martedì 11 settembre 2018


La cessazione di attività prevale sul divieto di licenziamento?



Cass. civ. Sez. lavoro, 26/07/2005, n. 15643 

Con riferimento a licenziamento intimato all'esito della procedura di mobilità regolata dalla legge n. 223 del 1991, che trova applicazione - per espressa previsione dell'art. 24 dello stesso normativo - anche ai licenziamenti conseguenti alla chiusura dell'insediamento produttivo, atteso che, per effetto di tale estensione, la tutela opera nei limiti della compatibilità di tale disciplina con i risultati in concreto perseguibili in relazione alla cessazione dell'attività aziendale e cioè, ferma restando l'insindacabilità della libera scelta dell'imprenditore di cessare l'attività, al fine di consentire il controllo sindacale sulla effettività della scelta medesima, non sussiste alcun ostacolo all'operatività della garanzia posta, con previsione di carattere generale, dall'art. 2110, comma secondo cod. civ., che stabilisce la temporanea inefficacia del recesso intimato prima della scadenza del periodo di comporto. 

Motivazione 

l. Con il primo motivo la parte ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell'art. 112 cod.proc.civ., per l'omesso esame di un capo della domanda proposta dalla società Lamer per l'accertamento della legittimità ed efficacia del licenziamento del resistente. Nella controversia la questione dell'applicabilità nella fattispecie della tutela dell'art. 2110 cod.civ. era stata posta sia in relazione alla dedotta cessazione dell'attività imprenditoriale della società, sia sotto il profilo della effettiva sussistenza di uno stato di malattia del Falco. 

La parte richiama le contestazioni mosse fin dall'introduzione del giudizio di primo grado per questo profilo, non esaminato dal primo giudice (in quanto ritenuto assorbito dalla soluzione della questione sotto l'altro aspetto), e la riproposizione della questione in appello da parte della società appellata. 

Viene così criticata l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui l'esistenza dello stato di malattia del Falco non aveva costituito oggetto di alcuna censura. 

2. Con il secondo motivo si denuncia un vizio di motivazione circa l'accertamento dell'idoneità della malattia denunciata ai fini dell'applicazione della tutela dell'art. 2110 cod.civ.; la parte richiama in particolare le specifiche critiche mosse alla consulenza tecnica espletata in ordine all'infermità del lavoratore. 

3. n terzo motivo, mediante la denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 2110 cod.civ., anche in relazione all'art. 2 della legge n. 1204/1971, investe la statuizione relativa all'inefficacia del licenziamento - intimato al Falco nell'ambito di una procedura di mobilità ai sensi della legge n. 223/1991 - sino al termine della malattia del ricorrente o al superamento del periodo di comporto. 

La parte critica le affermazioni della sentenza impugnata che, dopo aver negato l'assimilabilità dell'ipotesi di scioglimento della società a quella della sua cessazione, ha ravvisato nella ipotesi prevista dall'art. 2 della legge 1204/1971 in tema di licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza o puerperio (consentito nel caso di cessazione dell'attività aziendale) e in quella di licenziamento per sopravvenuta inidoneità permanente del lavoratore, operante indipendentemente dalla scadenza del termine di comporto, delle deroghe di carattere eccezionale al divieto di cui all'art. 2110 cod.civ., non suscettibili di interpretazione estensiva o in via analogica. 

Si rileva, in particolare, che il giudice dell'appello ha erroneamente considerato rilevante, quale causa di impossibilità definitiva della prestazione, non la cessazione dell'attività di impresa in quanto tale, ma l'estinzione della società. Si sostiene poi che la tutela dell'art. 2110 2^ comma cod.civ. non può operare quando l'effetto sospensivo derivante dalla sua applicazione contrasta con una situazione di definitiva impossibilità della prosecuzione del rapporto per la cessazione dell'attività di impresa, con il venir meno del substrato materiale del rapporto di lavoro. 

4. Con il quarto motivo si denuncia, con riferimento alla stessa statuizione, un vizio di motivazione in ordine alla rilevata impossibilità di interpretazione estensiva delle suddette ipotesi di deroga al disposto dell'art. 2110 secondo comma cod.civ.. 

5. Nell'ordine logico è opportuno esaminare anzitutto congiuntamente il terzo e quarto mezzo, che non meritano accoglimento per le seguenti ragioni. 

La difesa della società ricorrente richiama gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza in tema di configurabilità di un caso di estinzione del rapporto di lavoro per impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1463 e 1256 cod.civ.) quando la cessazione dell'attività aziendale, con la disgregazione del relativo patrimonio e la perdita di disponibilità della struttura organizzata per l'esercizio dell'impresa, faccia venire meno il substrato della prestazione lavorativa precludendo l'utilizzazione della stessa. 

La fattispecie in esame riguarda peraltro un licenziamento intimato nell'ambito di una procedura di mobilità regolata dalla legge 23 luglio 1991 n. 223, che trova applicazione - per espressa previsione dell'art. 24, 2^ comma dello stesso testo normativo - anche quando le imprese assoggettate a tale disciplina "intendano cessare l'attività". 

L'applicazione della disciplina della procedura di mobilità si estende dunque, ai sensi della norma citata, anche ai licenziamenti collettivi conseguenti alla chiusura dell'insediamento produttivo; 

tale tutela opera nei limiti della sua compatibilità con i risultati in concreto perseguibili in relazione alla cessazione dell'attività aziendale, e cioè, ferma restando l'insindacabilità della libera scelta dell'imprenditore di cessare detta attività, per consentire il controllo sindacale sulla effettività della scelta medesima (al fine di evitare elusioni del dettato normativo concernente i diritti dei lavoratori alla prosecuzione del rapporto nel caso in cui la cessazione dell'attività dissimuli la cessione dell'azienda o la ripresa dell'attività stessa sotto diversa denominazione o in diverso luogo), mentre d'altro canto la messa in mobilità risulta collegata agli ulteriori meccanismi predisposti per la ricollocazione dei lavoratori, al fine di assicurare loro la tutela previdenziale e sociale (cfr. Cass. 4 novembre 2000 n. 14416, 9 aprile 2003 n. 5516, 10 maggio 2003 n. 7169, 19 agosto 2003 n. 12143, 22 marzo 2004 n. 5700). 

Data la tutela assicurata in questo assetto normativo anche nell'ipotesi di definitiva cessazione dell'attività aziendale, non si prospetta, in relazione al licenziamento intimato al lavoratore all'esito della procedura di mobilità, alcun ostacolo all'operatività della garanzia posta, con previsione di carattere generale, dall'art. 2110, 2 comma cod.civ., che stabilisce la temporanea inefficacia del recesso intimato prima della scadenza del periodo di comporto. 

6. Vanno ora esaminati congiuntamente il primo e il secondo motivo, che meritano accoglimento. 

La Corte territoriale, decidendo sull'appello proposto dal Falco avverso la statuizione di rigetto del primo giudice, ha rilevato che la patologia del lavoratore, documentata nei certificati medici, era, secondo quanto accertato dal C.T.U., tale da impedire la prosecuzione dell'attività lavorativa, affermando poi che "la questione non è stata oggetto di alcuna censura e deve, pertanto, ritenersi incontrovertibile". 

La sentenza risulta così affetta dal denunciato vizio di motivazione, perchè la questione della effettiva sussistenza di uno stato di infermità, tale da determinare una incapacità lavorativa - ritenuta assorbita dal primo giudice - era stata riproposta in appello dall'attuale ricorrente, con specifiche critiche ai risultati della indagine peritale già svolta (anche con il richiamo ad una consulenza tecnica di parte). Il giudice dell'appello doveva quindi tener conto di queste allegazioni, compiendo i necessari accertamenti in ordine al punto ancora controverso. 

7. Il ricorso deve essere accolto per quanto di ragione, con la cassazione della sentenza impugnata in relazione al profilo di censura accolto; la causa deve essere rinviata ad altro giudice che procederà a nuova indagine sulla base di quanto rilevato al punto precedente. 

Il giudice del rinvio, designato come in dispositivo, provvedere anche sulle spese del presente giudizio.

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