giovedì 29 dicembre 2016

Quali sono le regole sottostanti al licenziamento per giustificato motivo oggettivo secondo la Cassazione?

La sentenza della Cassazione del 7 dicembre 2016 n. 25201 del 2016 riassume lo stato della giurisprudenza :

"La necessità che il licenziamento per motivo oggettivo sia giustificato dalla necessità di fare fronte "a sfavorevoli situazioni" e non sia "meramente strumentale ad un incremento del profitto" è affermazione che si trova poi reiterata nella successiva giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: Cass. n. 12514 del 2004; Cass. n. 21282 del 2006; Cass. n. 7006 del 2011; Cass. n. 19616 del 2011; Cass. n. 2874 del 2012; Cass. n. 24037 del 2013, in motivazione; Cass. n. 5173 del 2015, in motivazione; Cass. n. 13116 del 2015). Da tale indirizzo, rigorosamente applicato, scaturisce la conseguenza, condivisa dai giudici del Collegio fiorentino, in base alla quale il presupposto fattuale della sfavorevole situazione economica in cui versa l'azienda, indipendentemente dalle ragioni addotte dall'imprenditore e dalla loro effettività, assurge a requisito di legittimità intrinseco al licenziamento per giustificato motivo oggettivo che deve essere provato dal datore di lavoro ed accertato dal giudice.
4.2.— Secondo altro orientamento, invece, le ragioni inerenti l'attività produttiva di cui all'art. 3 della I. n. 604 del 1966 possono derivare anche "da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all'incremento dei profitti ... opinare diversamente significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dall'art. 41 Cost., per il quale l'organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua configurazione dell'apparato produttivo, del quale il datore di lavoro ha il 'naturale' interesse ad ottimizzare l'efficienza e la competitività" (Cass. n. 10672 del 2007, in motivazione; conf. Cass. n. 12094 del 2007, in motivazione). Anche in precedenza si era avuto modo di affermare che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro "possono essere le più diverse" e non solo quelle che ne riconoscono la legittimità se "dirette a fronteggiare situazioni sfavorevoli" (Cass. n. 9310 del 2001, in motivazione), non potendosi distinguere nelle ragioni economiche a sostegno della decisione imprenditoriale "tra quelle determinate da fattori esterni all'impresa, o di mercato, e quelle inerenti alla gestione dell'impresa, o volte ad una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto" (Cass. n. 5777 del 2003).
Più di recente si è considerato "estraneo al controllo giudiziale il fine di arricchimento, o non impoverimento, perseguito dall'imprenditore, comunque suscettibile di determinare un incremento di utili a beneficio dell'impresa e, dunque, dell'intera comunità dei lavoratori" (Cass. n. 23620 del 2015). Sulla medesima linea - peraltro dubitandosi che questa Corte abbia mai fatto applicazione, nel concreto delle fattispecie esaminate, del principio per il quale l'imprenditore possa licenziare un dipendente solo per evitare perdite e non anche per mantenere o incrementare profitti - si è sostenuto: "l'assunto secondo cui il datore di lavoro dovrebbe provare la necessità della contrazione dei costi dimostrando l'esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato, a tal fine non bastando una sua autonoma scelta in tal senso, si dimostra infondato vuoi perché tale necessità non è imposta dalla lettera e dallo spirito dell'art. 3 cit., vuoi perché l'esegesi proposta è incompatibile con l'art. 41 co. 1° Cost. che lascia all'imprenditore (con il limite di cui al cpv. dello stesso articolo) la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi a fini di incremento della produttività
aziendale. Diversamente opinando e cioè supponendo come indispensabile, affinché si possa ravvisare un giustificato motivo oggettivo, che l'impresa versi in sfavorevoli situazioni di mercato superabili o mitigabili soltanto mediante una riorganizzazione tecnico-produttiva e il conseguente licenziamento d'un dato dipendente, bisognerebbe ammetterne la legittimità esclusivamente ove essa tenda ad evitare il fallimento dell'impresa e non anche a migliorarne la redditività. Ma sarebbe -questa- una conclusione costituzionalmente impraticabile e illogica: in termini microeconomici, nel lungo periodo e in un regime di concorrenza, l'impresa che ha il maggior costo unitario di produzione è destinata ad essere espulsa dal mercato" (Cass. n. 13516 del 2016; in senso sostanzialmente conforme si è espressa altresì, in motivazione, Cass. n. 15082 del 2016). In analoga prospettiva appaiono collocarsi nel corso del tempo quelle molteplici decisioni che, senza concretamente indagare sulla preesistenza di una situazione sfavorevole, riconducono ad un giustificato motivo oggettivo di licenziamento la soppressione del posto seguita alla cd. esternalizzazione dell'attività a terzi (Cass. n. 6222 del 1998; Cass. n. 13021 del 2001; Cass. n. 18416 del 2013) ovvero alla ripartizione delle mansioni tra il personale già in forza all'azienda (Cass. n. 24502 del 2011; Cass. n. 18780 del 2015; Cass. n. 14306 del 2016; Cass. n. 19185 del 2016, tutte in motivazione; per il caso di soppressione parziale delle mansioni v. Cass. n. 6229 del 2007; Cass. n. 11402 del 2012). 4.3.— Tratti comuni ad entrambi gli orientamenti sono rappresentati dal controllo giudiziale sull'effettività del ridimensionamento e sul nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato. Parimenti costituisce limite al potere datoriale costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità quello identificato nella non pretestuosità della scelta organizzativa. E' così costante l'affermazione secondo cui: "il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l'ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell'impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore; ne consegue che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato" (Cass. n. 24235 del 2010; Cass. n. 15157 del 2011; Cass. n. 7474 del 2012; tra le recenti conformi: Cass. n. 18409 del 2016; Cass. n. 16544 del 2016; Cass. n. 6501 del 2016; Cass. n. 12242 del 2015; Cass., ord. VI sez., n. 25874 del 2014, queste ultime sempre in motivazione). 5.— Tanto premesso, la Corte ritiene che debba essere data continuità, al fine di consolidarlo, al secondo orientamento innanzi delineato. 5.1.— Ai sensi dell'art. 3 della I. n. 604 del 1966, nella parte che qui rileva, "il licenziamento per giustificato motivo ... è determinato ... da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa". L'interpretazione letterale della norma, da cui occorre necessariamente muovere, esclude che per ritenere giustificato il licenziamento per motivo oggettivo debba ricorrere, ai fini dell'integrazione della fattispecie astratta, un presupposto fattuale - che il datore di lavoro debba indefettibilmente provare ed il giudice conseguentemente accertare - identificabile nella sussistenza di "situazioni sfavorevoli" ovvero di "spese notevoli di carattere straordinario", cui sia necessario fare fronte. Dal punto di vista dell'esegesi testuale della disposizione è sufficiente che il licenziamento sia determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, tra le quali non possono essere aprioristicamente o pregiudizialmente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività d'impresa. Non è quindi necessitato che si debba fronteggiare un andamento economico negativo o spese straordinarie e non appare pertanto immeritevole di considerazione l'obiettivo aziendale di salvaguardare la competitività nel settore nel quale si svolge l'attività dell'impresa attraverso le modalità, e quindi la combinazione dei fattori della produzione, ritenute più opportune dal soggetto che ne assume la responsabilità anche in termini di rischio e di conseguenze patrimoniali pregiudizievoli.
5.2.— La diversa interpretazione, infatti, non trova riscontro in dati interni al dettato normativo bensì viene patrocinata sulla base di elementi extra-testuali e di contesto e trae origine nella tesi dottrinale della extrema ratio secondo cui la scelta che legittima l'uso del licenziamento dovrebbe essere "socialmente opportuna". Tale lettura tuttavia non appare innanzitutto costituzionalmente imposta. In una pluridecennale giurisprudenza la Corte costituzionale ha avuto occasione di affermare - in estrema sintesi e per quanto qui rileva - che nell'art. 4 Cost. non è dato rinvenire un diritto all'assunzione o al mantenimento del posto di lavoro; che l'indirizzo di progressiva garanzia del diritto del lavoro previsto dall'art. 4 e dall'art. 35 Cost. ha portato nel tempo ad introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro; che tuttavia tali garanzie sono affidate alla discrezionalità del legislatore, non solo quanto alla scelta dei tempi, ma anche dei modi attuazione, in rapporto alla situazione economica generale (cfr. Corte cost. n. 45 del 1965; n. 194 del 1970; n. 129 del 1976; n. 189 del 1980; n. 2 del 1986; n. 46 del 2000; n. 541 del 2000; n. 303 del 2011). In assenza di una specifica indicazione normativa, la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione non consente di riempire di contenuto l'art. 3 della I. n. 604 del 1966 sino al punto di ritenere precettivamente imposto che, nel dilemma tra una migliore gestione aziendale ed il recesso da un singolo rapporto di lavoro, l'imprenditore possa optare per la seconda soluzione solo a condizione che debba fare fronte a sfavorevoli e non contingenti situazioni di crisi. L'art. 41, co. 3, Cost., riserva al legislatore il compito di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Fermo restando il vincolo invalicabile per cui l'iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, essa "è libera" (art. 41, co. 1, Cost.), nei limiti stabiliti dal legislatore al quale non può sostituirsi il giudice. Non pare dubbio che spetta all'imprenditore stabilire la dimensione occupazionale dell'azienda, evidentemente al fine di perseguire il profitto che è lo scopo lecito per il quale intraprende. Tale scelta è sicuramente libera nel momento genetico in cui nasce l'azienda e si instaurano i rapporti di lavoro in misura ritenuta funzionale allo scopo.
Anche durante la vita dell'azienda la selezione del livello occupazionale dell'impresa rimane libera e non può essere pertanto sindacata al di fuori dei confini stabiliti dal legislatore, non essendo affidato al giudice il compito di contemperare ex post interessi confliggenti stabilendo quello ritenuto prevalente se un tale potere non trova riscontro nella legge. In altre parole se è vero che, in via meramente ipotetica, la norma potrebbe stabilire - nella cornice costituzionale innanzi detta - che il licenziamento per motivo oggettivo possa ritenersi giustificato solo in presenza di una accertata crisi d'impresa, è anche vero che ove ciò non faccia espressamente, come nel caso dell'art. 3 della I. n. 604 del 1966, tale condizione non è ricavabile aliunde in via interpretativa. Compete al legislatore sancire se il fine sociale cui può essere coordinata o indirizzata l'attività economica anche privata, nella scelta tra una più efficiente gestione aziendale ed il sacrificio di una singola posizione lavorativa, debba necessariamente seguire la strada di inibire il licenziamento individuale, fermo restando che chi legifera può diversamente ritenere che l'interesse collettivo dell'occupazione possa essere meglio perseguito salvaguardando la capacità gestionale delle imprese di fare fronte alla concorrenza nei mercati e che il beneficio attuale per un lavoratore a detrimento dell'efficienza produttiva possa piuttosto tradursi in un pregiudizio futuro per un numero maggiore di essi. Non spetta al giudice, in presenza di una formula quale quella dettata dall'art. 3 più volte citato, surrogarsi nella scelta, con riferimento alla singola impugnativa di licenziamento, tenuto conto altresì della inevitabile mancanza di strumenti conoscitivi e predittivi che consentano di valutare quale possa essere la migliore opzione per l'impresa e per la collettività. Egli, così, non può essere legittimato a gravare l'impresa di costi impropri o non dovuti in base alla legge, quando piuttosto la Costituzione investe i poteri pubblici del compito di perseguire l'interesse collettivo dell'occupazione, tenuto altresì conto che la prospettiva individuale della difesa del singolo rapporto di lavoro potrebbe anche pregiudicare, come già è stato osservato da Cass. n. 23620 del 2015 cit., l'intera comunità dei lavoratori dell'azienda interessata. Del resto le considerazioni esposte non presentano alcun carattere di reale novità nella giurisprudenza di questa Corte la quale ha costantemente ribadito il principio, comune ad entrambi gli orientamenti in discorso, che la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro "non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità", in ossequio proprio all'art. 41 Cost.. Orbene, il controllo sulla necessità o sulla inevitabilità del singolo recesso sottende un sindacato su congruità ed opportunità della scelta organizzativa nella misura in cui si ritenga che la soppressione del posto sia sempre eludibile quando non vi è crisi d'impresa o perdita di bilancio. Pertanto esigere la sussistenza di una situazione economica sfavorevole per rendere legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo significa inserire nella fattispecie legale astratta disegnata dall'art. 3 della I. n. 604 del 1966 un elemento fattuale non previsto, con una interpretazione che trasmoda inevitabilmente, talvolta surrettiziamente, nel sindacato sulla congruità e sulla opportunità della scelta imprenditoriale. 5.3.— In proposito occorre rilevare che, secondo l'art. 30, co. 1, della I. n. 183 del 2010, applicabile al presente giudizio, in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nella materie del lavoro privato e pubblico "contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di ... recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro ...". Si rammenta che formule omologhe, ispirate dall'intento di delimitare l'intervento giudiziale sui poteri dell'imprenditore, sono contenute nella precedente I. n. 276 del 2003, sia all'art. 27, co. 3, in tema di somministrazione, sia all'art. 69, co. 3, in tema di lavoro a progetto. Con l'art. 1, co. 43 della I. n. 92 del 2012, pure vigente per il caso in esame, all'art. 30 cit. si è aggiunto che "l'inosservanza delle disposizioni di cui al precedente periodo, in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto". Il chiaro intento delle suddette formule legislative non ne autorizza, in particolare nella materia che ci occupa, una lettura minimizzante che archivia le disposizioni ivi contenute come assolutamente prive di qualsivoglia significato (cfr. Cass. n. 23620/2015 cit., in motivazione). La circostanza, da più parti evidenziata, che sia stata recepita in norma una opinione diffusa ed in giurisprudenza accolta circa il limite al sindacato giudiziale sulle scelte dell'impresa non può svilire l'attribuzione espressa del crisma della legalità, il quale conferisce al canone una portata interpretativa di assoluto rilievo nelle ipotesi in cui l'affermazione del principio tende a tradursi nella sua negazione all'atto dell'applicazione pratica. Pertanto, considerato che la situazione sfavorevole di mercato non risulta iscritta nell'art. 3 della I. n. 604 del 1966 quale presupposto di legittimità del licenziamento, ogni valutazione del giudice che ad essa attribuisca rilievo, implicando, per le ragioni esposte, una estensione "al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro", è preclusa dall'art. 30 citato e si traduce in una errata ricognizione del contenuto precettivo della fattispecie astratta mediante l'inserimento di un elemento non previsto, con conseguente censurabilità per violazione di norme di diritto a mente dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.. Invero è valutazione di merito quella che attribuisce a chi la esercita la facoltà di effettuare un giudizio comparativo tra più possibili soluzioni, selezionando quella che appare più confacente sotto il profilo organizzativo o produttivo e che connota la discrezionalità propria delle opzioni imprenditoriali, ove non altrimenti limitate dalla legge. Non è tale, invece, quella che riguarda l'esistenza stessa di una ragione organizzativa o produttiva che riconduce la decisione datoriale alla giustificazione che la legge postula per l'esercizio del potere; valutazione quest'ultima che non presuppone alcun giudizio comparativo ma solo un sindacato di effettività che il giudice può e deve svolgere. 5.4.— L'interpretazione accolta non palesa profili di tensione neanche con l'ordinamento dell'Unione europea.
L'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea sancisce che: "Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali". Come noto non è sufficiente che un diritto sia riconosciuto dalla Carta come "fondamentale", ma occorre che l'Unione abbia la competenza a disciplinarlo e che la stessa competenza sia stata in concreto esercitata, atteso che la Corte di Giustizia ha evidenziato come essa, per quanto riguarda la Carta, non possa valutare una normativa nazionale che non si collochi nell'ambito del diritto dell'Unione (tra le altre: CGUE, Fransson, C-617/2010, Grande Sezione del 26 febbraio 2013; CGUE, Emiliano Torralbo Marcos, 27 marzo 2014, C-265/13; Corte Cost. n. 80 del 2011; Cass. SS.UU. n. 9595 del 2012).
Sebbene la tutela dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro sia uno dei mezzi per raggiungere gli obiettivi fissati dall'art. 151 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione e il legislatore dell'Unione sia competente in tale settore in base alle condizioni di cui all'art. 153 dello stesso Trattato, vi è una direttiva che riguarda i licenziamenti collettivi ma non quelli individuali rispetto ai quali detta competenza non è stata esercitata (CGUE, Polfer, C-361/07 del 16 gennaio 2008, punto 13). Inoltre l'art. 30 cit. si limita a proclamare il diritto del lavoratore ad una tutela in caso di licenziamento ingiustificato, lasciando al legislatore comunitario ed a quello nazionale il compito di dare concretezza al contenuto ed agli scopi del principio enunciato. Anche la Carta sociale europea (ratificata con I. n. 30 del 1999), all'art. 24, si limita a stabilire l'impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo e tra essi pone quello "basato sulle necessità di funzionamento dell'impresa". Pure riguardo alla Carta sociale, peraltro, la Corte di Giustizia si è dichiarata incompetente a pronunciarsi in materia di interpretazione di norme di diritto internazionale che vincolano gli Stati membri, ma esulano dalla sfera del diritto dell'Unione, non sindacando un patto di prova rispetto al quale non era stato dimostrato un nesso con l'ordinamento comunitario (CGUE, Grima Janet Nisttahuz Poclava, C-117/2014 del 5 febbraio 2015, punto 43 e giurisprudenza ivi citata). 5.5.— In definitiva la ragione inerente all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa. Senza carattere di esaustività, ma solo in via esemplificativa sulla scorta di casi già esaminati dalla Corte ed innanzi richiamati, la modifica della struttura organizzativa può essere colta nella soppressione della funzione cui il licenziato era addetto, nella cd. esternalizzazione della sua attività a terzi, nella ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forze, nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto. La circostanza che tali effetti di ristrutturazione organizzativa possano essere originati dall'obiettivo di una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero finalizzati ad un incremento della redditività d'impresa (e quindi eventualmente del profitto) e non solo determinati dalla necessità di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli non contingenti oppure a spese straordinarie non significa affatto che la decisione imprenditoriale sia sottratta ad ogni controllo e sfugga a ben precisi limiti. Innanzitutto, in ossequio all'insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte, non vi è effettiva soppressione del posto di lavoro nel caso in cui avvenga una mera sostituzione del dipendente licenziato con altro lavoratore assunto a minor costo, perché retribuito meno per lo svolgimento di identiche mansioni (Cass. SS.UU. n. 3353 del 1994; conf. Cass. n. 3899 del 2001; da ultimo Cass. n. 13516 del 2016, in motivazione, secondo cui La combinazione di siffatti controlli e limiti, oltre le comuni tutele del lavoratore dagli atti illeciti o discriminatori del datore, esclude che il potere di questi di risolvere il rapporto per motivazioni economiche possa essere assimilato ad un recesso ad nutum frutto di scelte autosufficienti ed insindacabili dell'imprenditore. Alla stregua delle esposte considerazioni la sentenza impugnata che, in mancanza di prova da parte del datore di lavoro dell'esigenza di fare fronte a sfavorevoli e non contingenti situazioni economiche ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario, ha ritenuto non sufficiente ai fini della legittimità del licenziamento del Tanganelli "la dimostrazione dell'effettività della riorganizzazione" che pure risultava coerente con la motivata esigenza tecnica di rendere più efficiente la gestione aziendale, deve essere cassata in accoglimento dei primi due motivi di ricorso.
8.— In conclusione, in relazione ai primi due motivi di ricorso accolti, dichiarato inammissibile il terzo ed assorbito il quarto, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio al giudice indicato in dispositivo il quale si uniformerà al seguente principio di diritto: "Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della I. n. 604 del 1966, l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa; ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando l'esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall'imprenditore".

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