Entro quali limiti opera il dovere di fedeltà in caso di denuncia di fatti illeciti da parte del lavoratore?
Secondo Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 16-02-2017, n. 4125
E' da escludere che l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., così come interpretato da questa Corte in correlazione con i canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., (fra le più recenti in tal senso Cass. 9.1.2015 n. 144), possa essere esteso sino a imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all'interno dell'azienda, giacchè in tal caso "si correrebbe il rischio di scivolare verso - non voluti, ma impliciti - riconoscimenti di una sorta di "dovere di omertà" (ben diverso da quello di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benchè minima cittadinanza nel nostro ordinamento" (Cass. n. 6501 del 2013).
Lo Stato di diritto, infatti, attribuisce valore civico e sociale all'iniziativa del privato che solleciti l'intervento dell'autorità giudiziaria di fronte alla violazione della legge penale, e, sebbene ritiene doverosa detta iniziativa solo nei casi in cui vengono in rilievo delitti di particolare gravità, guarda con favore la collaborazione prestata dal cittadino, in quanto finalizzata alla realizzazione dell'interesse pubblico alla repressione dei fatti illeciti.
Da ciò discende che l'esercizio del potere di denuncia, riconosciuto dall'art. 333 c.p.p., non può essere fonte di responsabilità, se non qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza della insussistenza dell'illecito o della estraneità allo stesso dell'incolpato (si rimanda a Cass. pen. n. 29237/2010 e, quanto alla responsabilità civile, fra le più recenti a Cass. 10.6.2016 n. 11898).
La esenzione da responsabilità, anche nei casi di colpa grave (con le sole eccezioni previste, per i reati perseguibili a querela, dall'art. 427 c.p.p., e per i reati perseguibili d'ufficio, nei casi in cui avvenga costituzione di parte civile, dall'art. 541 c.p.p.), si giustifica considerando che la collaborazione del cittadino, che risponde ad un interesse pubblico superiore, verrebbe significativamente scoraggiata ove quest'ultimo potesse essere chiamato a rispondere delle conseguenze pregiudizievoli prodottesi a seguito di denunce che, sebbene inesatte o infondate, siano state presentate senza alcun intento calunnioso.
3.1 - Proprio la presenza e la valorizzazione di interessi pubblici superiori porta ad escludere che nell'ambito del rapporto di lavoro la sola denuncia all'autorità giudiziaria di fatti astrattamente integranti ipotesi di reato, possa essere fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa, fatta eccezione per l'ipotesi in cui l'iniziativa sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza della insussistenza del fatto o della assenza di responsabilità del datore. Perchè possa sorgere la responsabilità disciplinare non basta, quindi, che la denuncia si riveli infondata e il procedimento penale venga definito con la archiviazione della notizia criminis o con la sentenza di assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della denuncia stessa.
Si deve, poi, aggiungere che, a differenza delle ipotesi in cui è in discussione l'esercizio del diritto di critica, non rilevano i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio, e, quindi, può avere rilevanza disciplinare, giacchè, come è già stato osservato da questa Corte, ogni denuncia si sostanzia nell'attribuzione a taluno di un reato, per cui non sarebbe logicamente e giuridicamente possibile esercitare la relativa facoltà senza incolpare il denunciato di una condotta obiettivamente disonorevole e offensiva della reputazione dell'incolpato (Cass. 20.10.2003 n. 15646 e Cass. pen. n. 29237/2010 cit.).
3.2 - I medesimi principi devono valere anche in relazione agli esposti inoltrati all'autorità competente che abbiano ad oggetto la commissione di illeciti sanzionati in via amministrativa. In tal caso, infatti, vengono in rilievo gli stessi interessi pubblici che giustificano la limitazione di responsabilità di cui sopra si è detto, sicchè solo la consapevolezza della insussistenza del fatto denunciato può integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ove il lavoratore si sia limitato alla presentazione dell'esposto o della denuncia e si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti.
- La sentenza impugnata, che, pur dando atto della non divulgazione degli esposti, ha ritenuto violati gli obblighi di fedeltà e diligenza, per il solo fatto che le accuse non fossero state adeguatamente ponderate prima della presentazione delle denunce, va, pertanto, cassata con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, la quale procederà ad un nuovo esame attenendosi al principio di diritto di seguito enunciato: "Non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento la condotta del lavoratore che denunci all'autorità giudiziaria o all'autorità amministrativa competente fatti di reato o illeciti amministrativi commessi dal datore di lavoro, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell'illecito, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti.".
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