Le copie delle buste paga sono sufficienti per l'ammissione al passivo?
In tema di prova documentale, le copie delle buste paga rilasciate al lavoratore dal datore di lavoro, ove munite dei requisiti previsti dall'art. 1, comma 2 della L. 5 gennaio 1953 n. 4, vale a dire, alternativamente, della firma, della sigla o del timbro del datore, hanno piena efficacia probatoria del credito che il dipendente intenda insinuare al passivo della procedura fallimentare riguardante il suo datore di lavoro. Un simile valore probatorio discende non tanto dal disposto degli artt. 2709 e 2710 c.c. (dato che al curatore fallimentare, che agisca non in via di successione in un rapporto precedentemente facente capo al fallito, ma nella sua funzione di gestione del patrimonio di costui, non è opponibile l'efficacia probatoria tra imprenditori delle scritture contabili regolarmente tenute) o dalla applicazione dell'art. 2735 c.c. (atteso che, nell'ambito dell'accertamento del passivo, il curatore, quale rappresentante della massa dei creditori, si pone in posizione di terzietà rispetto all'imprenditore fallito), ma dal fatto che il contenuto delle buste paga è obbligatorio e sanzionato in via amministrativa e, come tale, è di per sé sufficiente a provare il credito maturato dal lavoratore. Tali principi presuppongono, tuttavia, che il libro unico del lavoro sia stato tenuto in modo regolare e completo; ne discende che il curatore non solo è abilitato a confutare il valore probatorio del medesimo libro a motivo della sua irregolare formazione, ma può anche contestarne le risultanze con mezzi contrari di difesa o, semplicemente, con specifiche deduzioni e argomentazioni volte a dimostrarne l'inesattezza, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice.
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