Il Tribunale di Firenze Sez. lavoro, Ord., 27-05-2017 ricostruisce le principali pronunce comunitarie:
"Si osserva che il requisito della cittadinanza per l'accesso al lavoro nella pubblica amministrazione previsto da norme nazionali di diverso rango (art. 51 Cost., art. 2 del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 2 D.P.R. n. 487 del 1994richiamato dall'art. 70 comma 13 D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 1 D.P.C.M. n. 174 del 1994,) ha subito restrizioni derivanti dal processo di integrazione europea, dal principio di libera circolazione all'interno dell'Unione e di non discriminazione, sulla base della nazionalità, tra i lavoratori degli stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione, le condizioni di lavoro (artt. 45 TFUE ex 39 TCE).
L'ordinamento europeo prevede quale eccezione alla abolizione di ogni discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli stati membri, gli impieghi nella pubblica amministrazione (art. 45 paragrafo 4 TFUE). La portata applicativa di detta esclusione, ampia nella enunciazione letterale, è stata definita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in termini restrittivi.
Secondo la Corte la nozione di "pubblica amministrazione", ai sensi dell'art. 45 paragrafo 4 è comunitaria e non può essere rimessa alla discrezionalità degli stati membri (CGUE sent. 12/02/1974 Sotgiu/Deuteche Bundespost C 152/73 punto 5; CGUE sent. 17/12/1979 Commissione CE/Regno del Belgio C 149/79 punto 12 e 18; CGUE sent,. 20/09/2003 Colegio de Oficiales del la Marina Mercante Espanola C 405/2001 punto 38); trattandosi di deroga al principio fondamentale della libera circolazione e della parità di trattamento dei lavoratori comunitari, deve ricevere una interpretazione che ne limiti la portata a quanto è strettamente necessario per salvaguardare gli interessi che essa consente agli stati membri di tutelare (CGUE sent,. 20/09/2003 Colegio de Oficiales della Marina Mercante Espanola C 405 punto 41); la deroga dell'art. 45 paragrafo 4 non trova applicazione a impieghi, che pur dipendendo dallo stato o da altri enti pubblici non implicano la partecipazione a compiti spettanti alla pubblica amministrazione propriamente detta (CGUE sent. 17/12/1979 Commissione CE/Regno del Belgio C 149/79 punto 11; CGUE sent,. 20/09/2003 Colegio de Oficiales della Marina Mercante Espanola C 405/2001 punto 40); ha circoscritto detta deroga ai "posti che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all'esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela di interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche" in quanto "presuppongono, da parte dei loro titolari, l'esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza" (CGUE sent. 17/12/1979 Commissione CE/Regno del Belgio C 149/79 punto 10; CGUE sent. 20/09/2003 Colegio de Oficiales del la Marina Mercante Espanola C 405/2001 punto 39).
Facendo applicazione di detti criteri La Corte di Giustizia non ha ritenuto impieghi nella P.A., pertanto non ricompresi nella deroga al principio di parità di trattamento dei lavoratori comunitari: il tirocinio della professione di insegnante (Corte Giust. 3 luglio 1986, La., c- 66/85), i posti di ricercatore presso il CNR (Corte Giust. 16 giugno 1987, Commissione c. Italia, c- 225/85), i posti di lettore di lingua straniera nell'Università di Venezia (Corte Giust. 30 maggio 1989, Al., C33/88), il lavoro di infermiere (Corte Giust.3 giugno 1986, Commissione c. Francia, c- 307/84), vari impieghi esecutivi presso amministrazioni comunali (es.: falegname, aiuto giardiniere, elettricista; v. Corte Giust., 26 maggio 1982, Commissione c. Belgio, c- 149/79).
Secondo l'interpretazione sempre più rigorosa della Corte di Giustizia i pubblici poteri finalizzati alla tutela dell'interesse nazionale rilevanti ai fini della deroga di cui all'art. 45 paragrafo 4 si manifesterebbero nella posizione e mansione lavorativa che: 1) implichi l'esercizio di poteri di coercizione o d'imperio nei confronti dei terzi, 2) in funzione di interessi generali e non meramente tecnici o economici, 3) e purché siano esercitati in modo abituale e non rappresentino una parte molto ridotta dell'attività (CGUE sent. 20/09/2003 Colegio de Oficiales della Marina Mercante Espanola C 405/2001 punti 42, 44; CGUE sent. An. C 47/2002 punto 63 CGUE; sent. 10/09/2014 Ha. punti 57, 58, 59 che ha ritenuto che la esclusione generale dall'accesso dei cittadini di altri stati membri dalla funzione di Presidente dell'Autorità Portuale, nello specifico di Brindisi, costituisce discriminazione fondata sulla nazionalità vietata dall'art. 45 TFUE).
Detta nozione restrittiva è espressione di un criterio funzionale, che cumula i due requisiti dell'impiego di pubblici poteri, come sopra intesi, e la tutela degli interessi generali dello Stato o delle pubbliche collettività.
In aggiunta si osserva che in pronunce intervenute in tema di discriminazione fondata sulla nazionalità, vietata dall'artt. 49 TFUE (ex 43 TCR diritto di stabilimento), ove la Corte ha fornito l'interpretazione della nozione di pubblici poteri fondanti la deroga consentita dall'art. 51 paragrafo I (ex art. 45 TCE), ha ritenuto illegittimo il requisito della cittadinanza per l'accesso a determinate posizioni lavorative pubbliche o private collegate all'esercizio di pubblici poteri consistenti in: talune attività ausiliarie o preparatorie rispetto all'esercizio dei pubblici poteri (v. in tal senso, sentenze del 13 luglio 1993, Thijssen, C-42/92, EU:C:1993:304, punto 22; del 29 ottobre 1998, Commissione/Spagna, C-114/97, EU:C:1998:519, punto 38; del 30 marzo 2006, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, C-451/03, EU:C:2006:208, punto 47; del 29 novembre 2007, Commissione/Germania, C-404/05, EU:C:2007:723, punto 38, e del 22 ottobre 2009, Commissione/Portogallo, C-438/08, EU:C:2009:651, punto 36), o determinate attività il cui esercizio, pur comportando contatti, anche regolari e organici, con autorità amministrative o giudiziarie, o addirittura una partecipazione, anche obbligatoria, al loro funzionamento, lasci inalterati i poteri di valutazione e di decisione di tali autorità (v., in tal senso, sentenza del 21 giugno 1974, Re., 2/74, EU:C:1974:68, punti 51 e 53), o ancora determinate attività che non comportano l'esercizio di poteri decisionali (v., in tal senso, sentenze del 13 luglio 1993, Th., C-42/92, EU:C:1993:304, punti 21 e 22; del 29 novembre 2007,
Commissione/Austria, C-393/05, EU:C:2007:722, punti 36 e 42; del 29 novembre 2007, Commissione/Germania, C-404/05, EU:C:2007:723, punti 38 e 44, nonché del 22 ottobre 2009, Commissione/Portogallo, C-438/08, EU:C:2009:651, punti 36 e 41), di poteri di coercizione (v. in tal senso, in particolare, sentenza del 29 ottobre 1998, Commissione/Spagna, C-114/97, EU:C:1998:519, punto 37), o di potestà coercitiva (v., in tal senso, sentenze del 30 settembre 2003, An. e a., C-47/02, EU:C:2003:516, punto 61, nonché del 22 ottobre 2009, Commissione/Portogallo, C-438/08, EU:C:2009:651, punto 44) (così riassuntivamente indicate nella sentenza CGUE Commissione europea c Repubblica Ungherese 01/02/2017 c 392/2015 al paragrafo 108).
Le norme e le statuizioni della Corte di Giustizia prevalgono sulle norme nazionali contrastanti, vincolando ad una interpretazione conforme, o in caso di impossibilità, alla disapplicazione della norma interna.
II quadro normativo nazionale in tema di accesso dei cittadini comunitari e di paesi terzi ai posti di lavoro pubblici è dettato dall'art. 38, comma 1, D.Lgs. n. 165 del 2001 (così modificato dall'art. 7, comma 1, lett. b, L. 6 agosto 2013, n. 97 Legge europea 2013) che stabilisce, al comma 1 che "I cittadini degli Stati membri dell'Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale'.
Il successivo comma 3 bis (anch'esso modificato dall'art. 7, comma 1, lett. b, L. 6 agosto 2013, n. 97 Legge europea 2013) prevede che le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano, "ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria". La L. n. 97 del 2013 ha esteso l'accesso al pubblico impiego ed i limiti previsti per i cittadini UE (introdotto con la riforma del pubblico impiego del 93) a determinate categorie di cittadini di paesi terzi (familiari di cittadini UE non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, cittadini di Paesi terzi lungosoggiornanti, titolari dello status di rifugiato, titolari dello status di protezione sussidiaria). L'estensione della disciplina è piena, con la conseguenza che i cittadini terzi appartenenti a dette categorie sono ammessi all'accesso al lavoro pubblico alle stesse condizioni riconosciute ai cittadini comunitari. L'identità di regime applicabile impone che i criteri elaborati dalla Corte di Giustizia con riferimento ai cittadini LTE debbano essere applicati in modo uniforme anche ai cittadini terzi appartenenti alle categorie citate.
Al di fuori di queste categorie non è possibile estendere l'accesso al pubblico impiego agli stranieri, non esistendo un principio generale di ammissione dello straniero non comunitario al lavoro pubblico (su questa tema si veda la recente Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., n. 18523/2014). In conclusione sul punto, l'accesso al pubblico impiego secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza comunitaria deve applicarsi ai cittadini comunitari, ai cittadini di paesi terzi familiari dei cittadini degli Stati membri dell'Unione europea che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ai cittadini di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria.
Ai sensi del comma 2 dell'art. 38 D.Lgs. n. 165 del 2001 cit. è rimesso al D.P.C.M. ai sensi dell'art. 17 L. n. 400 del 1988 l'individuazione dei posti e delle funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili all'accesso dei cittadini di cui al comma 1.
Il D.P.C.M. n. 174 del 1994 ha individuato i posti per i quali non può prescindersi dal requisito della cittadinanza sulla base di un criterio organizzativo - settoriale, comprendendo: lett. a) e b) la categoria dei dirigenti delle Amministrazioni dello Stato e strutture periferiche, enti pubblici non economici, Regioni e enti locali, Banca d'Italia; lett. c) le carriere (le magistrature, avvocati e procuratori i dello stato); lett. d) intere Amministrazioni statuali (ruoli civili e militari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministeri degli Affari Esteri, dell'Interno, della Giustizia, della Difesa, delle Finanze). Prevede inoltre le funzioni per le quali è richiesto il possesso della cittadinanza (quelle che "comportano l'elaborazione, la decisione, l'esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi" e funzioni di controllo e legittimità"), riserva sottoposta alla decisione, motivata caso per caso, da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Il criterio organizzativo posto dal comma 1 del D.P.C.M. n. 174 del 1994 cit., applicato nel bando in esame, secondo il quale tutti i posti appartenenti al ruolo civile del Ministero della Giustizia richiedono il requisito della cittadinanza, così escludendo i cittadini UE (e gli altri cittadini di paesi terzi sopra indicati), senza ulteriori distinzioni in ordine alle specifiche mansioni e posizioni lavorative, non pare compatibile con la giurisprudenza Comunitaria illustrata e con l'elaborata nozione restrittiva e funzionale, che presuppone in modo abituale e non occasionale, l'esercizio di pubblici poteri, inteso come esercizio di poteri di imperio o di coercizione collegati a funzioni di interesse pubblico generale.
Si rende quindi necessario, conformandosi alla interpretazione comunitaria, valutare in concreto (e non in astratto) se un determinato posto presso la P.A. costituisca o meno esercizio di pubblici poteri nei termini sopra illustrati.
Il CCNL del personale non dirigenziale del Ministero della Giustizia del 29.7.2010, colloca la figura professionale dell'Assistente Giudiziario nella seconda area funzionale (assieme a Conducente di automezzi, Operatore giudiziario, Assistente alla vigilanza dei locali e al servizio automezzi, Cancelliere, Contabile, Assistente informatico, Assistente linguistico, Ufficiale Giudiziario).
L'allegato A ne definisce le specifiche professionali, richiedendo: "conoscenze teoriche e pratiche di medio livello; discreta complessità dei processi e delle problematiche da gestire; capacità di coordinamento di unità operative interne con assunzione di responsabilità dei risultati; relazioni con capacità organizzative di media complessità".
Quanto al contenuto della figura professionale dell'Assistente Giudiziario stabilisce che è propria dei "lavoratori che svolgono, sulla base di istruzioni, anche a mezzo dei necessari supporti informatici, attività di collaborazione in compiti di natura giudiziaria, contabile, tecnica o amministrativa attribuiti agli specifici profili previsti nella medesima area e attività preparatoria o di formazione degli atti attribuiti alla competenza delle professionalità superiori, curando l'aggiornamento e la conservazione corretta di atti e fascicoli. In relazione all'esperienza maturata in almeno un anno di servizio gli stessi possono essere adibiti anche all'assistenza del magistrato nell'attività istruttoria o nel dibattimento, con compiti di redazione e sottoscrizione dei relativi verbali".
Si evince quindi che detta figura professionale opera sempre sulla base di istruzioni, in collaborazione in altrui compiti di natura giudiziaria, contabile, tecnica o amministrativa. Prepara o forma atti attribuiti alle professionalità superiori. Curando l'aggiornamento e la conservazione di atti e fascicoli, compie operazioni. Quando svolge assistenza al magistrato, provvedendo alla redazione e sottoscrizione dei verbali nell'attività istruttoria o dibattimentale, che costituiscono atti pubblici, l'attività viene esercitata interamente sotto la vigilanza e la direzione del magistrato.
Tra le mansioni che l'assistente giudiziario è chiamato a svolgere sono ricompresi la ricezione di istanze per l'iscrizione all'albo dei periti e dei consulenti tecnici, la certificazione, tramite la propria sottoscrizione, del deposito di memorie nel processo civile e degli atti nel processo in cui presta assistenza (es. costituzione di parte civile nel processo penale e costituzione del convenuto nel processo civile), il rilascio di copia autentica del verbale dal medesimo redatto.
Tuttavia detta attività certificativa occupa una parte ridotta e del tutto occasionale rispetto a quella in collaborazione, preparatoria e assistenza, in quanto, "il rilascio di copie conformi e la ricezione in deposito degli atti provenienti sia dal giudice che dall'utenza deve essere limitato solo ai casi urgenti ed indifferibili nella contingente assenza di altri profili professionali di norma preposti a tali attività" (si legge in questi termini la nota inviata dal Ministero della Giustizia in data 11.2.2014 al Tribunale di Roma - Prot. n. (...)). Si tratta quindi di una mansione priva del requisito di abitualità richiesto dalla giurisprudenza comunitaria.
Alla luce di tali considerazioni, emerge che il profilo professionale di assistente giudiziario rappresenti un'attività ausiliaria, preparatoria all'esercizio di pubblici poteri. Sebbene il suo esercizio comporti la partecipazione obbligatoria al funzionamento dell'amministrazione della giustizia (con particolare riguardo ai compiti di redazione e sottoscrizione dei relativi verbali) non costituisce comunque partecipazione diretta e specifica all'esercizio dei pubblici poteri in quanto i contatti con l'autorità giudiziaria lasciano inalterati i poteri di valutazione e di decisione di stretta pertinenza di quest'ultima. Si tratta quindi di un profilo professionale, quello di assistente giudiziario, che rimane escluso dal processo decisionale che si esprime nel provvedimento giurisdizionale ed è privo di qualsiasi potere di natura discrezionale, in ogni restante sua mansione.
Si evidenzia infine che, anche se può essere preclusa la progressione di carriera allo straniero qualora le funzioni di livello più elevato implichino il compimento di pubblici poteri a tutela dell'interesse nazionale (cfr. Corte Giust., 16 giugno 1987, Commissione c. Italia, C - 225/85), l'art. 39, par. 4, TFUE non permette di riservare ai cittadini LTE un trattamento discriminatorio rispetto ai nazionali una volta che l'accesso ad un impiego nella P.A sia stato consentito (cfr. Corte Giust., 12 febbraio 1974, Sotgiu, C - 152/73) né tanto meno questo può ritenersi legittimato in virtù di una potenziale futura progressione di carriera.
Pertanto, una volta accertato che il profilo professionale in esame non implica l'esercizio di pubblici poteri a tutela dell'interesse nazionale secondo la nozione comunitaria, non si può non rilevare la natura discriminatoria dell'art. 3L. n. 67 del 2006 del bando per assistente giudiziario nella parte in cui richiede quale requisito partecipativo necessario il possesso della cittadinanza italiana. L'eventuale esclusione della ricorrente, quale soggetto in possesso di tutti i requisiti prescritti, ad esclusione di quello della nazionalità italiana, sarebbe determinata solo in ragione della sua nazionalità senza che ciò possa essere giustificato da valide ragioni dovute alla natura dell'attività lavorativa o al contesto in cui questa viene espletata.
Si ritiene quindi fondato il ricorso sotto il profilo dell'apparenza del diritto a salvaguardia del quale si intende richiedere la tutela, a cui consegue la necessaria disapplicazione dell'art. 1 lett. d) del D.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174 a cui rinvia l'art. 38 D.Lgs. n. 165 del 2001 e della clausola del bando di cui all'art. 3 n. 3), per incompatibilità con il diritto comunitario così come ricavato dall'interpretazione della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (si veda Cass. sez. L sent. n. 17966/2011). La discriminazione ha inoltre duplice natura, individuale e collettiva. Individuale, a danno della sig.ra O.M. e collettiva, nei confronti di tutti coloro che candidati, pur non individuati e non intervenuti, sarebbero lesi dalla discriminazione se venissero esclusi dalle prove preselettive e selettive in ragione del mancato possesso della cittadinanza, nonché di coloro che, non individuabili in modo diretto, hanno omesso di presentare domanda a causa della clausola in esame."
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