizione di un tributo.
Le caratteristiche delle misure impugnate,
che si traducono in un mero risparmio di spesa e non si atteggiano come
decurtazione definitiva del patrimonio del soggetto passivo e come atto
autoritativo di carattere ablatorio, diretto a reperire risorse per l’erario,
divergono dagli elementi distintivi del prelievo tributario (fra le tante,
sentenza n. 70 del 2015, punto 4. del Considerato in diritto).
Gli elementi indefettibili della
prestazione tributaria, enucleati dalla costante giurisprudenza di questa
Corte, si identificano, per un verso, nella presenza di una disciplina legale,
finalizzata in via prevalente a provocare una decurtazione patrimoniale del
soggetto passivo, svincolata da ogni modificazione del rapporto sinallagmatico.
Per altro verso, a definire la natura tributaria concorre l’elemento
teleologico.
In particolare, le risorse derivanti dal
prelievo e connesse a un presupposto economicamente rilevante, idoneo a porsi
come indice della capacità contributiva, devono essere destinate a «sovvenire
le pubbliche spese» (sentenza n. 310 del 2013, punto 11. del Considerato in
diritto). Caduta la premessa che si tratti di un tributo, anche le censure di
violazione dell’art. 53 Cost. perdono consistenza.
9.2.– Altre censure sono accomunate dal
riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., evocato dal Tribunale ordinario di
Roma anche in rapporto ai doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., e additano,
in prima istanza, un’ingiustificata disparità di trattamento tra il lavoro
pubblico e il lavoro privato.
Il Tribunale ordinario di Ravenna, dal
canto suo, evidenzia altre sperequazioni con riferimento a diversi pubblici
dipendenti, lungo il discrimine che corre, da un lato, tra il lavoro pubblico
assoggettato a una disciplina contrattuale e, dall’altro, il lavoro pubblico
escluso da tale disciplina. Disparità di trattamento sarebbero anche
ravvisabili tra i diversi comparti del lavoro pubblico regolato dalla fonte
contrattuale.
Neppure tali censure sono fondate.
La disciplina impugnata, che non lascia
indenne il personale della carriera diplomatica (sentenza n. 304 del 2013)
menzionato come termine di paragone dal giudice ravennate, persegue l’obiettivo
di un risparmio di spesa, che «opera riguardo a tutto il comparto del pubblico
impiego, in una dimensione solidaristica – sia pure con le differenziazioni
rese necessarie dai diversi statuti professionali delle categorie che vi
appartengono» (sentenza n. 310 del 2013, punto 13.5. del Considerato in
diritto).
I giudici rimettenti non tengono conto
della diversità degli statuti professionali delle categorie appartenenti al
lavoro pubblico e comparano fattispecie dissimili, che non possono fungere da
utile termine di raffronto.
Il lavoro pubblico e il lavoro privato non
possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120 del 2012 e n.
146 del 2008) e le differenze, pur attenuate, permangono anche in séguito
all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro
prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
La medesima eterogeneità dei termini posti
a raffronto connota l’area del lavoro pubblico contrattualizzato e l’area del
lavoro pubblico estraneo alla regolamentazione contrattuale. Tale eterogeneità
preclude ogni plausibile valutazione comparativa sul versante dell’art. 3,
primo comma, Cost. e risalta ancor più netta in ragione dell’irriducibile
specificità di taluni settori (forze armate, personale della magistratura), non
governati dalla logica del contratto e indicati dal giudice ravennate come
tertia comparationis. Si valorizza in tal modo una funzione solidaristica delle
misure adottate, strettamente collegata all’eccezionalità della situazione
economica generale, in piena armonia con il dettato dell’art. 2 Cost.
Con riguardo al trattamento differenziato
riservato al personale della scuola, il Tribunale ordinario di Ravenna non
offre ragguagli di sorta in merito alle peculiarità di tale disciplina e
all’irragionevolezza intrinseca delle differenze che intercorrono tra il genus
del lavoro pubblico, disciplinato dal contratto, e la species del comparto
della scuola che, pur nella comune matrice negoziale della disciplina del
rapporto, serba intatta la sua particolarità.
10.– Sgombrato il campo dalle censure che
presuppongono l’indiscriminata illegittimità della sospensione delle procedure
negoziali, l’analisi non può che riguardare ciascun provvedimento legislativo,
ricostruendone la ratio e le finalità, allo scopo di saggiarne la compatibilità
con i parametri costituzionali richiamati.
10.1.– In tal modo si è mossa la
giurisprudenza di questa Corte, sin dalle pronunce sulla legittimità
costituzionale dell’art. 7, comma 3, del decreto-legge 19 settembre 1992, n.
384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego,
nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14
novembre 1992, n. 438 (sentenza n. 245 del 1997, ordinanza n. 299 del 1999).
Nella disamina di una normativa che, per
l’anno 1993, disconosceva ogni incremento retributivo, questa Corte ha mostrato
di ponderare le finalità particolari, che ispiravano quei provvedimenti di
contenimento della spesa. Le misure a quel tempo adottate non trasmodavano in
una disciplina arbitraria, proprio perché circoscritte entro un anno (sentenza
n. 245 del 1997, punto 3. del Considerato in diritto).
10.2.– Quanto ai vincoli legali
all’autonomia collettiva, volti a garantire la «compatibilità con obiettivi
generali di politica economica», questa Corte ne ha riconosciuto la
legittimità, giustificando in «situazioni eccezionali» ed eminentemente
transitorie, allorché sia in gioco la «salvaguardia di superiori interessi
generali», la compressione della libertà tutelata dall’art. 39, primo comma,
Cost. (sentenza n. 124 del 1991, punto 6. del Considerato in diritto).
Anche tali rilievi sottendono una
valutazione particolare, condotta caso per caso, e non si accordano con la tesi
che sia per ciò stesso illegittima ogni misura che precluda, per un arco di
tempo comunque definito, gli incrementi salariali e arresti lo svolgimento
delle procedure negoziali.
10.3.– Tale valutazione si incentra sul
contemperamento dei diritti, tutelati dagli artt. 36, primo comma, e 39, primo
comma, Cost., con «l’interesse collettivo al contenimento della spesa
pubblica», che deve essere adeguatamente ponderato «in un contesto di
progressivo deterioramento degli equilibri della finanza pubblica» (sentenza n.
361 del 1996, punto 3. del Considerato in diritto).
Si tratta di misure oggi più stringenti, in
séguito all’introduzione nella Carta fondamentale dell’obbligo di pareggio di
bilancio (art. 81, primo comma, Cost., come sostituito dall’art. 1 della legge
costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, recante «Introduzione del principio del
pareggio di bilancio nella Carta costituzionale»).
Il sistema della contrattazione collettiva
nel lavoro pubblico, inteso nella sua interezza, contempla la pianificazione
degli oneri connessi al suo svolgersi nel tempo, secondo un modello dinamico,
«in coerenza con i parametri previsti dagli strumenti di programmazione e di
bilancio di cui all’articolo 1-bis della legge 5 agosto 1978, n. 468, e
successive modificazioni e integrazioni» (art. 48, comma 1, del d.lgs. n. 165
del 2001).
11.– Ciò posto, l’analisi deve muovere
dalle disposizioni dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, che reca l’eloquente
rubrica «Contenimento delle spese in materia di impiego pubblico» e, in
ossequio a tale linea programmatica, preclude ogni incremento dei trattamenti
economici complessivi dei singoli dipendenti per gli anni 2011, 2012, 2013
(comma 1), ogni efficacia economica delle progressioni di carriera (comma 21),
e – per il periodo che dal 1° gennaio 2011 giunge fino al 31 dicembre 2013 –
vieta ogni incremento dell’ammontare complessivo delle risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del personale (comma 2-bis).
La scelta di adottare disposizioni
restrittive culmina nella sospensione dello svolgimento delle procedure
“contrattuali e negoziali” per il triennio 2010-2012 (comma 17).
12.– Le disposizioni in esame sfuggono alle
censure dei giudici rimettenti.
12.1.– Con l’assetto normativo delineato
dall’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, questa Corte ha già avuto occasione di
confrontarsi (sentenze n. 219 del 2014 e n. 310 del 2013).
Seppure sotto angolazioni specifiche, le
sentenze citate hanno respinto le censure di illegittimità costituzionale delle
misure contenute nel d.l. n. 78 del 2010, sulla base di un percorso
argomentativo che instrada alla soluzione delle questioni di legittimità
costituzionale qui considerate.
Si è precisato, in quell’occasione, che le
prospettive necessariamente pluriennali del ciclo di bilancio non consentono
analogie con situazioni risalenti in cui le manovre economiche si ponevano
obiettivi temporalmente delimitati. A tale riguardo, questa Corte ha
valorizzato «[l]a recente riforma dell’art. 81 Cost., a cui ha dato attuazione
la legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio
del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della
Costituzione), con l’introduzione, tra l’altro, di regole sulla spesa, e
dell’art. 97, primo comma, Cost., rispettivamente ad opera degli artt. 1 e 2
della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del
pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), ma ancor prima il nuovo primo
comma dell’art. 119 Cost.» (sentenza n. 310 del 2013, punto 13.4. del
Considerato in diritto).
Anche la direttiva 8 novembre 2011, n.
2011/85/UE (Direttiva del Consiglio relativa ai requisiti per i quadri di
bilancio degli Stati membri) corrobora la necessità di considerare le politiche
di bilancio in una dimensione pluriennale, puntualizzando che «la maggior parte
delle misure finanziarie hanno implicazioni sul bilancio che vanno oltre il
ciclo di bilancio annuale» e che «[u]na prospettiva annuale non costituisce
pertanto una base adeguata per politiche di bilancio solide» (considerando n.
20).
Alla stregua di tali rilievi, questa Corte
ha riconosciuto la ragionevolezza di un sistema di misure dotate di una
proiezione strutturale, che esclude in radice ogni possibilità di recupero
delle procedure negoziali per il periodo di riferimento (sentenza n. 189 del
2012, punto 4.1. del Considerato in diritto).
La natura pluriennale delle politiche di
bilancio, espressamente considerata nei precedenti citati, è speculare alla
durata triennale delle tornate contrattuali, nei termini consacrati nell’
“Intesa per l’applicazione dell’Accordo quadro sulla riforma degli assetti
contrattuali del 22 gennaio 2009 ai comparti contrattuali del settore
pubblico”, siglata a Roma il 30 aprile 2009 dai ministri competenti e da alcune
organizzazioni sindacali (si veda, in particolare, art. 2, lettera a).
Si prefigura, in tal modo, sia per la parte
normativa, sia per quella economica, una spiccata dimensione programmatica
della contrattazione collettiva. A conferma di una natura dinamica, tipica dei
meccanismi di rinnovo dei contratti collettivi, si possono osservare le
interrelazioni degli stessi con la manovra triennale di finanza pubblica,
secondo le cadenze scandite dall’art. 11, comma 1, della legge 31 dicembre
2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica) e secondo i criteri
indicati dall’art. 17, comma 7 della stessa legge.
Spetta alla legge di stabilità indicare,
per ciascuno degli anni compresi nel bilancio pluriennale, l’importo
complessivo massimo destinato al rinnovo dei contratti del pubblico impiego
(art. 11, comma 3, lettera g, della legge n. 196 del 2009, ai sensi dell’art.
48, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001).
12.2.– La legittimità delle misure
ricordate, oltre che nella prospettiva programmatica ora esposta, risiede nella
ragionevolezza che ne ispira le linee direttrici.
Si tratta, invero, di provvedimenti che,
pur diversamente modulati, si applicano all’intero comparto pubblico e
impongono limiti e restrizioni generali, in una dimensione che questa Corte ha
connotato in senso solidaristico (sentenza n. 310 del 2013, punto 13.5. del
Considerato in diritto, già citato).
La ragionevolezza delle misure varate
discende anche dalla particolare gravità della situazione economica e
finanziaria, concomitante con l’intervento normativo.
Tali dati contingenti sono confermati sia
dalle fonti ufficiali (Rapporto semestrale ARAN sulle retribuzioni dei pubblici
dipendenti, giugno 2010), sia dai lavori preparatori. Il dibattito che, al
Senato, scandisce l’iter parlamentare della conversione in legge del decreto
polarizza l’attenzione sulla «particolare gravità della situazione economica e
finanziaria internazionale» e sulle «ripercussioni sull’economia nazionale»
(seduta della Quinta Commissione del Senato – Commissione Bilancio – del 16
giugno 2010).
Dal canto suo, la magistratura contabile
avvalora l’urgenza di intervenire con misure di contenimento delle retribuzioni
(Corte dei conti, sezioni riunite in sede di controllo, rapporto 2012 sul
coordinamento della finanza pubblica, e Corte dei conti, sezioni riunite in
sede di controllo, rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica).
La ragionevolezza dell’intero impianto
normativo si coglie anche nell’incidenza delle misure su una dinamica
retributiva pubblica, che si attestava «su valori più sostenuti di quanto
registrato nei settori privati dell’economia» (si veda il citato Rapporto
semestrale ARAN, giugno 2010). Nella seduta della Quinta Commissione del Senato
(Commissione Bilancio), tenutasi il 16 giugno 2010, si è sottolineato che
nell’ultimo decennio le retribuzioni dei dipendenti pubblici hanno visto «un
incremento di fatto sensibilmente superiore per la pubblica amministrazione
rispetto a quello degli altri due comparti» dell’industria e dei servizi di
mercato. Tale dato collima con quanto è stato segnalato dalla Corte dei conti,
sezioni riunite di controllo, nel rapporto 2012 sul coordinamento della finanza
pubblica.
Il carattere generale delle misure varate
dal d.l. n. 78 del 2010, inserite in un disegno organico improntato a una
dimensione programmatica, scandita su un periodo triennale, risponde
all’esigenza di governare una voce rilevante della spesa pubblica, che aveva
registrato una crescita incontrollata, sopravanzando l’incremento delle
retribuzioni del settore privato.
Sono dunque da disattendere le censure di
violazione degli artt. 36, primo comma, e 39, primo comma, Cost., in quanto il
sacrificio del diritto alla retribuzione commisurata al lavoro svolto e del
diritto di accedere alla contrattazione collettiva non è, nel quadro ora
delineato, né irragionevole né sproporzionato.
13.– Quanto alle disposizioni introdotte
dall’art. 16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 98 del 2011, che demandavano a
un regolamento la possibilità di prorogare fino al 31 dicembre 2014 le vigenti
disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici anche accessori
del personale delle pubbliche amministrazioni, si deve rilevare che il
sindacato di costituzionalità non può tralasciare le norme della legge di
stabilità per il 2014, che hanno recuperato al rango primario la normativa di
matrice regolamentare (d.P.R. n. 122 del 2013), inizialmente intervenuta a
specificare e a completare il contenuto precettivo delle norme di legge
(sentenza n. 1104 del 1988, punto 6. del Considerato in diritto). In
particolare, le previsioni di tale legge riguardano la sospensione delle
procedure negoziali inerenti alla parte economica per il periodo 2013-2014
(art. 1, comma 453, della legge n. 147 del 2013) e la limitazione
dell’ammontare dei trattamenti accessori (art. 1, comma 456, della legge n. 147
del 2013).
Intercorre, dunque, un nesso inscindibile
tra le disposizioni del d.l. n. 98 del 2011, specificamente impugnate, e le
disposizioni della legge di stabilità per il 2014 (sentenze n. 186 del 2013 e
n. 310 del 2010).
14.– In primo luogo, si devono esaminare le
censure relative all’estensione fino al 31 dicembre 2014 delle disposizioni
mirate a bloccare l’incremento dei trattamenti economici complessivi dei
singoli dipendenti e dell’ammontare complessivo delle risorse destinate ai
trattamenti accessori e gli effetti economici delle progressioni di carriera
(art. 1, comma 1, lettera a, del d.P.R. n. 122 del 2013), estensione di cui si
deduce anzitutto il contrasto con l’art. 36, primo comma, Cost.
Sotto tale profilo, le censure formulate
con riguardo all’estensione delle misure restrittive oltre i confini temporali
originariamente tracciati non si dimostrano fondate, al pari di quelle che
riguardavano le originarie disposizioni del d.l. n. 78 del 2010.
14.1.– Entrambi i giudici rimettenti
paventano i riflessi del prolungato blocco della dinamica negoziale sulla
proporzionalità della retribuzione al lavoro prestato.
Il giudice ravennate, in particolare,
correla la violazione del citato canone di proporzionalità al mancato
adeguamento delle retribuzioni al costo della vita e al fatto che le
retribuzioni non rispecchino il livello di professionalità acquisito dai
lavoratori e la maggiore gravosità del lavoro prestato, dovuta al blocco del
turn over.
Neppure tali rilievi persuadono circa la
fondatezza dei dubbi di costituzionalità.
Si deve ribadire, in linea di principio,
che l’emergenza economica, pur potendo giustificare la stasi della
contrattazione collettiva, non può avvalorare un irragionevole protrarsi del
“blocco” delle retribuzioni. Si finirebbe, in tal modo, per oscurare il
criterio di proporzionalità della retribuzione, riferito alla quantità e alla
qualità del lavoro svolto (sentenza n. 124 del 1991, punto 6. del Considerato
in diritto).
Tale criterio è strettamente correlato
anche alla valorizzazione del merito, affidata alla contrattazione collettiva,
ed è destinato a proiettarsi positivamente nell’orbita del buon andamento della
pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).
Nondimeno, il giudizio sulla conformità al
parametro dell’art. 36 Cost. non può essere svolto in relazione a singoli
istituti, né limitatamente a periodi brevi, poiché si deve valutare l’insieme
delle voci che compongono il trattamento complessivo del lavoratore in un arco
temporale di una qualche significativa ampiezza, alla luce del canone della
onnicomprensività (sentenza n. 154 del 2014). Con tale valutazione complessiva
l’ordinanza non si confronta.
Nel considerare – alla stregua della
giurisprudenza di questa Corte – un siffatto arco temporale, si deve notare,
anzitutto, che le disposizioni censurate hanno cessato di operare a decorrere
dal 1° gennaio 2015.
La legge di stabilità per il 2015 non ne ha
prorogato l’efficacia, in quanto ha dettato disposizioni che riguardano
unicamente l’estensione fino al 31 dicembre 2015 del “blocco” della contrattazione
economica (art. 1, comma 254, della legge n. 190 del 2014) ed escludono gli
incrementi dell’indennità di vacanza contrattuale (art. 1, comma 255, della
medesima legge n. 190 del 2014). Emerge dunque con chiarezza l’orizzonte
delimitato entro cui si collocano le misure restrittive citate.
Tra i fattori rilevanti, da valutare in un
arco temporale più ampio, si deve annoverare, in secondo luogo, la pregressa
dinamica delle retribuzioni nel lavoro pubblico, che, attestandosi su valori
più elevati di quelli riscontrati in altri settori, ha poi richiesto misure di
contenimento della spesa pubblica.
A questo riguardo, l’ordinanza di
rimessione del Tribunale ordinario di Ravenna non offre una dimostrazione
puntuale del «macroscopico ed irragionevole scostamento», che, secondo la
giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 126 del 2000, punto 5. del
Considerato in diritto), in difetto di un principio cogente di costante
allineamento delle retribuzioni, denota il contrasto della legge con il
precetto dell’art. 36, primo comma, Cost.
L’argomento suggestivo del “blocco” del
turn over, legato alla specificità del settore della giustizia e della realtà
locale, analizzata nella predetta ordinanza di rimessione, non vale a dar conto
della violazione dei precetti costituzionali denunciata in capo a una normativa
destinata ad applicarsi – nella sua valenza generale ed astratta – a una platea
più vasta di dipendenti del settore pubblico.
Peraltro, dall’incremento delle pendenze da
trattare, congiunto con l’assottigliarsi del numero dei dipendenti, non si può
inferire, per ciò stesso, un aumento del carico di lavoro, che renda
radicalmente sproporzionata la retribuzione percepita.
Un’inferenza come quella ipotizzata
potrebbe essere accreditata di un qualche fondamento empirico, soltanto se le
metodologie di lavoro e i moduli organizzativi permanessero inalterati, senza
riverberarsi sul lavoro degli uffici, e se il disbrigo degli affari avvenisse
secondo le medesime scansioni temporali, imponendo conseguentemente ai dipendenti
un carico di lavoro più gravoso.
Nel caso di specie, pertanto, alla stregua
di una valutazione necessariamente proiettata su un periodo più ampio e del
carattere non decisivo degli elementi addotti a fondamento delle censure, non
risulta dimostrato l’irragionevole sacrificio del principio di proporzionalità
della retribuzione.
14.2.– L’infondatezza delle censure
incentrate sull’art. 36, primo comma, Cost. ha come corollario l’infondatezza
di eventuali pretese risarcitorie o indennitarie.
15.– Sono, invece, fondate, nei termini di
cui si dirà, le censure mosse, al regime di sospensione per la parte economica
delle procedure contrattuali e negoziali in riferimento all’art. 39, primo
comma, Cost. Esse si incentrano sul protrarsi del “blocco” negoziale, così
prolungato nel tempo da rendere evidente la violazione della libertà sindacale
15.1.– Le norme impugnate dai giudici
rimettenti e le norme sopravvenute della legge di stabilità per il 2015 si
susseguono senza soluzione di continuità, proprio perché accomunate da analoga
direzione finalistica.
Tale scansione temporale preclude, in
relazione all’art. 39, primo comma, Cost., ogni considerazione atomistica del
“blocco” della contrattazione economica per il periodo 2013-2014, avulso dalla
successiva proroga. Il “blocco”, così come emerge dalle disposizioni che, nel
loro stesso concatenarsi, ne definiscono la durata complessiva, non può che
essere colto in una prospettiva unitaria.
Ciò risulta anche dalla formulazione
letterale dell’art. 1, comma 254, della legge n. 190 del 2014, che estende fino
al 2015 il “blocco” ed è quindi destinato a incidere sui giudizi in corso.
15.2.– La disamina unitaria delle misure di
“blocco” della contrattazione collettiva le colloca in un orizzonte meno
angusto e contingente, per porne in luce l’incidenza, tutt’altro che episodica,
sui valori costituzionali coinvolti.
La valutazione di tali profili problematici
emerge anche dal dibattito parlamentare, che ha preceduto l’emanazione del
regolamento governativo (Commissioni riunite I, Affari costituzionali, della
Presidenza del Consiglio e Interni, e XI, Lavoro pubblico e privato, della
Camera dei deputati, parere reso il 19 giugno 2013).
Inoltre, l’entrata in vigore delle
disposizioni della legge di stabilità per il 2015 tende a rendere strutturali
le misure introdotte per effetto del d.P.R. n. 122 del 2013 e della legge n.
147 del 2013.
Il fatto che tali misure fossero destinate
a perpetuarsi nel tempo si evince dall’art. 1, comma 255, della legge n. 190
del 2014, che, fino al 2018, cristallizza l’ammontare dell’indennità di vacanza
contrattuale ai valori del 31 dicembre 2013.
Il carattere strutturale delle misure e la
conseguente violazione dell’autonomia negoziale non possono essere esclusi, sol
perché, per la tornata 2013-2014, è stata salvaguardata la libertà di svolgere
le procedure negoziali riguardanti la parte normativa (art. 1, comma 1, lettera
c, del d.P.R. n. 122 del 2013).
La contrattazione deve potersi esprimere
nella sua pienezza su ogni aspetto riguardante la determinazione delle
condizioni di lavoro, che attengono immancabilmente anche alla parte
qualificante dei profili economici.
Non appaiono decisivi, per escludere il
contrasto con l’art. 39, primo comma, Cost., i molteplici contratti enumerati
dalla difesa dello Stato, che non attestano alcun superamento della sospensione
delle procedure negoziali per la parte squisitamente economica del rapporto di
lavoro e per gli aspetti più caratteristici di tale àmbito.
L’estensione fino al 2015 delle misure che
inibiscono la contrattazione economica e che, già per il 2013-2014, erano state
definite eccezionali, svela, al contrario, un assetto durevole di proroghe. In
ragione di una vocazione che mira a rendere strutturale il regime del “blocco”,
si fa sempre più evidente che lo stesso si pone di per sé in contrasto con il
principio di libertà sindacale sancito dall’art. 39, primo comma, Cost.
16.– La libertà sindacale è tutelata
dall’art. 39, primo comma, Cost., nella sua duplice valenza individuale e
collettiva, e ha il suo necessario complemento nell’autonomia negoziale (ex
plurimis, sentenze n. 697 del 1988, punto 3. del Considerato in diritto, e n.
34 del 1985, punto 4. del Considerato in diritto).
Numerose fonti internazionali soccorrono
nella definizione del nesso funzionale che lega un diritto a esercizio collettivo,
quale è la contrattazione, con la libertà sindacale. Pertanto,
l’interpretazione della fonte costituzionale nazionale si collega
sincronicamente con l’evoluzione delle fonti sovranazionali e da queste trae
ulteriore coerenza.
Tra tali fonti spiccano la Convenzione
dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) n. 87, firmata a San
Francisco il 17 giugno 1948, concernente la libertà sindacale e la protezione
del diritto sindacale, la
Convenzione OIL n. 98, firmata a Ginevra l’8 giugno 1949,
concernente l’applicazione dei Principi del diritto di organizzazione e di
negoziazione collettiva, entrambe ratificate e rese esecutive con legge 23
marzo 1958, n. 367, e, con specifico riguardo al lavoro pubblico, la Convenzione OIL n.
151, relativa alla protezione del diritto di organizzazione e alle procedure
per la determinazione delle condizioni di impiego nella funzione pubblica,
adottata a Ginevra il 27 giugno 1978 nel corso della 64ª sessione della
Conferenza generale, ratificata e resa esecutiva con legge 19 novembre 1984, n.
862.
Un rapporto di mutua implicazione tra
libertà sindacale e contrattazione collettiva traspare dall’evoluzione della
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla libertà
sindacale, che interpreta estensivamente l’art. 11 della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848 (Grande Camera, sentenza 12 novembre 2008, Demir e Baykara
contro Turchia, riguardante il diritto di stipulare contratti collettivi nel
lavoro pubblico).
Si deve inoltre citare l’art. 6 della Carta
sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996,
ratificata e resa esecutiva con legge 9 febbraio 1999, n. 30, che affianca
all’esercizio collettivo del diritto di contrattazione la procedura dei reclami
collettivi, disciplinata dal Protocollo addizionale alla Carta del 1995.
Il «diritto di negoziare e di concludere
contratti collettivi» è riconosciuto anche dall’art. 28 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e
adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che ha ora «lo stesso valore
giuridico dei trattati», in forza dell’art. 6, comma 1, del Trattato
sull’Unione europea (TUE), come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il
13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008 n. 130,
ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009.
Infine, in un quadro inteso a riconoscere e
a promuovere il ruolo delle parti sociali, a favorire il dialogo tra le stesse,
nel rispetto della loro autonomia, si deve ricordare l’art. 152, comma 1, del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), norma introdotta con il
Trattato di Lisbona.
17.– Il reiterato protrarsi della
sospensione delle procedure di contrattazione economica altera la dinamica
negoziale in un settore che al contratto collettivo assegna un ruolo centrale
(sentenza n. 309 del 1997, punti 2.2.2., 2.2.3. e 2.2.4. del Considerato in
diritto). Nei limiti tracciati dalle disposizioni imperative della legge (art.
2, commi 2, secondo periodo, e 3-bis del d.lgs. n. 165 del 2001), il contratto
collettivo si atteggia come imprescindibile fonte, che disciplina anche il trattamento
economico (art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001), nelle sue componenti
fondamentali ed accessorie (art. 45, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001), e «i
diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le
materie relative alle relazioni sindacali» (art. 40, comma 1, primo periodo,
del d.lgs. n. 165 del 2001).
In una costante dialettica con la legge,
chiamata nel volgere degli anni a disciplinare aspetti sempre più puntuali
(art. 40, comma 1, secondo e terzo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001), il
contratto collettivo contempera in maniera efficace e trasparente gli interessi
contrapposti delle parti e concorre a dare concreta attuazione al principio di
proporzionalità della retribuzione, ponendosi, per un verso, come strumento di
garanzia della parità di trattamento dei lavoratori (art. 45, comma 2, del
d.lgs. n. 165 del 2001) e, per altro verso, come fattore propulsivo della
produttività e del merito (art. 45, comma 3, del d.lgs. 165 del 2001).
Il contratto collettivo che disciplina il
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni si ispira, proprio per
queste peculiari caratteristiche che ne garantiscono l’efficacia soggettiva
generalizzata, ai doveri di solidarietà fondati sull’art. 2 Cost.
Tali elementi danno conto sia delle
molteplici funzioni che, nel lavoro pubblico, la contrattazione collettiva
riveste, coinvolgendo una complessa trama di valori costituzionali (artt. 2, 3,
36, 39 e 97 Cost.), in un quadro di tutele che si è visto essere presidiato anche
da numerose fonti sovranazionali, sia delle disarmonie e delle criticità, che
una protratta sospensione della dinamica negoziale rischia di produrre.
Se i periodi di sospensione delle procedure
“negoziali e contrattuali” non possono essere ancorati al rigido termine di un
anno, individuato dalla giurisprudenza di questa Corte in relazione a misure
diverse e a un diverso contesto di emergenza (sentenza n. 245 del 1997,
ordinanza n. 299 del 1999), è parimenti innegabile che tali periodi debbano
essere comunque definiti e non possano essere protratti ad libitum.
Su tale linea converge anche la Corte europea dei diritti
dell’uomo, che ha sottolineato l’esigenza di «un “giusto equilibrio” tra le
esigenze di interesse generale della comunità e i requisiti di protezione dei
diritti fondamentali dell’individuo» e ha salvaguardato le misure adottate dal
legislatore portoghese – in tema di riduzione dei trattamenti pensionistici –
sulla scorta dell’elemento chiave del limite temporale che le contraddistingue
(Seconda sezione, sentenza 8 ottobre 2013, António Augusto da Conceiçao Mateus
e Lino Jesus Santos Januário contro Portogallo, punti 23 e seguenti del
Considerato in diritto).
Il carattere ormai sistematico di tale
sospensione sconfina, dunque, in un bilanciamento irragionevole tra libertà
sindacale (art. 39, primo comma, Cost.), indissolubilmente connessa con altri
valori di rilievo costituzionale e già vincolata da limiti normativi e da
controlli contabili penetranti (artt. 47 e 48 del d.lgs. n. 165 del 2001), ed
esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa,
all’interno di una coerente programmazione finanziaria (art. 81, primo
comma, Cost.).
Il sacrificio del diritto fondamentale
tutelato dall’art. 39 Cost., proprio per questo, non è più tollerabile.
Solo ora si è palesata appieno la natura
strutturale della sospensione della contrattazione e può, pertanto,
considerarsi verificata la sopravvenuta illegittimità costituzionale, che
spiega i suoi effetti a séguito della pubblicazione di questa sentenza.
18.– Rimossi, per il futuro, i limiti che
si frappongono allo svolgimento delle procedure negoziali riguardanti la parte
economica, sarà compito del legislatore dare nuovo impulso all’ordinaria
dialettica contrattuale, scegliendo i modi e le forme che meglio ne rispecchino
la natura, disgiunta da ogni vincolo di risultato.
Il carattere essenzialmente dinamico e
procedurale della contrattazione collettiva non può che essere ridefinito dal
legislatore, nel rispetto dei vincoli di spesa, lasciando impregiudicati, per
il periodo già trascorso, gli effetti economici derivanti dalla disciplina
esaminata.
Per Questi Motivi
riuniti i
giudizi,
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale sopravvenuta, a decorrere dal giorno successivo
alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
e nei termini indicati in motivazione, del regime di sospensione della
contrattazione collettiva, risultante da: art. 16, comma 1, lettera b), del
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione
finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge
15 luglio 2011, n. 111, come specificato dall’art. 1, comma 1, lettera c),
primo periodo, del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di
proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i
pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16, commi 1, 2 e 3, del
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge
15 luglio 2011, n. 111); art. 1, comma 453, della legge 27 dicembre 2013, n.
147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato – Legge di stabilità 2014) e art. 1, comma 254, della legge 23 dicembre
2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato – Legge di stabilità 2015);
2) dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1,
lettera c), del d.l. n. 98 del 2011, come specificato dall’art. 1, comma 1,
lettera d), del d.P.R. n. 122 del 2013, e dall’art. 1, comma 452, della legge
n. 147 del 2013, promosse, in riferimento all’art. 36, primo comma, della Costituzione,
dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, e dal
Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con le
ordinanze di rimessione indicate in epigrafe;
3) dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e
17, primo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio
2010, n. 122, e dell’art. 16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 98 del 2011,
come specificato dall’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. n.
122 del 2013, con riguardo alla limitazione dei trattamenti economici
complessivi dei singoli dipendenti, e dall’art. 1, comma 1, lettera c), primo
periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013 e dall’art. 1, comma 453, della legge n.
147 del 2013, con riguardo alla sospensione delle procedure contrattuali e
negoziali per la parte economica per il periodo 2013-2014, sollevate, in
riferimento agli artt. 35, primo comma, e 53, primo e secondo comma, della
Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del
lavoro, con l’ordinanza di rimessione indicata in epigrafe;
4) dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9, commi
1, 2-bis, 17, primo periodo, e 21, ultimo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, e
16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 98 del 2011, come specificato dall’art. 1,
comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013, con riguardo
alla limitazione dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti,
del trattamento accessorio, degli effetti economici delle progressioni di
carriera, dall’art. 1, comma 456, della legge n. 147 del 2013, con riguardo
alla limitazione dei trattamenti accessori, dall’art. 1, comma 1, lettera c),
primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013 e dall’art. 1, comma 453, della legge
n. 147 del 2013, con riguardo alla sospensione delle procedure contrattuali e negoziali
per la parte economica per il periodo 2013-2014, promosse, in riferimento
all’art. 35, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di
Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza di rimessione
indicata in epigrafe;
5) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e
17, primo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, sollevate, in riferimento agli
artt. 2, 3, primo comma, 36, primo comma, e 39, primo comma, della
Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del
lavoro, con l’ordinanza di rimessione indicata in epigrafe;
6) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1,
lettera b), del d.l. n. 98 del 2011, come specificato dall’art. 1, comma 1,
lettera a), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013, con riguardo alla
limitazione dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti,
dall’art. 1, comma 1, lettera c), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013, e
dall’art. 1, comma 453, della legge n. 147 del 2013, con riguardo alla
sospensione delle procedure contrattuali e negoziali per la parte economica per
il periodo 2013-2014, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, e
36, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in
funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza di rimessione indicata in
epigrafe;
7) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1,
2-bis, 17, primo periodo, e 21, ultimo periodo, del d.l. n. 78 del 2010,
promosse, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 36, primo comma, 39,
primo comma, e 53, primo e secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale
ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza di rimessione
indicata in epigrafe;
8) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1,
lettera b), del d.l. n. 98 del 2011, come specificato dall’art. 1, comma 1,
lettera a), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013, con riguardo alla
limitazione dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, del
trattamento accessorio, degli effetti economici delle progressioni di carriera,
dall’art. 1, comma 456, della legge n. 147 del 2013, con riguardo alla
limitazione dei trattamenti accessori, dall’art. 1, comma 1, lettera c), primo
periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013, e dall’art. 1, comma 453, della legge n.
147 del 2013, con riguardo alla sospensione delle procedure contrattuali e
negoziali per la parte economica per il periodo 2013-2014, promosse, in
riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 36, primo comma, e 53, primo e
secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Ravenna, in
funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza di rimessione indicata in epigrafe.
Così deciso
in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24
giugno 2015.
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