lunedì 23 febbraio 2015

Quando non  opera il divieto di licenziamento della lavoratrice madre?

In forza dell’art. 54 D.lgs 2001 n. 151 la lavoratrice madre non può essere licenziata dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro (dai due mesi precedenti la data del parto ai tre mesi successivi o nei casi di attestazione del medico dal mese precedente il parto ai quattro mesi successivi in forza dell’art. 20 Dlgs. 151 del 2001 o dai tre mesi precedenti nei casi di lavori pregiudizievoli con le modalità stabilite dall’art. 17 Dlgs. 151 del 2001) nonché fino al compimento di un anno di età del bambino.

Tuttavia ciò non vale in caso:

a) di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro[1];
b) di cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta;
c) di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine;
d) di esito negativo della prova; resta fermo il divieto di discriminazione di cui all'articolo 4 della legge 1991 n. 125, e successive modificazioni[2].

NB:
In forza dell’art. 28 del Dlgs 151 del 2001 Il padre lavoratore ha diritto di astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre.
Pertanto in base al comma 7 dell’art. 54 “In caso di fruizione del congedo di paternità, di cui all'articolo 28, il divieto di licenziamento si applica anche al padre lavoratore per la durata del congedo stesso e si estende fino al compimento di un anno di età del bambino” ferme restando le eccezioni sopra indicate.



[1] Il divieto di licenziamento della lavoratrice madre è reso inoperante, ai sensi dell'art. 3 lettera a) [recte art. 54, comma 3, lettera a), n.d.r.] del dlgs 2001 n. 151, quando ricorra la colpa grave della lavoratrice, che non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, essendo invece necessario - in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1991 - verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla suddetta norma e diversa, per l'indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi d'inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto. L'accertamento e la valutazione in concreto della prospettata colpa grave si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, come tale non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logicamente congrua e giuridicamente immune da vizi. (Rigetta, App. Milano, 07/11/2008) Cass. civ., Sez. lavoro, 29/09/2011, n. 19912

[2] Ora si veda  Art. 25 dlgs 2006 n. 198  Discriminazione diretta e indiretta ( legge 1991 n. 125 art. 4commi 1 e 2)
1.  Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.
 2.  Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
2-bis.  Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti

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