Quando la malattia professionale o l'infortunio non vanno computate nel periodo di comporto stabilito contrattualmente?
"Sembra opportuno richiamare i principi affermati da questa Corte, secondo cui la computabilità nel periodo di comporto delle assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale non si verifica nelle ipotesi in cui l'infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell'ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell'attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all'obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell'art. 2087 cod. civ. In tali ipotesi, infatti, l'impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui la detta prestazione è destinata (Cass., 28 marzo 2011, n. 7037). Si precisa inoltre che è onere della parte provare il collegamento causale tra la malattia che ha determinato l'assenza ed il carattere morbigeno delle mansioni svolte (Cass.,7 aprile 2003, n. 5413; Cass., 23/04/2004, n. 7730; Cass., 25 novembre 2004, n. 22248; Cass., 30 agosto 2006, n. 18711; Cass., 7 aprile 2011, n.7946) Civile Sent. Sez. L Num. 17837 Anno 2015
"Invero, la fattispecie del recesso del datore di lavoro - per l'ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (c.d. eccessiva morbilità) - si inquadra nello schema previsto ed è soggetta alle regole dettate dall'art. 2110 c.c., che prevalgono - per la loro specialità - sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa (art. 1256 c.c., comma 2, e art. 1464 c.c.), sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali (L. n. 604 del 1966 e L. n. 300 del 1970 e successive modifiche), con la conseguenza che, in dipendenza della prospettata specialità e del contenuto derogatorio di dette regole, il datore di lavoro, da un lato, non può unilateralmente recedere o comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (c.d. periodo comporto) - predeterminato dalla legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi oppure, nel difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa - e, dall'altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è all'uopo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo (L. n. 604 del 1966, art. 3), nè della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa (art. 1256 c.c., comma 2, e art. 1464 c.c.), nè della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali (v., ex multis, Cass. 5413/2003).
Le assenze del lavoratore per malattia non giustificano, tuttavia, il recesso del datore di lavoro - in ipotesi di superamento del periodo di comporto - ove l'infermità sia, comunque, imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro - in dipendenza della nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro, che abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) o di specifiche norme, incombendo al lavoratore l'onere di provare il collegamento causale fra la malattia che ha determinato l'assenza e il superamento del periodo di comporto, e le mansioni espletate in mancanza del quale deve ritenersi legittimo il licenziamento. (Rigetta, App. Venezia, 14/07/2008) Cass. civ. Sez. lavoro, 07/04/2011, n. 7946
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