Quali sono le regole sottostanti al licenziamento per giustificato motivo oggettivo secondo la Cassazione?
La sentenza della Cassazione del 7 dicembre 2016 n. 25201 del 2016 riassume lo stato della giurisprudenza :
"La necessità che il licenziamento per motivo oggettivo sia
giustificato dalla necessità di fare fronte "a sfavorevoli
situazioni" e non sia "meramente strumentale ad un incremento del
profitto" è affermazione che si trova poi reiterata nella successiva
giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: Cass. n. 12514 del 2004; Cass. n.
21282 del 2006; Cass. n. 7006 del 2011; Cass. n. 19616 del 2011; Cass. n. 2874
del 2012; Cass. n. 24037 del 2013, in motivazione; Cass. n. 5173 del 2015, in
motivazione; Cass. n. 13116 del 2015). Da tale indirizzo, rigorosamente
applicato, scaturisce la conseguenza, condivisa dai giudici del Collegio
fiorentino, in base alla quale il presupposto fattuale della sfavorevole
situazione economica in cui versa l'azienda, indipendentemente dalle ragioni
addotte dall'imprenditore e dalla loro effettività, assurge a requisito di
legittimità intrinseco al licenziamento per giustificato motivo oggettivo che
deve essere provato dal datore di lavoro ed accertato dal giudice.
4.2.— Secondo altro orientamento, invece, le ragioni
inerenti l'attività produttiva di cui all'art. 3 della I. n. 604 del 1966
possono derivare anche "da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne
siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o
all'incremento dei profitti ... opinare diversamente significherebbe affermare
il principio, contrastante con quello sancito dall'art. 41 Cost., per il quale
l'organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non
modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di
una più proficua configurazione dell'apparato produttivo, del quale il datore
di lavoro ha il 'naturale' interesse ad ottimizzare l'efficienza e la
competitività" (Cass. n. 10672 del 2007, in motivazione; conf. Cass. n.
12094 del 2007, in motivazione). Anche in precedenza si era avuto modo di
affermare che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione
del lavoro "possono essere le più diverse" e non solo quelle che ne
riconoscono la legittimità se "dirette a fronteggiare situazioni
sfavorevoli" (Cass. n. 9310 del 2001, in motivazione), non potendosi distinguere
nelle ragioni economiche a sostegno della decisione imprenditoriale "tra
quelle determinate da fattori esterni all'impresa, o di mercato, e quelle
inerenti alla gestione dell'impresa, o volte ad una organizzazione più
conveniente per un incremento del profitto" (Cass. n. 5777 del 2003).
Più di recente si è considerato "estraneo al controllo
giudiziale il fine di arricchimento, o non impoverimento, perseguito
dall'imprenditore, comunque suscettibile di determinare un incremento di utili
a beneficio dell'impresa e, dunque, dell'intera comunità dei lavoratori"
(Cass. n. 23620 del 2015). Sulla medesima linea - peraltro dubitandosi che
questa Corte abbia mai fatto applicazione, nel concreto delle fattispecie
esaminate, del principio per il quale l'imprenditore possa licenziare un
dipendente solo per evitare perdite e non anche per mantenere o incrementare
profitti - si è sostenuto: "l'assunto secondo cui il datore di lavoro
dovrebbe provare la necessità della contrazione dei costi dimostrando
l'esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato, a tal fine non bastando una
sua autonoma scelta in tal senso, si dimostra infondato vuoi perché tale
necessità non è imposta dalla lettera e dallo spirito dell'art. 3 cit., vuoi
perché l'esegesi proposta è incompatibile con l'art. 41 co. 1° Cost. che lascia
all'imprenditore (con il limite di cui al cpv. dello stesso articolo) la scelta
della migliore combinazione dei fattori produttivi a fini di incremento della
produttività
aziendale. Diversamente opinando e cioè supponendo come
indispensabile, affinché si possa ravvisare un giustificato motivo oggettivo,
che l'impresa versi in sfavorevoli situazioni di mercato superabili o
mitigabili soltanto mediante una riorganizzazione tecnico-produttiva e il
conseguente licenziamento d'un dato dipendente, bisognerebbe ammetterne la
legittimità esclusivamente ove essa tenda ad evitare il fallimento dell'impresa
e non anche a migliorarne la redditività. Ma sarebbe -questa- una conclusione
costituzionalmente impraticabile e illogica: in termini microeconomici, nel
lungo periodo e in un regime di concorrenza, l'impresa che ha il maggior costo
unitario di produzione è destinata ad essere espulsa dal mercato" (Cass.
n. 13516 del 2016; in senso sostanzialmente conforme si è espressa altresì, in
motivazione, Cass. n. 15082 del 2016). In analoga prospettiva appaiono
collocarsi nel corso del tempo quelle molteplici decisioni che, senza
concretamente indagare sulla preesistenza di una situazione sfavorevole,
riconducono ad un giustificato motivo oggettivo di licenziamento la
soppressione del posto seguita alla cd. esternalizzazione dell'attività a terzi
(Cass. n. 6222 del 1998; Cass. n. 13021 del 2001; Cass. n. 18416 del 2013)
ovvero alla ripartizione delle mansioni tra il personale già in forza
all'azienda (Cass. n. 24502 del 2011; Cass. n. 18780 del 2015; Cass. n. 14306
del 2016; Cass. n. 19185 del 2016, tutte in motivazione; per il caso di
soppressione parziale delle mansioni v. Cass. n. 6229 del 2007; Cass. n. 11402
del 2012). 4.3.— Tratti comuni ad entrambi gli orientamenti sono rappresentati
dal controllo giudiziale sull'effettività del ridimensionamento e sul nesso
causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del
dipendente licenziato. Parimenti costituisce limite al potere datoriale costantemente
affermato dalla giurisprudenza di legittimità quello identificato nella non
pretestuosità della scelta organizzativa. E' così costante l'affermazione
secondo cui: "il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni
inerenti all'attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l'ipotesi di
riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell'impresa, è
rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa
sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, atteso che tale
scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art.
41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo
addotto dall'imprenditore; ne consegue che non è sindacabile nei suoi profili
di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la
soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto
il dipendente licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non
pretestuosità del riassetto organizzativo operato" (Cass. n. 24235 del
2010; Cass. n. 15157 del 2011; Cass. n. 7474 del 2012; tra le recenti conformi:
Cass. n. 18409 del 2016; Cass. n. 16544 del 2016; Cass. n. 6501 del 2016; Cass.
n. 12242 del 2015; Cass., ord. VI sez., n. 25874 del 2014, queste ultime sempre
in motivazione). 5.— Tanto premesso, la Corte ritiene che debba essere data
continuità, al fine di consolidarlo, al secondo orientamento innanzi delineato.
5.1.— Ai sensi dell'art. 3 della I. n. 604 del 1966, nella parte che qui
rileva, "il licenziamento per giustificato motivo ... è determinato ... da
ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al
regolare funzionamento di essa". L'interpretazione letterale della norma,
da cui occorre necessariamente muovere, esclude che per ritenere giustificato
il licenziamento per motivo oggettivo debba ricorrere, ai fini
dell'integrazione della fattispecie astratta, un presupposto fattuale - che il
datore di lavoro debba indefettibilmente provare ed il giudice conseguentemente
accertare - identificabile nella sussistenza di "situazioni
sfavorevoli" ovvero di "spese notevoli di carattere
straordinario", cui sia necessario fare fronte. Dal punto di vista
dell'esegesi testuale della disposizione è sufficiente che il licenziamento sia
determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del
lavoro e al regolare funzionamento di essa, tra le quali non possono essere
aprioristicamente o pregiudizialmente escluse quelle che attengono ad una migliore
efficienza gestionale o produttiva ovvero anche quelle dirette ad un aumento
della redditività d'impresa. Non è quindi necessitato che si debba fronteggiare
un andamento economico negativo o spese straordinarie e non appare pertanto
immeritevole di considerazione l'obiettivo aziendale di salvaguardare la
competitività nel settore nel quale si svolge l'attività dell'impresa
attraverso le modalità, e quindi la combinazione dei fattori della produzione,
ritenute più opportune dal soggetto che ne assume la responsabilità anche in
termini di rischio e di conseguenze patrimoniali pregiudizievoli.
5.2.— La diversa interpretazione, infatti, non trova
riscontro in dati interni al dettato normativo bensì viene patrocinata sulla
base di elementi extra-testuali e di contesto e trae origine nella tesi
dottrinale della extrema ratio secondo cui la scelta che legittima l'uso del
licenziamento dovrebbe essere "socialmente opportuna". Tale lettura
tuttavia non appare innanzitutto costituzionalmente imposta. In una pluridecennale
giurisprudenza la Corte costituzionale ha avuto occasione di affermare - in
estrema sintesi e per quanto qui rileva - che nell'art. 4 Cost. non è dato
rinvenire un diritto all'assunzione o al mantenimento del posto di lavoro; che
l'indirizzo di progressiva garanzia del diritto del lavoro previsto dall'art. 4
e dall'art. 35 Cost. ha portato nel tempo ad introdurre temperamenti al potere
di recesso del datore di lavoro; che tuttavia tali garanzie sono affidate alla
discrezionalità del legislatore, non solo quanto alla scelta dei tempi, ma
anche dei modi attuazione, in rapporto alla situazione economica generale (cfr.
Corte cost. n. 45 del 1965; n. 194 del 1970; n. 129 del 1976; n. 189 del 1980;
n. 2 del 1986; n. 46 del 2000; n. 541 del 2000; n. 303 del 2011). In assenza di
una specifica indicazione normativa, la tutela del lavoro garantita dalla
Costituzione non consente di riempire di contenuto l'art. 3 della I. n. 604 del
1966 sino al punto di ritenere precettivamente imposto che, nel dilemma tra una
migliore gestione aziendale ed il recesso da un singolo rapporto di lavoro,
l'imprenditore possa optare per la seconda soluzione solo a condizione che
debba fare fronte a sfavorevoli e non contingenti situazioni di crisi. L'art.
41, co. 3, Cost., riserva al legislatore il compito di determinare i programmi
e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa
essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Fermo restando il vincolo
invalicabile per cui l'iniziativa economica privata non può svolgersi in
contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana, essa "è libera" (art. 41, co. 1, Cost.),
nei limiti stabiliti dal legislatore al quale non può sostituirsi il giudice.
Non pare dubbio che spetta all'imprenditore stabilire la dimensione
occupazionale dell'azienda, evidentemente al fine di perseguire il profitto che
è lo scopo lecito per il quale intraprende. Tale scelta è sicuramente libera
nel momento genetico in cui nasce l'azienda e si instaurano i rapporti di
lavoro in misura ritenuta funzionale allo scopo.
Anche durante la vita dell'azienda la selezione del livello
occupazionale dell'impresa rimane libera e non può essere pertanto sindacata al
di fuori dei confini stabiliti dal legislatore, non essendo affidato al giudice
il compito di contemperare ex post interessi confliggenti stabilendo quello
ritenuto prevalente se un tale potere non trova riscontro nella legge. In altre
parole se è vero che, in via meramente ipotetica, la norma potrebbe stabilire -
nella cornice costituzionale innanzi detta - che il licenziamento per motivo
oggettivo possa ritenersi giustificato solo in presenza di una accertata crisi
d'impresa, è anche vero che ove ciò non faccia espressamente, come nel caso
dell'art. 3 della I. n. 604 del 1966, tale condizione non è ricavabile aliunde
in via interpretativa. Compete al legislatore sancire se il fine sociale cui
può essere coordinata o indirizzata l'attività economica anche privata, nella
scelta tra una più efficiente gestione aziendale ed il sacrificio di una
singola posizione lavorativa, debba necessariamente seguire la strada di
inibire il licenziamento individuale, fermo restando che chi legifera può
diversamente ritenere che l'interesse collettivo dell'occupazione possa essere
meglio perseguito salvaguardando la capacità gestionale delle imprese di fare
fronte alla concorrenza nei mercati e che il beneficio attuale per un
lavoratore a detrimento dell'efficienza produttiva possa piuttosto tradursi in
un pregiudizio futuro per un numero maggiore di essi. Non spetta al giudice, in
presenza di una formula quale quella dettata dall'art. 3 più volte citato,
surrogarsi nella scelta, con riferimento alla singola impugnativa di
licenziamento, tenuto conto altresì della inevitabile mancanza di strumenti
conoscitivi e predittivi che consentano di valutare quale possa essere la
migliore opzione per l'impresa e per la collettività. Egli, così, non può
essere legittimato a gravare l'impresa di costi impropri o non dovuti in base
alla legge, quando piuttosto la Costituzione investe i poteri pubblici del
compito di perseguire l'interesse collettivo dell'occupazione, tenuto altresì
conto che la prospettiva individuale della difesa del singolo rapporto di lavoro
potrebbe anche pregiudicare, come già è stato osservato da Cass. n. 23620 del
2015 cit., l'intera comunità dei lavoratori dell'azienda interessata. Del resto
le considerazioni esposte non presentano alcun carattere di reale novità nella
giurisprudenza di questa Corte la quale ha costantemente ribadito il principio,
comune ad entrambi gli orientamenti in discorso, che la scelta imprenditoriale
che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro "non è sindacabile
nei suoi profili di congruità ed opportunità", in ossequio proprio
all'art. 41 Cost.. Orbene, il controllo sulla necessità o sulla inevitabilità
del singolo recesso sottende un sindacato su congruità ed opportunità della
scelta organizzativa nella misura in cui si ritenga che la soppressione del
posto sia sempre eludibile quando non vi è crisi d'impresa o perdita di
bilancio. Pertanto esigere la sussistenza di una situazione economica
sfavorevole per rendere legittimo il licenziamento per giustificato motivo
oggettivo significa inserire nella fattispecie legale astratta disegnata
dall'art. 3 della I. n. 604 del 1966 un elemento fattuale non previsto, con una
interpretazione che trasmoda inevitabilmente, talvolta surrettiziamente, nel
sindacato sulla congruità e sulla opportunità della scelta imprenditoriale.
5.3.— In proposito occorre rilevare che, secondo l'art. 30, co. 1, della I. n.
183 del 2010, applicabile al presente giudizio, in tutti i casi nei quali le
disposizioni di legge nella materie del lavoro privato e pubblico "contengano
clausole generali, ivi comprese le norme in tema di ... recesso, il controllo
giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali
dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può
essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative
e produttive che competono al datore di lavoro ...". Si rammenta che
formule omologhe, ispirate dall'intento di delimitare l'intervento giudiziale
sui poteri dell'imprenditore, sono contenute nella precedente I. n. 276 del
2003, sia all'art. 27, co. 3, in tema di somministrazione, sia all'art. 69, co.
3, in tema di lavoro a progetto. Con l'art. 1, co. 43 della I. n. 92 del 2012,
pure vigente per il caso in esame, all'art. 30 cit. si è aggiunto che
"l'inosservanza delle disposizioni di cui al precedente periodo, in
materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche,
organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, costituisce
motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto". Il chiaro
intento delle suddette formule legislative non ne autorizza, in particolare
nella materia che ci occupa, una lettura minimizzante che archivia le
disposizioni ivi contenute come assolutamente prive di qualsivoglia significato
(cfr. Cass. n. 23620/2015 cit., in motivazione). La circostanza, da più parti
evidenziata, che sia stata recepita in norma una opinione diffusa ed in
giurisprudenza accolta circa il limite al sindacato giudiziale sulle scelte
dell'impresa non può svilire l'attribuzione espressa del crisma della legalità,
il quale conferisce al canone una portata interpretativa di assoluto rilievo
nelle ipotesi in cui l'affermazione del principio tende a tradursi nella sua
negazione all'atto dell'applicazione pratica. Pertanto, considerato che la
situazione sfavorevole di mercato non risulta iscritta nell'art. 3 della I. n.
604 del 1966 quale presupposto di legittimità del licenziamento, ogni
valutazione del giudice che ad essa attribuisca rilievo, implicando, per le
ragioni esposte, una estensione "al sindacato di merito sulle valutazioni
tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro", è
preclusa dall'art. 30 citato e si traduce in una errata ricognizione del
contenuto precettivo della fattispecie astratta mediante l'inserimento di un
elemento non previsto, con conseguente censurabilità per violazione di norme di
diritto a mente dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.. Invero è valutazione di
merito quella che attribuisce a chi la esercita la facoltà di effettuare un giudizio
comparativo tra più possibili soluzioni, selezionando quella che appare più
confacente sotto il profilo organizzativo o produttivo e che connota la
discrezionalità propria delle opzioni imprenditoriali, ove non altrimenti
limitate dalla legge. Non è tale, invece, quella che riguarda l'esistenza
stessa di una ragione organizzativa o produttiva che riconduce la decisione
datoriale alla giustificazione che la legge postula per l'esercizio del potere;
valutazione quest'ultima che non presuppone alcun giudizio comparativo ma solo
un sindacato di effettività che il giudice può e deve svolgere. 5.4.—
L'interpretazione accolta non palesa profili di tensione neanche con
l'ordinamento dell'Unione europea.
L'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea sancisce che: "Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro
ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle
legislazioni e prassi nazionali". Come noto non è sufficiente che un
diritto sia riconosciuto dalla Carta come "fondamentale", ma occorre
che l'Unione abbia la competenza a disciplinarlo e che la stessa competenza sia
stata in concreto esercitata, atteso che la Corte di Giustizia ha evidenziato
come essa, per quanto riguarda la Carta, non possa valutare una normativa
nazionale che non si collochi nell'ambito del diritto dell'Unione (tra le
altre: CGUE, Fransson, C-617/2010, Grande Sezione del 26 febbraio 2013; CGUE,
Emiliano Torralbo Marcos, 27 marzo 2014, C-265/13; Corte Cost. n. 80 del 2011;
Cass. SS.UU. n. 9595 del 2012).
Sebbene la tutela dei lavoratori in caso di risoluzione del
contratto di lavoro sia uno dei mezzi per raggiungere gli obiettivi fissati
dall'art. 151 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione e il legislatore
dell'Unione sia competente in tale settore in base alle condizioni di cui
all'art. 153 dello stesso Trattato, vi è una direttiva che riguarda i
licenziamenti collettivi ma non quelli individuali rispetto ai quali detta
competenza non è stata esercitata (CGUE, Polfer, C-361/07 del 16 gennaio 2008,
punto 13). Inoltre l'art. 30 cit. si limita a proclamare il diritto del
lavoratore ad una tutela in caso di licenziamento ingiustificato, lasciando al
legislatore comunitario ed a quello nazionale il compito di dare concretezza al
contenuto ed agli scopi del principio enunciato. Anche la Carta sociale europea
(ratificata con I. n. 30 del 1999), all'art. 24, si limita a stabilire
l'impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non
essere licenziati senza un valido motivo e tra essi pone quello "basato
sulle necessità di funzionamento dell'impresa". Pure riguardo alla Carta
sociale, peraltro, la Corte di Giustizia si è dichiarata incompetente a
pronunciarsi in materia di interpretazione di norme di diritto internazionale
che vincolano gli Stati membri, ma esulano dalla sfera del diritto dell'Unione,
non sindacando un patto di prova rispetto al quale non era stato dimostrato un
nesso con l'ordinamento comunitario (CGUE, Grima Janet Nisttahuz Poclava,
C-117/2014 del 5 febbraio 2015, punto 43 e giurisprudenza ivi citata). 5.5.— In
definitiva la ragione inerente all'attività produttiva ed all'organizzazione
del lavoro è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle
unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa. Senza
carattere di esaustività, ma solo in via esemplificativa sulla scorta di casi
già esaminati dalla Corte ed innanzi richiamati, la modifica della struttura
organizzativa può essere colta nella soppressione della funzione cui il
licenziato era addetto, nella cd. esternalizzazione della sua attività a terzi,
nella ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forze,
nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto. La
circostanza che tali effetti di ristrutturazione organizzativa possano essere
originati dall'obiettivo di una migliore efficienza gestionale o produttiva
ovvero finalizzati ad un incremento della redditività d'impresa (e quindi
eventualmente del profitto) e non solo determinati dalla necessità di fare
fronte a situazioni economiche sfavorevoli non contingenti oppure a spese
straordinarie non significa affatto che la decisione imprenditoriale sia
sottratta ad ogni controllo e sfugga a ben precisi limiti. Innanzitutto, in
ossequio all'insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte, non vi è
effettiva soppressione del posto di lavoro nel caso in cui avvenga una mera
sostituzione del dipendente licenziato con altro lavoratore assunto a minor
costo, perché retribuito meno per lo svolgimento di identiche mansioni (Cass.
SS.UU. n. 3353 del 1994; conf. Cass. n. 3899 del 2001; da ultimo Cass. n. 13516
del 2016, in motivazione, secondo cui La combinazione di siffatti controlli e
limiti, oltre le comuni tutele del lavoratore dagli atti illeciti o
discriminatori del datore, esclude che il potere di questi di risolvere il
rapporto per motivazioni economiche possa essere assimilato ad un recesso ad
nutum frutto di scelte autosufficienti ed insindacabili dell'imprenditore. Alla
stregua delle esposte considerazioni la sentenza impugnata che, in mancanza di
prova da parte del datore di lavoro dell'esigenza di fare fronte a sfavorevoli
e non contingenti situazioni economiche ovvero per sostenere notevoli spese di
carattere straordinario, ha ritenuto non sufficiente ai fini della legittimità
del licenziamento del Tanganelli "la dimostrazione dell'effettività della
riorganizzazione" che pure risultava coerente con la motivata esigenza
tecnica di rendere più efficiente la gestione aziendale, deve essere cassata in
accoglimento dei primi due motivi di ricorso.
8.— In conclusione, in relazione ai primi due motivi di
ricorso accolti, dichiarato inammissibile il terzo ed assorbito il quarto, la
sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio al giudice indicato in
dispositivo il quale si uniformerà al seguente principio di diritto: "Ai
fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato
motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della I. n. 604 del 1966, l'andamento
economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il
datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo
sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed
all'organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle
dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della
redditività dell'impresa, determinino un effettivo mutamento dell'assetto
organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa;
ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando l'esigenza di fare
fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere
straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste,
il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla
mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta
dall'imprenditore".
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